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Giaime Alonge è scrittore, sceneggiatore e storico del cinema. Insegna al DAMS di Torino. Il suo ultimo romanzo “L’arte di uccidere un uomo” è edito da Baldini Castoldi Dalai.

La suite era la migliore dell’albergo, uno degli hotel più eleganti della città, ma il suo occupante non aveva fatto che lamentarsi per tutto il pomeriggio. Il direttore aveva ricevuto una raffica di telefonate dall’agente dell’Illustre Ospite, il quale non si abbassava certo a parlargli direttamente, ma chiamava il proprio rappresentate, che a sua volta ringhiava nell’I-phone le rimostranze del cliente. La glacette dello champagne era di plastica. Le lenzuola erano dozzinali. La vista dalla finestra — un pittoresco scorcio del fiume con ponte di età napoleonica e sfondo di collina verdeggiante, assicurava la direzione dell’albergo — era banale. Tutto il personale era stato mobilitato per fare fronte alla grave emergenza, ore di pausa e permessi erano stati sospesi. E si era fatto ricorso a competenze esterne. Era stato convocato in gran fretta un arredatore per apportare alcune essenziali migliorie all’appartamento. Erano arrivati un fioraio, un massaggiatore shiatsu, una manicure, un cuoco coreano. E ora, dopo aver consumato la cena in camera, l’Illustre Ospite si riteneva moderatamente soddisfatto. Lo avevano trascinato in quel buco di città, che almeno dimostrassero di saperlo ricevere come si conveniva.

Stava sorseggiando l’ultima coppa del suo Krug, quando bussarono alla porta. L’Illustre Ospite alzò un sopracciglio e grugnì di entrare. Una donna in tailleur di Armani, la faccia tirata come se fosse appena uscita dalla galleria del vento, si affacciò sulla soglia e spinse dentro una ragazzina dall’aria attonita. Avrà avuto al massimo quindici anni. La pelle era color dell’ebano, ma gli occhi erano azzurri, ricordo di un antico incrocio tra la sua stirpe e quella degli invasori. L’Illustre Ospite sorrise soddisfatto, si alzò dal letto, si chiuse la cintura dell’accappatoio candido con ricamato il nome dell’albergo e le andò incontro.
“E’ appena arrivata dai Caraibi”, disse la donna. “Merce rara…”, aggiunse in tono da intenditrice.
L’Illustre Ospite non la guardò neppure e fece un gesto che significava di mettere in conto.
La donna annuì e scomparve.
La ragazza camminava a piccoli passi per la stanza. Il suo sguardo vagava qua e là, inespressivo. L’Illustre Ospite le si parò innanzi, come a dire: “Sì, sono proprio io”. Ma quella lo fissò vacua. La frustrazione del VIP che non viene riconosciuto durò solo qualche istante. C’era cose più interessanti che firmare autografi. L’uomo le carezzò il volto e lei lo lasciò fare. Allora la mano scese sul seno acerbo. La ragazza non reagì. L’uomo l’abbracciò e prese a baciarla, partendo dalla base del collo. Mentre la lingua dell’Illustre Ospite saettava nel padiglione auricolare dell’adolescente, più una visita dall’otorino che il prologo di un amplesso, d’improvviso, le pupille di lei si accesero di un rosso cupo. La piccola bocca infantile si aprì famelica.
L’urlo di dolore echeggiò nel corridoio. Il cameriere che era stato piazzato al piano appositamente per rispondere immediatamente a qualunque richiesta del cliente esitò, ma al secondo gridò si precipitò nella stanza.
“Mi ha morso! La puttana mi ha morso!”

Quella mattina il Rettore si alzò di buon’ora, fece una lunga doccia, provando ad alta voce il discorso che avrebbe dovuto tenere nel pomeriggio, si vestì con cura e fece colazione insieme alla moglie. Mentre sorbiva il caffé, immerso nei propri pensieri, il monologo della consorte gli giungeva come un brusio indistinto.
“E’ una malattia stranissima. Ne parlavano ieri sera in televisione…”
Il Rettore annuì automaticamente.
“Pare che i morti risorgano. Fino ad ora era diffusa solo ad Haiti, ma due giorni fa hanno scoperto dei casi a Genova. Clandestini arrivati con un mercantile. Le autorità hanno messo in quarantena tutta la zona del porto. A capo dell’equipe che studia il fenomeno c’è Zingarelli.”
Al nome del preside della facoltà di Medicina il Rettore alzò lo sguardo e fissò la moglie con aria interrogativa: “Zingarelli?”.
“Sì, Zingarelli. E’ un immunologo, no?”, sospirò la donna, avvezza da anni a quel genere di conversazioni a corrente alternata. “Il ministero della Salute gli ha affidato la guida dell’unità di crisi. Lo hanno anche intervistato, in prima serata”, aggiunse con finta noncuranza.
“Zingarelli…”, disse il rettore digrignando i denti. “Quel baciapile sarebbe capace di fare l’autopsia di sua madre in diretta televisiva”. Poi guardò l’orologio, trangugiò ciò che restava del suo caffé, fece schioccare un rapido bacio sulla fronte della moglie, afferrò cartella di cuoio e impermeabile, e uscì di casa.

Anche se quella era una giornata speciale, l’agenda della mattina era comunque fitta. Telefonate da fare. E-mail e lettere cui rispondere. Un paio di persone da ricevere. Il primo appuntamento era con il responsabile dei progetti edilizi dell’ateneo, un vecchio squalo che conosceva bene, una questione di pochi minuti. Ma il secondo rappresentava una faccenda spinosa.
“Colombo!”, gridò il Rettore.
Il suo segretario personale, il dottor Felice Colombo, si materializzò all’istante nello studio.
“Perché devo vedere Camerana?”, domandò in tono imperioso il Rettore. “Proprio oggi…”
“Gli avevamo già annullato tre incontri”, si giustificò il sottoposto.
“E potevamo annullarne un quarto.”
“Il professor Camerana aveva chiesto espressamente di vederla prima della cerimonia”, sussurrò Colombo. “E’ uno degli accademici più illustri della nostra città, ha quasi vinto un premio Nobel.”
“Quasi…”, sogghignò il Rettore. “Il Nobel o lo vinci oppure no.”
Colombo avrebbe potuto replicare che il Rettore, il quale, in trentacinque anni di carriera, aveva pubblicato un’unica monografia, un esile — ancorché dottissimo — studio sul diritto di navigazione romano, a “quasi vincere il Nobel” non ci si era mai neppure avvicinato. Ma ovviamente nascose quel pensiero sotto una maschera di pietra. In ogni caso, se anche, preso da un irrefrenabile impulso autodistruttivo, avesse osato muovere tale obiezione, sapeva bene che cosa gli avrebbe risposto il Rettore: “La ricerca è per quelli che non sanno fare politica”.
Il Rettore si appoggiò all’alto schienale istoriato della sedia, trasse un profondo respiro, e con l’aria rassegnata di Atlante cui tocca reggere la volta celeste disse a Colombo che avrebbe visto Camerana. “Ma se quel vecchio matto non se n’è andato entro un quarto d’ora”, aggiunse, “lei entra per avvisarmi che sono stato convocato d’urgenza dall’assessore alla ricerca o da chi le pare”.

Il Rettore era alla terza telefonata ed era già stufo. Il presidente della commissione Erasmus si lamentava perché gli studenti stranieri non avevano alcuna facilitazione per l’alloggio, e questo faceva sì che le università estere si comportassero nello stesso modo con i loro allievi. Non si poteva utilizzare almeno una parte dei posti letto del nuovo collegio universitario? Che razza di domanda. La costruzione del nuovo collegio universitario era costata fior di quattrini, figuriamoci se ci metteva dentro quegli animali degli studenti Erasmus. Se ci tenevano tanto ad andare a “studiare” all’estero, che si affittassero una stanza.

Firmò la pila di carte che Colombo gli passava con la sua aria di perenne contrizione. Dettò un paio di lettere. Parlò rapidamente con lo squalo dell’edilizia. E poi venne il turno di Camerana. L’anziano cattedratico attendeva nel vestibolo già da mezz’ora. Il Rettore si guardò attorno, come per cercare qualcos’altro da fare, qualche incombenza improrogabile di cui si era dimenticato, ma Colombo, in piedi accanto all’immensa scrivania di mogano, scosse il capo con l’aria di una maestra dolce e saggia. “Coraggio…”, sussurrò.
Il Rettore piegò la testa e si preparò spiritualmente a incontrare quel vecchio bizzoso che avrebbe fatto volentieri accompagnare al portone dagli uscieri. Ma sbattere fuori un quasi premio Nobel, nonché medaglia d’oro della Resistenza, non era buona pubblicità, soprattutto in quel periodo. Il mandato del Rettore scadeva in autunno. La rielezione sembrava ragionevolmente sicura, ma Zingarelli e i suoi amici dell’Opus Dei lavoravano nell’ombra, bisognava stare in guardia.
“Faccia entrare il professor Camerana”, disse a Colombo, cercando di darsi un contegno adeguato.

Amedeo Camerana era un autentico mistero per il Rettore. Nato in una famiglia di grandi proprietari terrieri, si era laureato brillantemente in fisica alla Normale di Pisa. L’otto settembre lo aveva trovato in uniforme da tenente di cavalleria, acquartierato in una caserma di Pinerolo, dove era stato collocato comodamente all’inizio del conflitto, grazie alle conoscenze del padre. Ma all’arrivo dei tedeschi, invece di andarsene a casa, lui era salito in montagna, insieme a contadini e studentelli squattrinati. Ne era ridisceso alla testa di una brigata partigiana, la prima a entrare in città nell’aprile del 1945. A quel punto, tra la sua intelligenza non comune, il peso del cognome, e l’alone di eroe di guerra, avrebbe potuto fare qualunque cosa, diventare sindaco, deputato, ministro, persino rettore. E invece lui se n’era andato in Inghilterra, in un college sperduto in mezzo a una campagna umida e brumosa. Che cosa ci sarà mai stato in Inghilterra, oltre a un clima pessimo e a una cucina immangiabile? Era passato per alcune delle università più blasonate del mondo anglosassone: Cambridge, Oxford, Harvard, Chicago, Stanford. Poi, una volta andato in pensione, era ritornato in Italia, come certi emigranti che tornano al paesello con la Marcedes per far crepare d’invidia i concittadini.
L’anziano studioso di fisica, benché avesse passato in novant’anni, aveva una postura eretta e un passo sicuro. Indossava una giacca di tweed con cravatta di lana a disegni tartan, e un panciotto di panno su cui correva la catena di un orologio da taschino. Il Rettore si affrettò ad andargli incontro e lo fece accomodare in una poltrona di fronte alla scrivania.
I convenevoli furono rapidi e asciutti. Dopo di che Camerana partì a testa bassa.
“Ti ho scritto una lettera.”
“Ah, sì? Non l’ho ricevuta, sai le poste…”, rispose evasivo il Rettore. “E che cosa mi dicevi in queste lettera?”, soggiunse in un tono che si sforzava di essere cordiale.
“Ti dicevo di lasciare perdere con la balordaggine della laurea ad honorem che volete dare a quel tizio.”
“Ma si tratta del più grande pilota automobilistico del mondo”, replicò il Rettore sempre gentile, ma un po’ meno.
Camerana lo fissò senza replicare, negli occhi la durezza di un pastore calvinista.
“Hai qualcosa contro la Formula 1?”, buttò là il Rettore, faceto.
“Non ho niente contro la Formula 1, ovviamente”. Scandiva le parole come se stesse parlando a un bambino. “Ma non vedo che cosa c’entri un pilota di automobili con l’università. Quali sono i suoi meriti scientifici?”
“Beh, l’automobilismo è una punta di eccellenza della nostra industria…”
“Mica le progetta lui le macchine”, lo interruppe Camerana. “Le guida soltanto, come l’autista del pullman che ho preso per venire qui, e quello è sicuramente un lavoro di maggiore utilità sociale.”

Ora il Rettore aveva esaurito la pazienza. Camerana era un dinosauro, un invertebrato che strisciava sul fondo limaccioso di una palude giurassica. “L’università è cambiata, lo sai anche tu. Soprattutto tu che hai viaggiato, sei stato in America… pubbliche relazioni, marketing, oggi il nostro lavoro è anche questo. Eh, potessi dedicarmi unicamente allo studio come hai fatto tu. Io qui combatto una battaglia quotidiana per i fondi, i finanziamenti dell’Unione Europea, il ranking internazionale, i report al ministero…”
Camerana, impassibile, lasciò scorrere per un poco quel fiume di pidgin anglo-burocratico, dopo di che reagì.
“A Stanford nessuno ha mai pensato di dare una laurea honoris causa a un giocatore di baseball”, disse con distacco.
Il Rettore respirava a fatica, ormai stava per esplodere, ma Colombo gli giunse in soccorso.
Il segretario bussò e sporse dentro la testa: “Mi spiace disturbarla, Rettore, ma ci sarebbe quell’appuntamento con l’assessore, è già tardi…”.
Il Rettore chiuse gli occhi per un istante, ringraziando mentalmente il proprio collaboratore per la puntualità. Quando li riaprì, Camerana si era già alzato. Il Rettore lo accompagnò sorridente alla porta. “Torna quando vuoi”, gli disse mellifluo sulla soglia, “è sempre un piacere scambiare due parole con un quasi premio Nobel”.

Aveva consumato quello che per lui era un pranzo leggero, poco più di uno spuntino. Non poteva certo farsi sorprendere a sonnecchiare durante la lectio magistralis. Niente primo, solo un antipasto di carne alla tartara, seguito da un’insalata di nervetti, con l’accompagnamento di una buona bottiglia di rosso. A tavola erano in due, una bottiglia non era troppo. Anche se in realtà Colombo non beveva mai più di mezzo bicchiere. Poi si era fatto tentare dalla panna cotta, ma solo una mezza porzione. Il suo medico batteva da anni sul tasto della dieta. Ma il Rettore era un omone di un metro e novanta, se si fosse conformato al regime che quell’individuo sadico e infelice cercava di imporgli, sarebbe morto di stenti in pochi giorni. Fece segno al cameriere che volevano il caffé e il conto. Il ragazzo annuì. Non aveva bisogno di chiedere dettagli, perché i due pranzavano lì quasi ogni giorno: corretto grappa per il Rettore, decaffeinato per Colombo.
Girando il cucchiaino nella tazzina, il Rettore sorrise fiero, pregustando il piacere del grande spettacolo che stava per iniziare. Ci sarebbero stati giornalisti e troupe televisive. Un lungo, luccicante, spot elettorale. Ecco la nuova università, non più torre d’avorio, ma trampolino di lancio delle giovani generazioni verso il mercato globale.

Il Rettore guidava il corteo, ed era davvero il Magnifico. Toga nera con stola di ermellino, tocco di velluto anch’esso nero con bordo cremisi, folta barba grigia, mazza cerimoniale stretta in pugno, avanzava con la solennità di Enrico VIII. Seguivano, in un preciso ordine gerarchico, abbigliati in tenute via via più modeste, i presidi di facoltà, i direttori di dipartimento e delle scuole di dottorato, i presidenti di corso di laurea. A fianco del Rettore, marciava tronfio l’Illustre Ospite, che elargiva sorrisi condiscendenti alla selva di fotografi e a una turba di professori, studenti, membri del personale tecnico-amministrativo, che si accalcavano sotto il colonnato che portava all’aula magna.
Il pubblico era così folto, che molti non riuscirono a prendere posto nell’ampia sala foderata di marmo, e dovettero accontentarsi di seguire la cerimonia su un maxi schermo approntato nel cortile, oppure origliare i discorsi facendo ressa sulla soglia.
Una ventina di studenti fuoricorso frequentatori dei centri sociali tentarono di infiltrarsi tra gli spettatori per inscenare una dimostrazione in favore di una causa oscura ai più, ma il Rettore era stato accorto. Si aspettava qualcosa del genere. In quelle occasioni c’era sempre qualcuno intenzionato a sfruttare la presenza delle televisioni per farsi pubblicità, e aveva convocato la Digos. Quel giorno, l’unico che aveva diritto a farsi pubblicità era lui. Gli agenti individuarono rapidamente i facinorosi e li isolarono al fondo del colonnato.

Nell’aula magna, alle spalle del podio da cui l’Illustre Ospite avrebbe tenuto il discorso, si trovava la tribuna d’onore, dove si accomodarono il Rettore, i suoi colleghi più anziani e prestigiosi, il sindaco, il presidente della regione, il ministro dell’Università, arrivato appositamente da Roma, il prefetto, un cardinale, un generale dell’esercito, un ammiraglio in pensione, nonché la crema dei docenti a contratto, affermati professionisti che avevano la generosità di trasmettere il loro prezioso know-how ai giovani: un paio di soubrette alquanto scollacciate, uno scrittore dall’aria annoiata, una ex campionessa di sci, un noto gastronomo equo solidale, un astronauta, un addestratore di cani divenuto famoso con una trasmissione televisiva del mattino.
Per primo parlò il Rettore, che ricordò con parole ispirate l’antica e gloriosa tradizione di quella università, una storia di secoli, viatico per altri e più grandi successi a venire. Poi fu il turno del professor Lizzi, preside della facoltà di Moda e Comunicazione, che laureava l’Illustre Ospite, di cui descrisse l’apporto vitale alla cultura dello sport, le sue insuperate doti di comunicatore, nonché il rigore e l’abnegazione con cui dirigeva la sua fondazione benefica, che aiutava i minori abbandonati in vari paesi del Sud del mondo.

E infine venne il turno del laureando. L’Illustre Ospite prese posto sul podio, si girò a salutare il Rettore, si schiarì la gola, e iniziò. Non aveva letto neppure mezza pagina del suo discorso, steso con l’ausilio di uno speechwriter di Tony Blair, che iniziò a tossire. Tentò di riprendere, ma il fastidio in gola non accennava a passare. Solerte, Colombo scattò con un bicchiere d’acqua. L’Illustre Ospite bevve un lungo sorso. La platea trattenne il fiato, in attesa della parola di quell’uomo che tanto spesso avevano visto in televisione, e che ora potevano ammirare in carne e ossa. Il pilota posò il bicchiere. Pronunciò qualche sillaba, e gli occhi gli si iniettarono di sangue. Si voltò verso la tribuna, spalancò la bocca, afferrò la testa del professor Lizzi e gli affondò i denti nel collo. Il cattedratico lanciò un grido disperato. Per alcuni secondi, gli astanti rimasero immobili, muti, dopo di che si scatenò il panico.
Urla, terrore, sangue, follia. L’Illustre Ospite si aggirava per la sala azzannando tutti quelli che gli capitavano a tiro e pascendosi delle loro carni. La folla tentava di fuggire, ma c’era un’unica uscita, e nella ressa i più piccoli e i più deboli vennero spintonati, calpestati, uccisi. Le soubrette persero i tacchi, lo scrittore il sussiego. Il generale dell’esercito estrasse la pistola d’ordinanza e cercò di abbattere il mostro, ma da molto tempo non faceva più pratica con le armi, e finì per colpire all’occhio il cardinale e poi spararsi a un piede. Mentre arrancava disperatamente verso la porta, l’Illustre Ospite gli fu addosso e gli staccò a morsi un braccio gallonato.
Il primo a capire che cosa stava accadendo fu il professor Zingarelli, seduto al fondo della platea. Se ne accorse ancora prima che il pilota aggredisse Lizzi. I sintomi c’erano tutti: disorientamento, secchezza delle fauci, arrossamento degli occhi. L’immunologo sgattaiolò fuori dalla sala proprio mentre l’Illustre Ospite si avventava sul preside di Moda e Comunicazione, estrasse il cellulare e chiamò la centrale dei carabinieri. Bisognava isolare immediatamente l’edificio, bloccare i fuggiaschi e metterli in quarantena. Il comando non era lontano. In meno di cinque minuti gli uomini del Gruppo di Intervento Speciale già prendevano in consegna le persone che uscivano sconvolte dal rettorato, e sigillavano gli ingressi del grande palazzo cinquecentesco.

Brandendo la mazza cerimoniale a mo’ di clava, il Rettore, seguito come un’ombra da Colombo, si era fatto largo tra la folla ed era riuscito a uscire dall’aula magna. Aveva dovuto atterrare un paio di studenti e il preside della facoltà di Scienze Politiche, ma tanto quello non aveva votato per lui. Si erano precipitati giù per le scale, solo per trovare il portone sprangato. Il Rettore aveva picchiato a lungo contro il legno spesso. Dall’altra parte un ufficiale dalla voce di ragazzino gli aveva ingiunto di stare calmo e aspettare che intervenisse l’unità di crisi. L’ingresso doveva rimanere chiuso per evitare che il contagio si diffondesse in tutta la città. Il Rettore non credeva alle proprie orecchie. Come poteva quel tenentucolo anche solo pensare di dargli ordini? Stava per mettersi a urlare con quanto fiato aveva nei polmoni, ma Colombo, con mano tremante, lo scosse per un braccio. Il Rettore si girò.
“Che c’è?”
“Gu… guardi…”, balbettò Colombo.
Il segretario stava indicando il cortile. Qua e là giacevano i cadaveri di persone uccise nella calca o azzannate dal pilota di Fomula 1. Alcuni dei corpi erano scossi da tremiti. Il Rettore immaginò che si trattasse degli ultimi spasmi prima della morte, e riprese a battere contro il portone, ma Colombo lo tirò nuovamente per la manica.
“Colombo, che ca…”

Il Rettore non finì la frase. Alcuni dei morti si erano alzati in piedi. Il volto grigiastro, gli occhi rossi, avanzavano verso di loro, lenti, ma inesorabili. Il sindaco, la faccia mezza sbranata, stava puntando dritto sul Magnifico. Un verso roco e agghiacciante gli usciva da ciò che restava della gola. Nella sua lunga carriera accademica, il Rettore aveva visto tante mostruosità, ma quella le superava tutte. Afferrò Colombo e lo trascinò via, in direzione delle scale. Altri cadaveri si stavano rianimando e tendevano le mani rapaci verso le loro carni ancora vive.
Il Rettore calò la mazza sulla testa del generale, che caracollava lasciandosi dietro una scia di budella e medaglie, salì al primo piano, e imboccò il corridoio che conduceva al suo studio. Alle spalle, sentiva il respiro affannato di Colombo, e più indietro i versi bestiali della folla di zombi.
Dalla parte opposta del corridoio stava arrivando di gran carriera qualcuno. Un ragazzo. Dalla barbetta incolta e dall’abbigliamento trasandato, il Rettore dedusse che doveva trattarsi di uno dei contestatori. Anche lui era inseguito da un gruppetto di mostri. In quella situazione, persino uno squatter, purché vivente, era un prezioso alleato.
“Svelto, per di qua”, gridò il Rettore al giovane, e si infilò in una delle porte che si aprivano sul corridoio. Colombo lo seguì prontamente, e il ragazzo li raggiunse in pochi secondi.
Attraversarono il vestibolo, entrarono nello studio e lo ispezionarono rapidamente. La stanza pareva vuota.
“Barrichiamoci”, ordinò il Rettore.
Sollevarono la grande scrivania di mogano e la piazzarono contro la porta. Dopo di che iniziarono a spingere un pesante armadio di legno scuro. Dall’interno arrivarono dei gridolini. I tre si bloccarono, e i gridolini cessarono subito. Il Rettore, Colombo e lo squatter si fissarono l’un l’altro. Il primo afferrò la mazza cerimoniale con entrambe le mani e l’alzò sopra la testa, pronto a colpire, poi con un cenno del capo ordinò al segretario di aprire l’anta del mobile.
Le dita di Colombo strinsero esitanti la maniglia. Il segretario tirò lentamente, provocando un cigolio sinistro. Da dentro giunse un urlo di terrore. Gridando a sua volta, il segretario spalancò l’anta.
All’interno del mobile, accovacciata tra le toghe nere, stava tutta tremante una ragazza. Al Rettore fu necessario qualche istante per riconoscerla. Era uno dei rappresentanti degli studenti nel senato accademico. Una di Comunione e Liberazione.
“Venga fuori, non c’è pericolo”, le disse paterno il Rettore.
La ragazza uscì dall’armadio. Non tremava più. Si asciugò le lacrime, si rassettò il colletto di pizzo bianco che usciva dal maglioncino blu, e sfoderò un sorriso timido.
“Brava”, disse il Rettore. “Non abbia paura. Qui siamo al sicuro.”
Aveva appena terminato di pronunciare quelle parole, che al di là della soglia le creature si misero a picchiare contro la porta.
“Muoviamoci”, disse il rettore indicando la guardaroba.
I quattro spostarono il mobile verso l’uscio, ne fecero aderire il fianco al lato corto della scrivania, poi lo sollevarono da sotto e lo lasciarono ricadere sul grande piano di mogano. Era una barricata solida. Per il momento sembravano essere al sicuro.
Lo studio aveva un’ampia finestra, che però, come tutte le finestre del primo piano, era chiusa da una spessa grata di ferro. Da lì gli zombie non potevano entrare, ma neppure loro potevano tentare di fuggire. In un angolo c’era un televisore. Colombo accese l’apparecchio e iniziò a far scorrere freneticamente i canali in cerca di un notiziario. Dopo un telefilm, un cartone animato, una televendita di coltelli da cucina, sullo schermo apparve Zingarelli. Il Rettore serrò le mascelle. L’immunologo era in mezzo alla strada, a fianco di un giornalista. Alle loro spalle c’erano un’ambulanza e un blindato dei carabinieri. Ai margini dell’inquadratura si indovinava la presenza di medici e membri delle forze di sicurezza intenti ad allestire il centro operativo. Dovevano trovarsi a pochi isolati dal rettorato. Compreso nel ruolo del testimone di una grave emergenza, il giornalista ascoltava con deferenza le parole del preside della facoltà di Medicina. In caso di semplice morso da parte di un infetto, spiegava Zingarelli, la malattia aveva un’incubazione di diverse ore, fino a un massimo di ventiquattro, a seconda del soggetto. Se invece la persona aggredita moriva, il virus agiva molto più rapidamente e il corpo resuscitava immediatamente. Ma i morti viventi erano meno pericolosi di quanto sembrassero: se colpiti al cervello, tornavano alla loro condizione naturale di defunti.
“E allora, se è tanto facile, vienici tu qui”, disse il Rettore fissando con odio l’immagine del suo grande avversario nello schermo del televisore.
Uno stacco pubblicitario fece scomparire Zingarelli, sostituito dal culetto roseo di un neonato. Colombo cambiò canale. In un’edizione speciale del telegiornale regionale, un ufficiale dei carabinieri stava dicendo che il rettorato era stato completamente isolato e che aspettavano da Roma l’ordine di fare irruzione nell’edificio.
Il Rettore sbuffò: “La cosa rischia di durare parecchio”.
“Hanno detto che stanno per intervenire…”, disse Colombo con un tono che voleva rassicurare prima di tutti se stesso.
“Hanno detto che aspettano l’ordine”, lo corresse il Rettore. “Lo sa come sono i ministeri. Potrebbero metterci anche delle ore”.
“Ma devono salvarci”, squittì disperato Colombo.
“A quelli non frega niente di salvarci”, intervenne lo studente fuoricorso. “Gli interessa solo di contenere il contagio.”
Gli occhi degli altri tre si mossero sul giovane contestatore.
“Sei un estremista immaturo”, sentenziò il Rettore dall’alto della sua lunga esperienza politica nelle diverse organizzazioni della sinistra italiana, dal Pci sino alle mutazioni più recenti, “però hai ragione. A quelli non frega niente di salvarci”.
Il battere sordo degli zombi contro la porta dello studio chiosava quell’affermazione come un oscuro presagio.
“E qui intanto si sta facendo notte”, disse la ragazza stringendosi nelle braccia.
Dalla finestra ormai proveniva la luce fioca del crepuscolo.

Avevano atteso a lungo, ma non era accaduto nulla. Le forze dell’ordine non si erano palesate, neppure un vigile urbano. La televisione aveva smesso di parlare dell’avvenimento, sostituito da nuove tragiche emergenze, in ordine d’importanza: il divorzio tra Carla Bruni e Nicolas Sarkozy, la crisi nella raccolta dei rifiuti nel napoletano, il bombardamento di una centrale atomica iraniana da parte dell’aviazione israeliana. Inoltre, telefoni fissi e connessione internet erano fuori uso, e i cellulari erano privi di campo, per cui era stato impossibile stabilire un contatto con l’esterno. L’unico elemento positivo era rappresentato dal fatto che i mostri avevano smesso di battere sulla porta, segno che probabilmente si erano dispersi per l’edificio, a caccia di carne fresca.
Colombo dormiva in un angolo, raggomitolato come un cane, un randagio infelice che non si aspetta più niente dalla vita. La rappresentate di Comunione e Liberazione era stesa nell’angolo opposto, la testa affondata nell’incavo del gomito. Il Rettore si sfilò la toga e gliela sistemò addosso a mo’ di coperta. Lo squatter, che si stava arrotolando una sigaretta, stravaccato sulla poltrona in cui si era seduto Camerana, sogghignò a quel gesto galante. Il Rettore non si diede pena di rispondere. Si guardava attorno, inquieto, alla ricerca di una soluzione, e gli occhi gli caddero sulla porta del ripostiglio.
Si era quasi dimenticato che esistesse. Due anni prima ci avevano stipato parte della collezione del vecchio museo del rettorato. Paccottiglia che non interessava più a nessuno. Avevano dovuto sgomberare le sale del museo per fare posto al nuovo info point. Nello sgabuzzino in fondo al suo studio era finita la collezione di armi e corazze del principe Eugenio di Biancamano. Il Rettore aprì la porta ed entrò nello stanzino. Era più grande di quanto non ricordasse, ed era pieno di spade, lance, elmi, scudi. Avrebbe potuto equipaggiarci un intero manipolo.
I guerrieri dell’Età di Mezzo e del Rinascimento non avevano la stazza del Rettore, e questi dovette faticare prima di trovare una cotta di maglia in cui strizzare il suo ventre rigoglioso. Si mise in testa l’elmo adorno di grifone rampante che il Biancamano aveva indossato alla battaglia di Marentino. Si passò un cinturone di cuoio attorno alla vita e ci infilò dentro la mazza rettorale e una scure.
I rumori metallici provenienti dallo stanzino avevano destato Colombo e la ragazza, che erano scattati in piedi, allarmati. La comparsa del Rettore catafratto sulla soglia dello sgabuzzino, un grande scudo rotondo nella mano sinistra e una scimitarra tartara nella destra, li lasciò sbigottiti, incerti se si fossero davvero svegliati.
“Complimenti Rettore, un bellissimo costume da pupo siciliano”, commentò lo squatter.
“Porta rispetto, cretino”, sibilò la giovane dirigente di CL attraverso la dentatura smagliante.
“Sceglietevi un’arma”, disse il Rettore indicando l’interno dello stanzino. “Ci apriremo il largo con la forza.”
“Ma anche se dovessimo farcela, il portone è comunque chiuso”, obiettò Colombo.
“Passeremo dalle cantine”, rispose sicuro il Rettore. “Sono le segrete della vecchia cittadella. Comunicano con i palazzi accanto. Sbucheremo a un paio di isolati di distanza, fuori dal perimetro di quarantena.”
La ragazza fece di sì con la testa, negli occhi lo sguardo di chi è determinato a sopravvivere a ogni costo, e si infilò nel ripostiglio. Colombo la seguì rassegnato. Il giovane ribelle invece non si mosse. Buttò a terra il mozzicone e lo spense col piede, un gesto lento, studiato.
“Non credo nella violenza”, sentenziò togliendosi un pezzo di tabacco dalla lingua.
“Ah, no?”, rispose il Rettore. “E in cosa credi?”
“Nel dialogo, nel confronto tra culture diverse.”
“Con un branco di morti viventi?”, sbuffò il Rettore, e iniziò a spingere l’armadio per farlo cadere dalla scrivania. “Dammi una mano, invece di dire idiozie”, ingiunse al ragazzo.
Quello però continuava a restare seduto. “Rilassati…”, ridacchiò.
Con uno sforzo erculeo, il Rettore buttò giù la guardaroba. In quel momento ricomparvero Colombo e la ragazza. Lui portava un elmo ottomano che gli andava largo e stringeva una mazza ferrata. La rappresentante di CL aveva scovato una corazza che le calzava a pennello, e che insieme ai lunghi capelli biondi le conferiva l’aspetto di una Valchiria pronta a cavalcare nel vento insieme alle anime dei valorosi caduti in battaglia. Il Rettore assentì compiaciuto.
“Dai, prendi anche tu un’arma”, disse ancora allo squatter.
“T’ho detto che non credo nella violenza.” E cominciò a prepararsi un’altra sigaretta.

Il Rettore era poco abituato a non essere obbedito. Spostò la scrivania quel tanto che bastava per aprire la porta, dopo di che si avventò sul ragazzo.
“Vuoi il dialogo?!”, gridò furibondo. “E allora vai, vai a dialogare!” Afferrò lo studente con entrambe le mani, lo trascinò fino alla soglia e lo fece volare nella stanza attigua.
Il vestibolo era presidiato da due soli zombi, accucciati a terra, sfibrati dalla mancanza di cibo. Uno era il cardinale. Al posto dell’occhio destro, portatogli via dalla pallottola partita dalla pistola del generale, aveva una ripugnante cavità purpurea. La grande pancia era stata parzialmente divorata dall’Ospite Illustre. Il secondo era il ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica Piergiorgio della Gherardesca, assiduo frequentatore del Meeting di Rimini, devotissimo di Padre Pio, e brillante conversatore nei talk show televisivi, noto tra pochi intimi come “Pierina la Pazza”.
Il primo a muoversi fu l’ecclesiastico. Scattò rapido verso la preda, più rapido di quanto la condizione di morto vivente e la pancia cardinalizia avrebbero potuto far presumere. Azzannò lo squatter all’orecchio, e con un morso potente glielo portò via di netto. Il ministro, in virtù di un’inveterata abitudine, così radicata nel suo essere da sopravvivere anche nell’abisso oscuro della morte, affondò i denti molto più in basso. Il giovane rivoluzionario trapassò come un San Sebastiano sacrilego, bestemmiando Iddio e il Sistema.
Dalla soglia dello studio, il Rettore e la sua piccola armata osservavano la scena. La ragazza non riuscì a celare un sorriso di soddisfazione.
“Muoviamoci”, ordinò il Rettore, e si mise a correre verso la porta che dava sul corridoio, subito seguito da Colombo e dalla vergine guerriera. Il cardinale e il ministro erano troppo presi a sbranare il corpo dello studente per badare al terzetto che sgattaiolava rasente il muro.
Nel corridoio si trovarono di fronte una dozzina di zombi, i cui sensi si accesero all’istante all’odore di quella carne viva.
Il Rettore strinse forte l’impugnatura della scimitarra. Era stato in decine di commissioni di concorso, affrontando avversari astuti e crudeli, e aveva sempre trionfato, imponendo i propri candidati e schiacciando quelli altrui. Affrontare un branco di morti viventi erano uno scherzo. Lanciò nell’aria il suo grido di guerra: “Io sono il Magnifico!”. E partì alla carica. Con il primo fendente fracassò il cranio a un insigne ordinario di Procedura penale, con il secondo decollò il preside della facoltà di Farmacia, e con il terzo abbatté l’ammiraglio in pensione. Con lo scudo parò l’assalto di una soubrette, cui nella ressa nell’aula magna erano esplosi i seni al silicone, e calò il brando sulla testa del direttore del dipartimento di Storia. La lama penetrò facilmente fino alla sterno, ma qui si incastrò nel costato. La scimitarra non veniva via, e intanto la soubrette proseguiva nell’attacco. Il Rettore lasciò la spada, sfilò la mazza cerimoniale dal cinturone, con uno scatto fulmineo si sottrasse alla presa della morta vivente, le girò attorno e la atterrò con un colpo preciso sulla nuca.
L’adrenalina gli scorreva copiosa nelle vene. Sotto la cotta di maglia, il sudore gli impregnava la camicia. Per un uomo da molto tempo del tutto disabituato all’attività fisica, era una sensazione inebriante. Per un attimo, il Rettore si rivide ventenne, prima del matrimonio, prima della carriera, prima di tutto ciò per cui aveva vissuto negli ultimi quattro decenni. Si rivide giovane e snello, in un’estate perduta, quando era stato il reuccio della pista del Bandiera Gialla.
“Perché, perché, la domenica mi lasci sempre sola…”, si mise a cantare il Rettore mentre spacciava un mostro dopo l’altro.
Raggiunse le scale che conducevano al cortile e si voltò a cercare con lo sguardo i suoi compagni. Colombo era a terra. Due zombi gli erano sopra e lo stavano divorando. Il Rettore scosse la testa. Lo aveva sempre sospettato. Sotto quella sua patina di efficienza, in fondo Colombo era uno sul quale non si poteva contare. Il Rettore tornò indietro, fece fuori i due mostri chini su Colombo, e fissò negli occhi il suo ormai ex segretario. La vita lo stava abbandonando, ma non sembrava curarsene troppo. L’unica cosa che gli si leggeva nelle pupille era un profondo rammarico per aver deluso il proprio superiore.
“Non fa nulla”, disse magnanimo il Rettore.
Il volto di Colombo parve distendersi. Poi il moribondo cercò di parlare, ma vomitò un sangue nero, denso.

Il Rettore distolse lo sguardo dall’agonia del subalterno. La ragazza stava fornendo una prova eccellente. Rapida e letale, eliminava uno zombi dietro l’altro mulinando con destrezza uno spadone da lanzichenecco. Quelle braccine magre nascondevano muscoli forti ed elastici. I suoi genitori non avevano speso in vano i soldi per le lezioni di sci. La valchiria atterrò il preside della facoltà di Scienze Naturali, un direttore amministrativo, un ordinario di Economia politica, e fu accanto al Rettore, il quale le sorrise e chinò il capo per complimentarsi. Lei restituì il sorriso, e con una stoccata fece fuori un mostro che stava tentando di aggredire il Rettore alle spalle.
All’improvviso, una mano fredda afferrò il Magnifico a un polpaccio. Il Rettore guardò in basso, e vide che Colombo stava per addentargli la gamba, gli occhi feroci, la mascella tesa nel desiderio spasmodico di affondare i denti nella carne. Il Rettore pensò che, in quella manifestazione post mortem, Colombo sembrava più vivo di quanto non fosse mai sembrato prima del trapasso. Dopo di che gli fracassò il cervello con la mazza cerimoniale.
Il pavimento del corridoio era coperto di cadaveri definitivamente tali. Il Rettore e la rappresentante di CL si precipitarono giù per le scale, verso il piano terreno. L’accesso alle cantine era sul lato opposto del cortile.
Stavano percorrendo veloci il colonnato, quando dall’ombra guizzò fuori l’Illustre Ospite e azzannò la ragazza a una spalla. La fanciulla barcollò, ma ebbe abbastanza forza e prestanza di spirito da scrollarsi di dosso il mostro e affondargli la lama in mezzo agli occhi.
La valchiria giaceva a terra, le chiome bionde tutte scarmigliate. Dalla ferita il sangue sgorgava abbondante. “Rettore”, sussurrò.
“Dimmi, piccina”, rispose il Rettore, sinceramente commosso.
“Mi risparmi l’orrore della trasformazione. E’… è contro natura”, gemette, forse cercando di convincersi che non si trattava di eutanasia.
Il Rettore emise un lungo sospiro e fece di sì con la testa.
“Ma prima”, aggiunse la ragazza, “vorrei chiederle un’ultima cortesia.”
“Qualsiasi cosa”, disse il Rettore con dolcezza.
“Vorrei…”, sussurrò la ragazza, troppo pudica per esprimere ad alta voce quel pensiero. Le sue gote, rosse nonostante la morte fosse vicina, parlavano per lei.
Il Rettore esitò un istante prima di poggiare le labbra su quelle della ragazza, in un lungo, tenero, incontro. Dopo di che si tirò in piedi e alzò in aria la mazza.
“Questione di un secondo”, disse trattenendo a stento le lacrime.
La ragazza annuì e chiuse gli occhi.
La mazza rettorale calò liberatrice sulla fronte nobile della fanciulla.

La luce dell’alba inondava il cortile e il Rettore, la mazza e lo scudo coperti di schizzi di sangue e grumi di materia grigia, camminava a grandi passi verso la guardiola dei bidelli da cui si scendeva in cantina. Aveva quasi raggiunto il suo obiettivo, quando notò un riflesso rosso sulla cotta di maglia. Si bloccò all’istante, e si guardò attorno, ma non c’era nessuno in vista, né vivente né zombi. Poi alzò il capo. Sulla balconata del primo piano era schierato un reparto di tiratori scelti dei carabinieri armati di fucili con puntatori laser. Accanto a quello che doveva essere l’ufficiale in comando, c’era Zingarelli, con in mano un binocolo a raggi infrarossi.
Sarà stato per via della stanchezza dopo una notte di paura e di battaglia, o in virtù del turbamento che lo aveva colto, e che ancora non si era dileguato, al contatto con quelle labbra giovani e morenti, oppure sarà stato a causa del rancore sordo che provava verso Colombo, il quale era stato così inetto da farsi mordere, e ora gli toccava cercare e istruire un nuovo segretario, qualunque fosse la ragione, per la prima volta in molti anni, dopo centinaia di commissioni di concorso, sessioni del senato accademico e consigli di facoltà, in cui il Rettore era sempre stato più rapido dei propri avversari, per la prima volta la mente del Magnifico fu lenta.
Zingarelli si portò il binocolo agli occhi ed esaminò l’aspetto dell’imponente guerriero che avanzava in mezzo al cortile. Le pupille erano chiare. Non sembrava aver riportato ferite. Il bastardo ce l’aveva fatta. Una prova notevole. Il preside della facoltà di Medicina rise dentro di sé. Abbassò il binocolo e si accostò al maggiore dei carabinieri.
“E’ infetto”, disse con un sospiro che simulava una profonda disperazione.
Solo allora, quando vide Zingarelli confabulare con l’ufficiale, il Rettore capì, ma era troppo tardi.
“Fuoco!”, ordinò il maggiore.
Una pioggia di piombo investì il Rettore, che si accasciò a terra in un clangore di panoplia, come un eroico samurai abbattuto dalle armi futuribili di un’epoca vile e spietata.

Erano state settimane piene di lavoro. L’incidente al rettorato — così lo chiamavano pudicamente negli ambienti universitari — aveva decapitato facoltà e dipartimenti, nonché lo stesso ateneo. Si erano tenute elezioni per rimpiazzare presidi e direttori, e nel giro di pochi giorni si sarebbe votato per il nuovo rettore. Zingarelli era il candidato favorito.
Il preside della facoltà di Medicina, seduto nel suo studio, era al telefono con il preside di Farmacia, appena insediatosi. Zingarelli si stava complimentando per la vittoria, ma voleva soprattutto sincerarsi che il neo-preside lo avrebbe sostenuto, insieme a tutta la sua facoltà, nella scalata allo scranno rettorale.
All’improvviso, la segreteria di Zingarelli si precipitò nella stanza, il viso stravolto dal terrore.
“Signor preside”, disse con un filo di voce. “E’… è arrivato il professor Porro.”
Zingarelli la guardò senza capire le ragioni di tanto allarme. Porro era uno dei suoi grandi elettori. L’appuntamento era in agenda da tempo.
“Sì, lo faccia accomodare”, rispose Zingarelli, il ricevitore in pugno, a mezz’aria.
“Ma è… è…”, balbettò la segretaria.
Quando Porro si affacciò sulla soglia, la donna non si trattenne più e lanciò un urlo.
“Ti richiamo”, disse freddo Zingarelli nel telefono. Attaccò e si alzò in piedi.
Porro, il volto grigio, gli occhi amaranto, le mani protese in avanti, camminava incerto verso di lui.
Zingarelli afferrò la segretaria e scattò in direzione dell’uscita, trascinandosi dietro la donna. Il mostro si girò, ma era lento. I due viventi erano già passati nella stanza attigua e Zingarelli stava chiudendo la porta a chiave.
Il preside e la sua collaboratrice emisero all’unisono un respiro profondo.
“Chiamo la polizia?”, chiese la segretaria. Non attese neppure la risposta, che le pareva ovvia, e si avviò verso il telefono della sua scrivania.
“Ferma”, intimò Zingarelli alla donna, la quale stava già componendo il numero.
La segretaria lo fissò sbalordita.
“E’ matta? Porro è uno dei miei sostenitori. Non lo facciamo uscire da lì fino al giorno delle elezioni. Piuttosto, mi aiuti a trovare un cane o un gatto da dargli da mangiare. Alla peggio andrà bene anche un professore a contratto, tanto quelli non votano.”