di Dziga Cacace

Welcome to the camp, I guess you all know why we’re here
The Who,
We’re Not Gonna Take It

ddv1701.jpg201 — The Kingdom del geniale paramedico Lars von Trier, Danimarca/Svezia 1994

È un sabato indolente. A Milano fa un caldo predesertico e io mi trascino per casa come uno zombie, in preda al raffreddore e al mal di testa. Ci viene a trovare l’Alessandra e bisogna trovare un’idea per svoltare la serata. Comincio a snocciolare i miei temibili titoli muti, in bianco e nero e possibilmente sovietici e lei non batte ciglio. Dovrebbe essere questa la mia donna, cazzo, altro che la cugina Barbara! Poi, quando declamo The Kingdom II c’è una hola generale accompagnata da mortaretti. Mangiamo una pizza (ma io mi tengo leggero con speck e brie). (Una pizza con speck e brie, ovviamente) e poi si parte. La versione del Regno II in mio possesso è in versione originale (danese), con sottotitoli in francese. Manca giusto un dito in culo con sabbia. Boccheggio di fronte all’edizione babelica ma l’amore per Lars è tale che stringo i denti. Però poi ci si mette Barbara che comincia a farci domande sui personaggi: e chi è questo, e quell’altro dove l’ho visto, e com’era andata a finire in The Kingdom. E allora rivediamolo questo Regno I, dài!, e rimandiamo la visione del secondo episodio a serate con mente più fresca.


Per chi avesse vissuto sulla luna: il Regno è un ospedale di Copenaghen frequentato da uno splendido cast: Stig Helmer, medico svedese che ha rovinato una ragazzina e che odia la Danimarca; Moesgaard, primario completamente coglione, e suo figlio, studente svogliato e arrapato dalle infermiere; la signorina Drusse che incontra il fantasma vagante di una bimba morta settant’anni prima e ora conservata in formalina dall’anatomopatologo Bondo, che per amore della ricerca si impianta un fegato devastato da un tumore; Krogshoj, amico di tutti che vive nei magazzini dell’ospedale ed è innamorato di Judith, dottoressa incinta di un feto troppo precoce. E poi ci sono ancora altri matti, sarcastici, imprevedibili danesi, tutti immersi in un’atmosfera viscosa come la panna che mettono nei loro piatti. Ne risulta che The Kingdom sia un capolavoro multitasking, un’opera televisiva che è anche grandissimo cinema. Tutto il film è montato con falsi attacchi e scavalcamenti di campo: non importa, prevale ciò che viene detto e mostrato. Anzi, questo disordine, questa imperfezione, sono l’adeguato linguaggio per una storia che ribalta la tranquillizzante ottica della tivù. Qui non c’è il realismo (supposto, perlomeno) di E.R., la caciara low cost di Un medico in famiglia o lo zucchero de La dottoressa Giò o come si chiama quella là. Qui ci sono errori fatali, incurie, interessi personali, odi reciproci, sgambetti professionali, dipendenze inconfessabili e porcate di tutti i tipi. E c’è la morte, la malattia, il dolore, il sangue, la sporcizia, morale e fisica. Gli unici che percepiscono la verità sono i due ragazzi mongoloidi che puliscono i piatti nei sotterranei dell’ospedale. Lontani dalla superficie ma molto più acuti a capire la verità, a intuirne i percorsi. Paura e risate, soap opera e horror, Dogma e stacchi pubblicitari: solo Von Trier poteva osare tanto e fare centro. Splendido. (Vhs originale; 13/10/01)

202 — Tutto quello che avreste voluto sempre sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere di Woody Allen, USA 1972 e la quadratura de Il cerchio di Jafar Panahi, Iran 2000

Prendendo spunto dal famoso best seller di Master e Johnson, Allen affronta in sette episodi alcuni conturbanti interrogativi. Non tutto è riuscito, ma le botte di genio ci sono eccome, a partire dalla prima storiellina, di ambientazione medievale: un buffone non viene trovato buffo dal suo Re, ma semmai viene trovato con la mano imprigionato nella cintura di castità della regina. Cadrà una testa. Riuscita la traduzione in lingua simil Brancaleone, perfetti i tempi. Si passa poi alla triste vicenda di Gene Wilder, medico che s’innamora di una pecora. Abbandonato da tutti, anche da Daisy (la pecora), non gli resta che ubriacarsi di (clamoroso) Woolite. Poi l’inquietante domanda che sembra riguardi tutti noi maschi: perché alcune donne non raggiungono l’orgasmo? Allen risponde italian-style parodiando Antonioni e Fellini. È l’episodio più cerebrale e calligrafico (ma è già partita la rivalutazione: ho scoperto che nella versione originale i protagonisti si chiamano Fabrizio e Gina, in omaggio a quelli di Prima della rivoluzione di Bertolucci). Dopo ci si chiede se i travestiti siano omosessuali e Lou Jacobi, folle in sottoveste altrui quanto tetro nei suoi abiti maschili, ci dimostra che si può avere una sana vita di coppia pur godendo nel vestirsi da signora. Deboluccio perché si ferma quando potrebbe decollare. C’è poi una esilarante parodia televisiva, il quiz Qual è la tua perversione preferita?, e infine la clamorosa doppietta conclusiva. Prima l’episodio horror della “macro zinna”: castello isolato, scienziato pazzo con assistente gobbo e esperimento che va in vacca totale. Il nostro eroe Victor (Allen) deve affrontare una tetta gigante assieme a una splendida giornalista (Heather Macrae: un amore… dove sarai finita? Fatti viva!). Episodio gloriosamente stupido. E poi c’è l’apoteosi finale: il corpo umano è una centrale con sala comando e sale motori e c’è da affrontare un amplesso. Una volta rimosso un prete che insidiava la coscienza, il rapporto va a buon fine, tanto che la partner chiede il bis. Grandi anche i titoli di testa e coda con tanti conigli e Let’s Misbehave. Insomma, sarà stato per la mia condizione fisica e psichica comatosa, ma mi sono riconciliato con Woody che ultimamente mi ha deluso assai. Forse vedrò Il segreto dello scorpione di giada e dimenticherò Celebrity, Accordi e disaccordi e gli altri film minori dell’ultimo decennio. L’altro ieri ho visto anche la prima mezz’ora de Il cerchio, Leone d’oro di quel Panahi che già 4 anni fa mi aveva sfracellato le palle con Il palloncino bianco. Qui ci racconta del triste destino delle donne iraniane costrette a vivere in una società maschilista e lo fa infliggendoci una narrazione estenuante, fatto di domande senza risposte, dialoghi piagnucolati, ripetizioni. Ora: va bene, hai ragione, è una vergogna. Quello che vuoi, ma sono straconvinto che i premi vinti da Il cerchio non siano altro che l’ipocrita scelta di critici e registi (in giuria o nel generale apprezzamento manifestato su riviste) per mondarsi dai peccati davanti a una cinematografia limpida, pura, fatta realmente con due lire. Nel caso specifico Il cerchio è una tortura atroce, a ogni storia ne segue un’altra senza conclusioni particolari, lasciandoci l’insoddisfazione dei protagonisti che soffrono come lo spettatore. Adesso l’occidente bombarda l’Afghanistan e mentre si evidenzia già una nicchia di mercato (equo, pacifista e solidale) per un film come Viaggio a Kandahar, temo un futuro di film da cinema Anteo con cui pulirsi la coscienza (e io il culo, scusate), perché noi a ‘sti poveracci siamo sempre vicini, anche se solo al di qua dello schermo. Mah! (Vhs da Tele+; 17/10/01)

ddv1702.jpg204 — Gummo dell’inqualificabile (senza venir denunciato) Harmony Korine, USA 1997 e We Will Rock You: Queen Live In Concert di Saul Swimmer, USA 1982

La serata comincia con Gummo, film dalla fama maledetta che aveva shockato i più a un Festival di Venezia qualche anno fa. Mi ronza in testa il commento favorevole di Asia Argento, ma ci provo. E Gummo è esattamente questo: una continua provocazione, che se piglio il regista lo devasto di cazzotti, maledetto lui. Fotografato benissimo, racconta della stramba umanità di un paesino dell’entroterra yankee, devastato da una tromba d’aria. Percorso da due ragazzini che campano ammazzando gatti, Gummo è mortalmente noioso e compiaciuto. Ma non mi ha fatto cagare perché mette in scena morbosamente deformità, anormalità o cose lontane dal senso comune. Ciò che mi fa incazzare come una pantera non è che Korine ‘o fa strano, ma la presunzione che lo spettatore possa bearsi di questo inconsistente pappone finto alternativo, invece perfettamente aderente a certe logiche di mercato che vogliono il prodotto di nicchia sporco e cattivo, possibilmente estetizzante (si veda quell’altro insopportabile cialtrone di Araki). E magari ci scappa anche lo scandalo col pubblico borghese… ma vaffanculo, va’. E del resto Korine è lo sceneggiatore dell’infame Kids, film falso come Giuda e dal sottofondo moralista (e soprattutto maestosamente brutto). Dopo mezz’ora di Gummo ho deciso che non sono costretto a vedere i film fino in fondo, specie se firmati da una testa di ghisa. Barbara nel frattempo è caduta in letargo lasciandomi campo libero. E sai che faccio, io? Io mi vendico coi Queen, caro Korine, maledetto te e chi ti dà retta. Mi scoppio due ore della straordinaria ed eccessiva band inglese che spaziava dal glam all’hard rock alla disco alla facciaccia tua. Questo è un concerto tenuto a Montreal nel 1981, probabilmente una o due tournée dopo quella immortalata dal doppio album Live Killers, monumento ai Queen più duri, denso di improvvisazione e di watt. Qui fanno capolino molte ballate dei primi anni Ottanta, quando gospel, vaudeville e cori sinfonici si sono fusi magistralmente, tra melodie dolcissime e aspre contorsioni rock, trascinati dalla macha gayezza di Freddie Mercury, dalla chitarra liquida di Brian May, dal basso metronomico di John Deacon e dalla batteria potente di Roger Taylor. Qui c’è ancora tanto rock e non manca lo spazio per gli assoli di chitarra e batteria, ma si intravede già la svolta futura del gruppo, verso lidi pop. In ogni caso grandissima performance, ripresa con sobria semplicità. La regia (Swimmer aveva già girato il concerto per il Bangladesh) asseconda lo spettacolo che avviene sul palco: l’uragano Freddie è incontenibile, mentre May e Deacon ai suoi lati, suonano compìti. Dietro tutti c’è Taylor che canta come un forsennato (è la seconda voce principale, quella acuta) e pesta come un fabbro. Che può fare un regista davanti a questi perfetti entertainer? Farsi da parte and let the music do the talking, cosa buona e giusta. (Vhs originale; 24/10/01)

206 — Demoniaca del posseduto Richard Stanley, Gran Bretagna 1993

Io queste cose non è che le capisca proprio, però leggo ovunque che si tratta di film culto e dunque ci provo. Allora: c’è un demone, vestito come Walker Texas Ranger e assetato di sangue, che si aggira per il deserto della Namibia e pone fine alle esistenze malandate di tanti derelitti. Sinché il demone non incontra Wendy, anche lei su una brutta china, ma con ancora la forza per riscattarsi. Il demone verrà sconfitto, ma non del tutto: adesso sarà Wendy a girare minacciosa per le lande desertiche e con lo sguardo poco rassicurante, in cerca di qualche creatura da terminare. Mah! Di solito io non riesco a calarmi in una storia del genere. Non sospendo l’incredulità, anzi, comincio a dire: ma se è morto, perché cammina? Ed è chiaro che poi non mi godo una minchia. Però Demoniaca ha diversi pregi, come la sottile ironia sul mestiere del povero diavolo, costretto a dare soddisfazione alla sua sete di sangue, peraltro appagata con correttezza e sempre con persone che la morte la desiderano. Ma il vero motivo d’interesse è dato dall’ambientazione originale (nel deserto della Namibia, al confine col Sudafrica) e da tutti i motivi politici e culturali che confluiscono nella vicenda. Ai margini ci sono le lotte del Sudafrica e la differente percezione del soprannaturale nella cultura nera. I paesaggi mozzafiato, le ambientazioni inedite (la città morta) e la fotografia carica danno inoltre una fisionomia mai banale al film. Per cui, alla fin fine, Demoniaca si fa vedere sino in fondo e tiene più o meno sulla corda. E possibilmente lontano da Wendy. (Vhs da Tele+; 30/10/01)

ddv1702b.jpg207 — Cop Land del metaforico James Mangold, USA 1997

A Garrison, New Jersey, prospera una comunità di poliziotti di NYC che, dagli anni Settanta, vivono lì come una sorta di colonia autogestita. Lo sceriffo sa e non sa, ma a Garrison succedono cose brutte bruttissime. Lui, Stallone, preferisce voltarsi da un’altra parte. È sordo come una campana da un orecchio per un incidente di gioventù e, già che c’è, chiude anche un occhio. Ma succede che a New York un giovane poliziotto, nipote di Harvey Keitel, boss di Garrison, ammazzi due ragazzi di colore. Keitel riesce a far credere che il ragazzo si sia suicidato nello Hudson, ma in realtà se lo porta nel suo feudo. Nessuno se la beve e a Garrison arriva anche De Niro, poliziotto che investiga su poliziotti e che di Keitel e dei degni compari coalizzati sa tutto, ma non ha prove. De Niro aprirà gli occhi al perennemente umiliato Stallone che farà giustizia esemplare. La cosa più interessante di Cop Land è il discorso meta-hollywoodiano messo in piedi chissà con quanta complicità dei protagonisti. Seguitemi che adesso vi stupisco con effetti speciali: Stallone non capisce un cazzo (e sin qui…), ha sempre vissuto ai margini, accontentandosi; Harvey Keitel è livoroso col Sistema e si arrangia da sempre e solo in vecchiaia sembra godersi i frutti del duro lavoro; Ray Liotta è l’eterna promessa mancata, oggi sfatta di ciccia. Poi ci sono De Niro – che guarda tutti dall’alto verso il basso e che tutti giudica, senza però volersi sporcare le mani — e infine il giovane Rapaport — vittima predestinata di questo cast stellare. Questa aderenza tra personaggi e carriere degli attori mi sembra straordinaria e leggibilissima… o è solo una mia masturbazione mentale? Vabbeh, dài, non mi meritate. Gli attori sono azzeccati e bravi. Su Stallone è lecito il dubbio che la rigidità facciale non sia dovuta a uno sforzo attoriale, ma va bene così e basta. I personaggi sono ben costruiti, un po’ meno la vicenda che soffre di qualche snodo macchinoso e soprattutto di un finale schematico, col buono che si ribella e fa giustizia. Ma magari è anche questa una riflessione sui film di mafia e polizia, su Scorsese e sull’immaginario cinematografico della Grande Mela. Il personaggio di Stallone, imbolsito poliziotto che porta con onore la pancetta, gioca a flipper con le infradito e ascolta Glenn Gould e The River di Springsteen, intenerisce e convince. Film buono. (Diretta su RaiDue; 1/11/01)

ddv1703.jpg208 — Codice: Swordfish del furbacchione Dominic Sena, USA 2001

Sabato è il giorno peggiore per andare al cinema. Barbara insiste, io cedo e poi scopriamo che la sala dell’Odeon con l’ultimo Spielberg ha esaurito i posti con quaranta minuti di anticipo. Allora shiftiamo sulla sala 8 dove proiettano questo Codice: Swordfish di cui mi ha parlato bene Riccardo, il metallaro che ama Tarkovski e che — in definitiva — non capisce una mazza di cinema. In effetti il film è divertente (nell’ambito della stronzata, eh?), dura il giusto, non ti schifa nelle parti più becere, riesce a stupirti in quelle meglio riuscite. John Travolta è un principe del terrore internazionale e vuole fare il colpo miliardario, ma ha bisogno di uno hacker. Assolda il bravissimo Stanley che, dovendo ottenere la figlia in affidamento, farebbe qualunque cosa per tanto denaro. Travolta glielo promette e Stanley fa il suo dovere. Di mezzo l’FBI, forse la DEA e chissà chi altri, anche perché alla faccia di tutti, Travolta sembra morto ma continua il suo sporco mestiere: terrorista sí, ma a difesa degli interessi americani nel mondo. Insomma: la grande rapina era solo un semplice e veloce storno per continuare a lavorare nell’interesse di tutti, suo e nostro. Morale scomoda, abbastanza fantascientifica per farci una risata, ma anche inquietante quel giusto per intrigare. Codice: Swordfish è un film paraculo come pochi, con i buoni proprio buoni e il cattivo che è uno dei più efferati apparsi sullo schermo, e che tutto sommato rappresenta il nostro lato oscuro, quello che ci serve per levarci dai pasticci. Halle Berry esibisce le ubertose e sode minne in maniera totalmente gratuita e gratuitamente apprezzo la sincerità del regista che non s’inventa alcunché per giustificare tale spettacolo. Tra l’altro la povera Berry ha accettato un extra di 500mila dollari (oltre ai 2 milioni già pattuiti) per la scena. La sua motivazione è stata: “Volevo vincere la paura di apparire nuda”. Ah ah ah, geniale: vorrei liberarla dal timore del sesso tantrico, io. (Cinema Odeon, Milano; 3/11/01)

209 — La signora ammazzatutti di un John Waters lazzarone , USA 1994

Kathleen Turner è la tipica brava mamma americana, quella che prepara la torta di mele, ascolta i figli, coccola il marito e intrattiene rapporti di buon vicinato. Ma ha qualche disturbo. Non sopporta che le videocassette non vengano riavvolte, non tollera chi non ricicla correttamente i rifiuti, diventa matta di fronte alle piccole incrinature della vita di tutti i giorni. E io, a dirla tutta, non ci vedo niente di male, specialmente per quanto riguarda la faccenda delle vhs. La protagonista vede minacciata l’integrità familiare e della società? Reagisce con candore e fermezza: fa telefonate ingiuriose a chi le ha fregato il parcheggio, mette sotto con la Chevrolet l’insegnante di matematica troppo severo col figlio e ammazza un paziente del marito dentista, che abusa di dolci. In un crescendo di intolleranza, viene catturata e processata e assolta, perché chi la giudica non è meglio di lei. Fino al prossimo assassinio. Comicità graffiante messa in scena fidandosi troppo della propria intelligenza: La signora ammazzatutti diventa presto ripetitivo e soffre di una regia estremamente pigra, che rinuncia a elevare il livello dello scontro col buon gusto. Il cinema di Waters ha probabilmente senso così, squallido, brutto, sciatto come le cose che racconta, ma qui c’è anche la sensazione di una rinuncia alla vera provocazione, per acquattarsi nel caldo abbraccio del cinema demenziale mainstream. A me rimane la sensazione che il ragazzo non s’impegni come potrebbe. Film che però, anche se vale pochino, spesso diverte e che ci fa rivedere Traci Lords, precoce star del porno anni 80, di noto e grande entusiasmo partecipativo. (Diretta Italia 1; 3/11/01)

ddv1704b.jpg210 — Ogni lasciato è perso del querulo Piero Chiambretti, Italia 2001

La televisione scorre, è un flusso impreciso di vaccate, ma è fatta con poco e dura poco (in altre parole: fa schifo, ma non è questa la sede); il cinema invece rimane, il lavoro di un anno si gioca tutto in quell’ora e mezza e ogni errore di scrittura, di recitazione o di regia lo vedrai quando è molto difficile tornare indietro. È brutto Ogni lasciato è perso? Sí, molto, e si vede che la guerra di Piero è stata persa, e male, proprio per la diversa abitudine — e attitudine — ai due mezzi espressivi. Però devo rilevare alcune sorprese, perse nel mare di indecisioni di questa frigna: parliamone, va’. La storia: Piero C., entertainer televisivo di successo (poi uno dice l’egocentrismo!), viene improvvisamente lasciato dalla sua adorata compagna Beatrice (Vanessa Asbert, macrognocca da infarto che — sia detto — nella vita reale mai guarderebbe un nano sgorbio come Chiambretti) e il mondo gli crolla addosso. Consigli con gli amici, riflessioni sul maschilismo, nuove storie per dimenticare, nuove delusioni e nuove sofferenze, patite e arrecate. Il film non va lontano perché ci si ferma a una immediata conclusione: l’amore eterno regge finché dura, poi non c’è nulla da fare. L’enunciato (!) degno di Deleuze e Guattari (vanno sempre citati in coppia, come i santi Cosma e Damiano) è esposto nel primo quarto d’ora e da lì non ci si smuove. Evidentemente Chiambretti ha subito una pena d’amore straziante, tant’è che non riesce ad elaborarla e il bello è che lo sa, al punto che nel film c’è pure la consolatrice innamorata, stufa dell’amico/amante che si piange addosso. Il film non gli è venuto male, no: lo ha voluto proprio così, senza pensare che dei cazzi suoi a noi non ce ne può fregare di meno e che la vicenda è troppo esile per diventare un apologo sull’amore che va. Ci si annoia a morte e mi tiravo delle forchettate nelle cosce per non addormentarmi; i personaggi sono sbiaditi e per un Andreasi passabile (grazie all’attore, però), c’è un Catania spento e una Greta Cavazzoni (altra GBF, definizione politicamente scorretta e maschilista che non esplico e lascio alla vostra inventiva) stereotipata. Marginale e triste, poi, il personaggio che si crede Trapattoni. Di positivo c’è uno sforzo registico che, nella generale riprovazione del film, molti hanno perso di vista e funzionano i primi spumeggianti dieci minuti surreali o la spiazzante apparizione di Freccero. Però poi, diciamocelo, c’è poco altro e questo piagnisteo di film rimane una gran bella merdaccia. (Vhs da Tele+; 5/11/01)

ddv1704.jpg211 — Il dittatore dello stato libero di Bananas del rivoltoso Woody Allen, USA 1971

Fielding Mellish lavora come collaudatore di assurdi attrezzi ginnici. È brutto, perdente e ignorante come una capra, ma un giorno incontra una attivista politica. S’innamora e si trasforma: diventa un politico radicale e — una volta deluso d’amore — addirittura rivoluzionario. Mellish va nel Bananas, staterello caraibico dove vige la feroce quanto grottesca dittatura personale del colonnello Vargas. I guerriglieri lo catturano e fanno di lui un barbudo. Una volta che la Rivoluzione ha vinto, il nuovo dittatore ribelle Castrado lo manda negli Stati Uniti in missione diplomatica dove lo arrestano e lo processano. Film sconclusionato che parte perfettamente e poi un po’ si affloscia, si spappa e conclude male. Ma che importa? È una comicità che alterna classe a momenti più bassi e grossolani, facendoti sempre e comunque ridere e sorprendendoti con gag, nonsensi, parodie, invenzioni. La musica di Marvin Hamlisch (l’immortale Quiero una noche de passion) incornicia tutto e consegna il film alla mia personale categoria di cult (d’accordo con me Pier Paolo e Pif). E poi il film è una feroce satira della politica estera yankee. I colpi di stato sono match sportivi da seguire da casa, i popoli oppressi sono masse di scoreggioni mangia fagioli pronti ad acclamare chiunque vada al potere, i generalissimi sono gutturali gorilla in divisa pronti a vendersi per una mazzetta di dollari. E ce n’è pure per i guerriglieri: la mitologia della lotta rivoluzionaria è smontata pezzo a pezzo e anche Castrado passa per un criptico intellettualoide che, appena insediatosi al potere, pretende che lo svedese diventi la nuova lingua ufficiale. Tra i miei appunti trovo anche scritto che “Laura Morante è un’incapace, ha la esse grassa e stringe le vocali”. Ovviamente non c’entra nulla, ma son d’accordo con me stesso e riporto quanto osservato in uno spontaneo e veritiero flusso di coscienza. Tornando a bomba: Il dittatore dello stato libero di Bananas è, alla sesta visione (e calcolo per difetto), ancora godibile e dimostra insospettabili qualità formali: l’emissione di Tele+ rispetta il formato originale e fa apprezzare un’attenzione compositiva e un’accuratezza fotografica che è arduo trovare nei film più recenti di Woody Allen. Il copione è disordinato, confuso, con alti e bassi, butta via, eccede, ma è pure generoso e vitale. Altro che alcuni film recenti costruiti su tre battute e via. Viva Bananas! (Vhs da Tele+; 11/11/01)

214 — L’insopportabile Santa Maradona di Marco Ponti, Italia 2001

Il cinema è buono, con bella messa a fuoco e mascherini giusti. L’unica menata è il posto assegnato elettronicamente, ma basta disobbedire. Prima del film c’è il trailer di Hedwig: ha vinto un sacco di premi a festival come il Sundance e tutto ciò rafforza la mia convinzione che si tratti di una porcata. Ma passiamo alla porcata furbetta che ho scelto di vedere stasera. È un film torinese, ma non solo, è pure juventino. Questa è la premessa che forse spiega perché il film non l’ho digerito per nulla, incacchiandomi abbastanza presto durante la visione e maledicendo le decine di amici (letteralmente) che il film lo hanno apprezzato. Forse sono sbagliato io, non lo escludo, ma la gente ha un gusto barbaro: è talmente disabituato alla buona qualità che si accontenta di ogni cosa che abbia un minimo sentore di vitalità e finisce che un film mediocre come questo assurga alla categoria di “carino” che tutto fa digerire in nome del quieto vivere. Del resto ci si può mettere in discussione dopo aver speso 14mila lire e perso svariati minuti per venire in centro e per parcheggiare la macchina? No, e allora “ne valeva la pena e il film era carino”. E no, cazzo, NO! Poi, è ovvio che se avessi visto il film senza aspettative e senza che nessuno mi spaccasse le palle dicendomi quanto fosse divertente, senza questo coro entusiasta , lo avrei magari trovato gradevole, sbagliato ma amabile. Ponti ha la mia età ed è riuscito a fare un film in questo paese che si ostina a finanziare Scola e non i giovani e solo per questo andrebbe ammirato. E dimostra anche un attitudine al dialogo frizzante e al montaggio brioso, ma… Ma il destino cinico e baro ha voluto che stasera andasse così e non cosà e il film io l’ho preso malissimo e non so che farci. Bart e Andrea sono due laureati in Lettere, occupati solo a giudicare il mondo che li circonda. Un incontro d’amore scuote Andrea – interpretato con consueto sguardo perso da Accorsi – ma avrà modo di rovinare tutto, per poi tornare nell’abituale serena abulia. Basta: non c’è altro (se vogliamo considerare questo, qualcosa). Santa Maradona è un film i cui dialoghi sono scritti in maniera furba, facendo il Trainspotting italiano e scadendo nella parodia involontaria. E poi sono scritti, nel senso che si sente lontano un miglio la scrittura: dialoghi falsi, prevedibili, chiamati, con le battute come mai si direbbero nella vita. Ogni divagazione o elucubrazione saccente dei personaggi è stata scritta pensando a un certo cinema cult, ma senza averne l’inventiva. Perché questo film è piaciuto a tutti? Ma il regista ha mai fatto un colloquio di lavoro? Come si fa a ridere di queste scene che non comunicano nessuna tensione reale, nessuna emozione, nessuna originalità? C’è un riscatto nel finale, quando De Rienzo e Accorsi si urlano di tutto, ma è un po’ poco. Vogliamo scommettere che al secondo film di Ponti tutti diranno che ha deluso le aspettative? E no, cazzo, mica sarà colpa sua: siete voi critici e pubblico i responsabili, siete voi i maledetti mandanti. Riguardo al titolo: riprende quello di una potente canzone dei Mano Negra (si sa: adesso Manu Chao tira), è evocativo e dà l’opportunità di servire una bella collezione di gol del Pibe de oro durante i titoli di testa. Per il resto l’unica attinenza tra film e titolo è data, a un certo punto, dal blaterare di De Rienzo su “genio e sregolatezza”, di cui nessun protagonista mostra alcuna traccia. Accorsi sembra un calco di un’opera di Pistoletto e come al solito non si capisce se scelga personaggi tonti o li renda lui così. La Caprioli, già miope di suo, ha la motilità di una bambola Real Doll. Però è caruccia e da buona tettona concede (con ipocrita pudicizia) una capezzolata di sfuggita. Avara invece la bella Mandala Tayde. Faccia interessante De Rienzo e discreto il suo personaggio sputasentenze, l’unico scritto con un po’ d’attenzione e coerenza narrativa. Il film è dedicato alla Bardot, Godard, Bud Spencer e Terence Hill da uno che — secondo me — di Altrimenti ci arrabbiamo non ha capito nulla, figuriamoci de Il disprezzo o del Godard duro. Ma forse sono io che stasera son proprio storto, tanto che torno a casa e rimpiango di non essermi registrato Soldato Jane. Mah. (Cinema Excelsior Mignon, Milano; 19/11/01)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua — 17)