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di Sandro Moiso

Shane Stevens, Io ti troverò, Fazi 2010, pp.798, € 19,550

Ottocento pagine.
Tante, ma non troppe.
Anzi, arrivati alla fine, si vorrebbe che il libro non finisse ancora.
E definirlo thriller rischia di essere estremamente riduttivo.
Queste sono le prime impressioni che suscita la lettura del romanzo di Shane Stevens, uno degli autori più misteriosi della letteratura americana degli ultimi cinquant’anni.

Nato a New York nel 1941, Stevens scrive cinque romanzi tra il 1966 e il 1985. Poi si ritira e fa perdere ogni traccia di sé.
Nel 2007 scompare definitivamente dal mondo dei vivi.
Io ti troverò” è il suo penultimo romanzo, scritto nel 1979.
Forse il più importante e sicuramente seminale per gran parte della letteratura di genere successiva.


Anche se Stephen King ne ha scritto l’elogio dieci anni dopo, in appendice al suo “La metà oscura”, l’autore che, sicuramente, più è debitore nei confronti dello stile del quasi invisibile scrittore di New York è James Ellroy.
Sarebbero impensabili le sue saghe poliziesche ambientate negli Stati Uniti degli anni cinquanta e sessanta senza l’opera di Stevens.

Molto si è parlato in Italia, e non solo, di come i romanzi noir abbiano finito col sostituire, nel corso degli ultimi decenni, i romanzi realistici e di analisi sociale.
James Ellroy ha portato quest’arte alle sue estreme conseguenze, in particolare nella trilogia che ripercorre gli anni sessanta dall’ascesa e caduta dei Kennedy fino al terrorismo dei Weathermen.
Narrazione asciutta e quasi estraniata, fine dei buoni sentimenti e trionfo del calcolo economico e politico ne costituiscono, infatti, la cifra più evidente.

Ma è proprio “Io ti troverò” ad anticiparne lo stile ed i temi, facendo sprofondare il lettore nel clima dei primi anni settanta, tra l’esplodere dello scandalo politico del Watergate e la fine del rovinoso conflitto vietnamita.
Romanzo circolare, paragonabile al breve “Hadji Murat” pubblicato da Leone Tolstoj nel 1904, che vede la trama svilupparsi a partire dalle vite più periferiche dell’Impero per giungere al centro del potere dello stesso per poi tornare, in fine, alla periferia.

Perché è evidente che le vere tragedie avvengono lontane dai palazzi del potere.
Lontane anche, spesso, da una collocazione di classe ben definita.
Là dove si sviluppano le zone d’ombra della crisi economica e della povertà endemica, dell’ignoranza, della repressione sessuale, delle violenze domestiche e della solitudine.
Quello che Stephen King ha definito “il lato oscuro del sogno americano”.

Perché questa non è soltanto la storia di uno dei più terrificanti e folli serial killer mai usciti dalla penna di uno scrittore. E’ il ritratto di un’America bigotta, avida di denaro, di successo e di potere; terrorizzata da fantasmi e demoni creati dal puritanesimo dei Padri Pellegrini ed amplificati dai massacri, dalle stragi e dalle distorsioni psichiche prodotte dalla guerra, perduta, nel Sud-est asiatico.
E Stevens lo dichiara esplicitamente fin dalla scelta delle epigrafi.

Ma il protagonista non è il solito reduce di guerra impazzito.
E’ un uomo, un essere umano, rinchiuso dall’età di dieci anni fino all’età adulta in un manicomio criminale: Thomas Bishop.
E non è un altro Hannibal Lecter, è soltanto un autentico alieno, completamente separato dal mondo che lo circonda.

Non c’ è in lui alcun barlume di ragione, solo l’astuzia dell’animale braccato.
E’ la furia di un bambino, che ha perso l’innocenza senza mai diventare realmente adulto, a determinare la sua pianificazione omicida e sono demoni interiori ed incubi innominabili a guidarlo.
E’ un fantasma sanguinario che si aggira per le strade d’America, percorrendola tutta dalla California a New York. Mentre intorno a lui ruotano altri fantasmi d’eccezione.

Quello di Nixon ormai sul viale del tramonto e quello di una guerra lontana.
Quelli creati dalla televisione, attraverso i quali, come nel mito platonico della caverna, Thomas raccoglie le uniche informazioni sul mondo “reale”.
Primo fra tutti, però, il fantasma di Caryl Chessman, uno dei pochi uomini ad essere stato condannato a morte senza nemmeno una accusa di omicidio.
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Un caso che, oltre che giudiziario, divenne anche letterario ad opera dello stesso Chessman che, tra il 1948 (anno dell’arresto) e il 1960 (anno dell’esecuzione), scrisse ben quattro libri sulla propria vicenda. Vicenda che ebbe inizio in un’adolescenza trascorsa tra un riformatorio e l’altro ed un processo, quello che si concluse con la condanna a morte, segnato da orrori, più che errori, procedurali inauditi e durante il quale l’accusato cercò di difendersi da solo.

Thomas si identifica in Caryl, giunge a pensare di esserne il figlio, così come la già disgraziatissima madre aveva creduto di esser stata violentata dal bandito della “luce rossa” (soprannome dato a Chessman dalla stampa). Ma tutto ciò, nel romanzo, non serve che a far riflettere sull’uso cinico e spettacolare dei media, sui miti da essi creati, tutti tesi allo scoop, all’articolo sensazionalistico destinato a conquistare l’attenzione di una fascia di pubblico più ampia.

Senatori repubblicani a caccia di celebrità attraverso campagne a favore della pena di morte, delinquenti incalliti che cercano di far combaciare i propri interessi con quelli della politica, governanti preoccupati della propria stabilità anche mentre tutto precipita, società immobiliari prive di scrupoli che coinvolgono nei propri loschi affari politici ad ogni livello e direttori di giornali ed una polizia incapace di andare al di là del dato più scontato pur di risolvere il caso in fretta, costituiscono non solo il contorno del dramma, ma ne forniscono la giusta dimensione socio-politica.

Poi vengono le donne, o forse prima: uccise barbaramente, sole, frustrate, con le loro speranze deluse o infrante. Comunque sempre e solo cittadine di serie B, proiezioni di un immaginario maschile che le relega ad essere oggetto del desiderio e di un rapido consumo erotico, in qualsiasi ambito sociale. Destinate a riflettere lo sguardo che gli uomini posano, spesso casualmente, su di loro oppure a subirne le infinite violenze. Non solo fisiche.

E’ un male profondo quello che percorre le pagine del romanzo.
Un male che va ben al di là dell’azione, estrema e mortificante, dell’assassino seriale.
E’ un male insito nell’ American way of life, oggi così diffuso, che rende la vicenda ancora attuale a distanza di trent’anni dalla prima pubblicazione.
E il killer non è che un prodotto di tutto ciò, il più mostruoso, ma forse non il peggiore.

Di ciò si rende conto l’antagonista, Adam Kenton, il giornalista che riuscirà a comprenderne le modalità d’azione e l’identità. Ma che per fare questo dovrà scoprire all’interno della propria mente pulsioni simili e ricordare un’infanzia, forse, altrettanto disgraziata di quella di Thomas. E che, come l’assassino, dovrà nascondere le proprie azioni anche agli occhi di coloro che gli hanno dato l’incarico di smascherarlo per realizzare il reportage del decennio.

In un mondo dominato dal caso e da una interpretazione dei fatti inficiata da mille, fuorvianti, pregiudizi, Adam sarà anche l’unico a provare pietà per il mostro.
E come il lettore, che pur è onnisciente fin dalle prime pagine, sarà travolto dal colpo di scena finale.