di Valerio Evangelisti

PFLP2.jpgA differenza del gruppo di Hawatmeh, che non riconosce ai ceti intermedi un ruolo specifico nella rivoluzione, Habash vede nella piccola borghesia, o quanto meno nella piccola borghesia palestinese, un soggetto potenzialmente antagonista all’imperialismo, al sionismo e alla reazione araba. Simile riconoscimento nasce da una duplice constatazione. In primo luogo quella del notevole peso numerico e politico che la classe piccolo-borghese (negozianti, studenti, artigiani, insegnanti, impiegati) ha nelle società sottosviluppate, in cui l’assenza di un tessuto industriale esalta la funzione economico-sociale dell’artigianato e delle attività terziarie (48). In secondo luogo, quella della particolare situazione dei ceti medi palestinesi in rapporto al resto della piccola borghesia araba. Simile analisi è, ancora una volta, esposta in termini la cui chiarezza non implica schematismo, ma piuttosto rigore:

“La ragione della presenza della piccola borghesia alla testa del movimento nazionale palestinese è che, nella fase della liberazione nazionale, questa classe è una delle classi rivoluzionarie: oltre al fatto che le sue proporzioni numeriche sono relativamente estese e che, in virtù delle sue contraddizioni di classe, essa possiede conoscenza e potere. Di conseguenza, in una situazione in cui le condizioni della classe operaia, sotto il profilo della coscienza politica e dell’organizzazione, non sono ancora abbastanza evolute, è naturale che la piccola borghesia debba trovarsi alla testa dell’alleanza delle classi che combattono Israele, l’imperialismo e la reazione araba. A tutto ciò dobbiamo aggiungere lo speciale carattere della piccola borghesia palestinese, e la differenza tra la sua posizione e quella della piccola borghesia araba che governa i regimi arabi nazionalisti. La piccola borghesia palestinese ha innalzato la bandiera della lotta. Oggi essa ha un ruolo guida e il fatto che non sia al potere la rende più rivoluzionaria della piccola borghesia araba, intenzionata a salvaguardare i propri interessi e a conservarsi al potere, evitando la lunga e decisiva lotta contro lo schieramento nemico” (49).
Appaiono dunque chiare le ragioni della cautela del Fronte nei riguardi dei regimi arabi, assolutamente non confondibili – malgrado le roventi accuse di Hawatmeh – con la ‘non ingerenza’ professata da Al-Fatah o dal Comando Generale. L’FPLP considera il processo rivoluzionario scandito in fasi e articolato in livelli giustapposti, uno dei quali – corrispondente alla prima delle scansioni temporali – è quello della lotta puramente nazionale e del riscatto antiimperialista. In questo stadio e su questo piano. la piccola borghesia araba e i regimi nazionalisti (Algeria, Egitto, Siria, Iraq) svolgono una funzione oggettivamente progressiva, che non può essere negata senza incorrere in una puerile semplificazione delle forze in campo. Ma naturalmente esistono una seconda fase e un secondo livello inscindibili dal primo – quello della rivoluzione sociale – alla soglie dei quali la volontà di riscossa della piccola borghesia araba vacilla e finisce con l’arenarsi.
Diverso è il caso della piccola borghesia palestinese, la cui collocazione politico-sociale reca indelebilmente le stimmate del trauma originario – la perdita delle proprie case, delle proprie terre e di tutti i propri beni. Tuttavia anche qui ogni semplificazione è nociva. L’ampio ventaglio di condizioni di vita, l’estraneità al processo produttivo, la grande mobilità sociale verso l’alto o verso il basso ostacolano una definizione univoca della posizione di questo aggregato in rapporto alla lotta rivoluzionaria. Sta di fatto che, se la direzione del movimento deve rimanere saldamente affidata al proletariato, è proprio nei ranghi della piccola borghesia che le classi subalterne riescono storicamente a reclutare i propri più fedeli alleati. Il Fronte Popolare deve dunque impegnarsi in una duplice battaglia. Da un lato deve acquisire il consenso degli strati piccolo-borghesi, aprendo le proprie fila ai migliori elementi di questi ceti e conquistando gli altri a una linea d’azione antagonista. Dall’altro deve lottare affinché la piccola borghesia (come classe, non come individui) non acceda alla leadership del movimento, introducendovi esitazioni e confusione d’intenti. Prima garanzia in questo senso è l’adozione di un programma politico e organizzativo inequivocabilmente operaio, tale da convogliare entro precise direttrici pratico-teoriche la militanza dei quadri di estrazione non proletaria.
Gli elementi di novità dell’analisi proposta dal Fronte risiedono essenzialmente nella sua flessibilità, inconsueta in un movimento di ispirazione marxista-leninista-rnaoista; nel suo realismo, dal momento che ammette la presenza della piccola borghesia nei gruppi dirigenti della resistenza e del Fronte stesso, senza cercare di sovrapporre le proprie aspirazioni a uno stato di cose con connotati differenti; e infine nella sua aderenza alla realtà sociale effettiva dei ceti medi palestinesi.
Quando l’FPLP tiene il suo secondo congresso, già da due anni Israele ha annesso ai propri territori, di fatto anche se non di diritto, la striscia di Gaza e la Cisgiordania (denominata ‘Giudea e Samaria’), prive di insediamenti ebraici e abitate da oltre un milione di arabi, quasi tutti palestinesi. Sono cosi ricaduti sotto il controllo israeliano i profughi, esuli dalla Palestina fin dal 1948, stanziatisi in queste zone.
Sotto un profilo sociale, si tratta per lo più di salariati agricoli – magari un tempo coltivatori in proprio — e, in proporzione minore ma non trascurabile, di operai addetti all’edilizia o alle piccole imprese manifatturiere locali. Vi è inoltre un’ampia quota di popolazione che vive nei campi profughi, fruendo dei sussidi forniti dal UNRWA. Ma la figura più tipica, che le riassume tutte, è forse quella del rifugiato palestinese, che vive sì nei campi, lavorando però quale bracciante nei poderi circostanti o recandosi in città – a Gerusalemme, a Hebron, a Nablus, a Betlemme o perfino ad Amman – a svolgere mansioni di manovale o di operaio (50).
Questi strati subalterni, che il Fronte Popolare ha il merito di elevare per la prima volta a soggetto centrale della rivoluzione, non esauriscono però la composizione sociale della diaspora palestinese. Oltre a una borghesia araba vera e propria, composta da notabili, effendi e imprenditori che hanno conservato nell’esodo i loro beni (avendo già prima del 1948 importanti proprietà all’estero) e che continuano ad arricchirsi investendo negli emirati del Golfo e in altre zone lontane dai teatri di battaglia, esiste una variegata fascia sociale intermedia non assimilabile al proletariato. Si tratta di piccoli coltivatori diretti o di piccoli affittuari che, procuratisi qualche ettaro di terra in Giordania, hanno potuto distaccarsi dai campi profughi e conseguire un certo benessere (la valle del Giordano è rinomata per la sua fertilità). Oppure di commercianti che. grazie alla parentela etnica col grosso della popolazione giordana, sono riusciti a inserirsi nella vita economica locale. O ancora di insegnanti nelle scuole e nelle università di Hebron, di Nablus. di Gerusalemme e dei principali centri della regione, di medici, di avvocati, di studenti, di intellettuali. Una compagine dunque eterogenea, unificata però, oltre che dalla collocazione sociale (che non li vede né acquirenti né venditori di forza lavoro), dalla lingua, dalla cultura e da un forte sentimento nazionale, di solito privo di riflessi egualitari.
Rispetto ad altre piccole borghesie mediorientali, questi ceti soffrono delle contraddizioni ben individuate da Habash. Esclusi dal potere per la loro condizione di stranieri e per l’ordinamento feudale vigente in Giordania (paese privo di diritto certo, in cui l’omicidio non viene in pratica perseguito, mentre lo è qualsiasi sintomo di insofferenza politica), vedono per le stesse ragioni bloccata anche la loro crescita economica. Le scarse illusioni in questo senso sono d’altronde dissipate dall’occupazione israeliana del 1967. Oltre a imporre un regime di controllo militare (con tutte le conseguenze del caso: arresti arbitrari, uccisioni, umiliazioni, demolizione delle case dei soggetti ‘refrattari’, perquisizioni continue (51), i conquistatori non tardano infatti a vanificare, con la loro consueta sottigliezza legislativa, la faticosa ricostruzione di una società palestinese in esilio. Il copione è identico a quello del 1948. Ancora una volta le ordinanze militari sostituiscono, anticipano o integrano le disposizioni di legge.
L’ordinanza numero 58 decreta ad esempio l’acquisizione dei beni dei ‘proprietari assenti’ nel 1967 da parte di un conservatore statale, autorizzato a disporne come crede (52). Ne fanno le spese, ovviamente, i fellahin sfollati nel corso della guerra, a vantaggio dei coloni israeliani che iniziano ad affluire in Cisgiordania. Un’altra ordinanza dispone il passaggio allo Stato di Israele, che le affida a colonie ebraiche, di tutte le terre adibite a pascolo o coltivate in comune dagli abitanti dei villaggi arabi. Altre ordinanze ancora consentono l’esproprio di fondi per le solite ragioni di sicurezza (‘area di sicurezza’ è definita quasi tutta la valle del Giordano), per motivi di ‘pubblica utilità’ (fra cui rientra l’insediamento di nuovi kibbutzim) o per mancanza di proprietari individuali identificabili (ma per il codice ottomano, ancora vigente in Cisgiordania, tutta la terra appartiene giuridicamente allo Stato, mentre gli agricoltori non ne posseggono che l’usufrutto).
Per la piccola borghesia palestinese ricaduta sotto il dominio israeliano, non esiste quindi sviluppo possibile, né in termini economici né in termini di potere, cosi come non esiste futuro che non si sostanzi in una proletarizzazione più o meno rapida. Prospettiva che coinvolge anche coloro che vivono lontani dalle zone occupate, perennemente prigionieri del timore di un soprassalto espansionistico di Israele. Una piccola borghesia, dunque, psicologicamente insicura ed economicamente instabile. Ecco perché il Fronte Popolare, al pari di tutti i movimenti di liberazione del Terzo Mondo, vede un massiccio afflusso di giovani di estrazione piccolo-borghese nei propri ranghi. Ecco, altresì, l’elemento che consente, secondo le indicazioni di Habash, il passaggio dal pensiero atavico al pensiero scientifico, determinando il salto dalla lotta anticoloniale alla rivoluzione sociale e culturale. Jean Ziegler ha descritto con grande acume il fenomeno:
“La classe intermedia è in possesso della strumentalità tecnica, militare, simbolica dell’occupante. I suoi membri sanno analizzare una situazione economica globale, maneggiare un fucile mitragliatore, leggere una carta di Stato Maggiore, entrare in contatto con Stati esteri, mobilitare la solidarietà internazionale, servirsi delle comunicazioni moderne e organizzare un sistema moderno di logistica. Questo potere è dunque, in primo luogo, quello conferito dalla padronanza della strumentalità occidentale. Ma, quando parlo di strumentalità, non parlo unicamente di sapere tecnologico. La strumentalità acquisita da questi uomini e da queste donne non si limita a un qualunque sottoprodotto della meccanica o a una semplice scolastica dell’attrezzo. Più importanti ancora sono la rottura epistemologica col sistema ideologico dell’oppressore che questa avanguardia opera, le analisi inedite che essa sola è capace di formulare in ogni sequenza dei rapporti dialettici, in cui le contraddizioni si aprono tra la repressione del nemico e gli atti di resistenza del movimento di liberazione” (53).
La leadership dell’FPLP, rinnovata dopo il 1967 dall’apporto di alcuni tra i più vivaci esponenti dell’intellettualità palestinese (di cui Ghassan Kanafani, scrittore finissimo, resta l’esempio più illustre), è fedele rappresentazione di un’avanguardia siffatta. L’accento posto da Habash sul ruolo fondamentale della piccola borghesia in una società sottosviluppata denota dunque perspicacia. Ma altrettanto perspicace è l’insistente esortazione a trasferire la direzione del movimento dalla piccola borghesia al proletariato. Certo, l’operazione è resa difficile dalla sovrabbondante presenza, tipica anch’essa del Terzo Mondo, di masse fluttuanti e disgregate, dotate di coscienza di classe meno che embrionale, di capacità tecniche scarse o nulle, di un grado culturale infimo, di doti militari affidate all’istintività (54). Ciò nonostante, l’avanguardia di estrazione piccolo-borghese è perfettamente consapevole delle esigue forze di cui dispone, se sola, la propria classe di provenienza nella lotta contro uno dei tre principali nemici del movimento di liberazione – il nemico interno, rappresentato dal ceto dominante di origine feudale e dall’alta borghesia araba (gli altri due nemici essendo, come si ricorderà, il sionismo e l’imperialismo occidentale) (55).
La composizione multiforme della piccola borghesia, la pluralità di interessi rilevabile al suo interno, la sua stessa funzione economica (parzialmente autonoma, ma comunque condizionata al mantenimento della struttura di potere esistente) la rendono incapace di estendere la lotta agli oppressori esterni fino a inquadrare nella controparte i ceti privilegiati arabi, vincolati ai ceti intermedi da un troppo organico intreccio di rapporti commerciali e di relazioni clientelari. Eppure proprio negli strati privilegiati è constatabile la mai sopita tendenza a perseguire un accordo o una composizione con lo straniero, circoscrivendo, soffocando o contraddicendo gli ideali nazionalistici coltivati dalla piccola borghesia (56). Cosi come a tali strati è ascrivibile la perpetuazione dell’inferiorità politica ed economica dei ceti medi, in deciso contrasto con l’autonomia che questi ultimi aspirano a maturare quali protagonisti della lotta per il riscatto nazionale.
Di qui l’esigenza, presto avvertibile nelle avanguardie piccolo-borghesi più sensibili alla contraddizione tra la propria crescita e il ruolo frenante dei ceti egemoni, di mobilitare contro il nemico interno il proletariato – classe che, in virtù della sua predominanza numerica, del suo ruolo nella produzione e della sua oggettiva divergenza di interessi con i gruppi dominanti, è la sola potenzialmente in grado di rovesciare le strutture di comando e di impegnarsi in un conflitto con caratteri di globalità.
Si tratta però, come si è detto, di una falange dequalificata e soggettivamente disorganica, priva di tradizioni rivendicative e di cultura autonoma. Mobilitarla significa dunque, preliminarmente, costruire in essa una coscienza di classe, che le permetta un’immediata identificazione delle forze che si oppongono al soddisfacimento dei suoi bisogni. Significa, altresì, allettarla nell’unico modo possibile, e cioè introducendo motivazioni sociali e finalità socialiste nella lotta di liberazione. Solo in tal modo, infatti, il proletariato può accedere a quella cultura democratica e nazionalista che è alla base del risorgimento palestinese, e che tradizionalmente appartiene a fasce di ceti medi.
Cosi facendo, però, la piccola borghesia rivoluzionaria finisce con l’alterare la composizione sociale del movimento e l’ideologia che lo ispira. Lavorando all’unificazione delle masse subalterne e suscitando in esse la consapevolezza dei loro interessi collettivi, le trasforma da aggregato in classe, da coacervo oscillante in forza autonoma. Inoltre, aprendo la propria ideologia alle istanze e ai bisogni del proletariato, essa finisce per fare di questi ultimi l’asse teorico centrale del movimento, sovrapponendo al nazionalismo originario un’ispirazione socialista sempre meglio definita (il cui approdo è l’adozione del marxismo-leninismo, quale strumento più affilato per quel processo di razionalizzazione cui si accennava). Fino a che è il proletariato stesso, divenuto classe anche sul piano soggettivo, a prendere le redini della lotta di liberazione in vesti di protagonista – mentre le avanguardie piccolo-borghesi compiono un atto di suicidio sociale e di rigenerazione politica, rompendo ogni residuo legame con i ceti di provenienza e ponendosi al servizio dei nuovi soggetti rivoluzionari.
Riassumendo, tanto in Medio Oriente che più in generale in ogni regione del Terzo Mondo, è una frazione della piccola borghesia che, in opposizione ai ceti dominanti autoctoni, si incarica di forgiare sotto il profilo soggettivo un proletariato prima esistente solo a livello oggettivo, elaborando un’ideologia adeguata alle sue istanze e innestandola sul proprio originario nazionalismo. Di qui la rapida traslazione – constatabile non solo nell’FPLP, ma anche nel Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola, nel Fronte Sandinista nicaraguense, nel Movimento 16 Luglio cubano, nel Fronte di Liberazione del Monzambico, ecc – dalla lotta nazionale alla lotta nazional-sociale. Di qui, altresì. il nesso indissolubile tra il processo di democratizzazione inizialmente avviato dalla piccola borghesia (democratizzazione che nel contesto palestinese significa anzitutto laicizzazione, modernizzazione, pluralismo decisionale) e la rivoluzione socialista auspicata e condotta da strati proletari gradualmente educati all’autogoverno.

NOTE:

48) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., p. 27.
49) lvi, p. 32.
50) Figura ‘tipica’ non equivale, naturalmente, a figura ‘maggìorìtarìa’ né ‘prevalente’. A tale proposito va osservato che esistono profonde differenze nella composizione sociale riscontrabile, rispettivamente, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. La percentuale dei palestinesi ospitati nei campi profughi è maggiore nella prima che nella seconda regione, così come l’incidenza della manodopera disoccupata. D’altra parte la Cisgiordania comprendeva, prima dell’occupazione, il 48% delle industrie esistenti nel regno hashemita. Vi è dunque presente una classe operaia assai folta, che percentualmente costituisce la maggioranza della forza-lavoro attiva. Per un’analisi particolareggiata cfr. E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 279-288. Superficiali appaiono invece le considerazioni di G. Chalìand, che nega la presenza in Cisgiordania di un vero e proprio proletariato. Cfr. G. Chaliand, op. cit., pp. 194-196.
51) Cfr. AA. VV., DossierPalestlna, cìt.
52) Per una rassegna della legislazione israeliana tesa all’acquisizione di terre nei territori occupati, cfr. J. Kuttab, Au nom d’une loi injuste, in “Le Monde Diplomatique”, settembre 1983; M. B. Tosi, op. cit., pp. 144 ss. La. storia emblematica di una città della Cisgiordania sottoposta al dominio coloniale israeliano è narrata nell’articolo Judaizing Al Khalìl – Historical background, in “PFLP Bulletin”, 1983, n° 68.
53) J. Ziegler, op. cit., p. 371.
54) Può essere agevolmente generalizzata all’intero Medio Oriente l’analisi del proletariato egiziano condotta in M. Hussein, op. cit., pp. 31-39.
55) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, in OLP, Al-Fatah, FPLP, FDLP, op. cit., pp. 238-249.
56) Cfr. PFLP, A strategy, cit., pp. 34-35.

(3-CONTINUA)