di Dziga Cacace

Hanno dimenticato due cose nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo:
il diritto di contraddirsi e quello di andarsene
Jean-Pierre Leaud,
La maman et la putain

DDV0701.jpg89 – Together del geniale Lukas Moodysson, Svezia/Danimarca/Italia 2000

Sto aspettando una risposta per iniziare un nuovo lavoro e allora cazzeggio, più o meno come quando il lavoro c’è. Vado al cinema Arlecchino per lo spettacolo delle tre pomeridiane, privilegio per pochi: qualche anziano, qualche studente, qualche sfaccendato: io. Buio in sala e devo sorbirmi un quarto d’ora di pubblicità: e perché? Ho già pagato, è mica tivù questa, eh. Però poi arriva il film a mettermi di buonumore. Svezia, 1975: Elisabeth scappa dal marito violento e, con i figli Eva e Stefan, trova rifugio in una comune dove vive il fratello Göran. L’inserimento è difficoltoso anche perché la comunità è bizzarra e ci sono già alcune tensioni in atto. Klas è omosessuale e innamorato di Lasse, appena lasciato da Anna (lesbica interessata subito a Elisabeth). Göran dice sempre a tutti di sí e per principio lascia che la sua compagna Lena si faccia strapazzare dal marxista Erik (piuttosto confuso, ma deciso a darsi al terrorismo). In mezzo a questo bailamme ideologico e sentimentale si aggira un bambino chiamato Tet, abituato a “giocare a Pinochet” (cioè torturarsi con gli amichetti). Tutti questi pazzi sono osservati da lontano da una famiglia borghesissima, con il piccolo Fredrik sempre più curioso. Hippie e socialisti, nemici della Coca Cola, della carne, del Lego, della depilazione femminile e della materialista Pippi Calzelunghe, i nostri eroi sono magnifici e la loro rappresentazione è ironica e affettuosa. E questo film è un capolavoro e un atto d’amore.


Si ride tantissimo e si partecipa alla costruzione difficoltosa ma possibile di un ideale di pace e convivenza. Ho goduto come una bestia e dopo il finale surreale e dolcissimo conto molte scene da antologia, una regia in ogni caso sveglia (ancora una volta, dogmaticamente, lo zoom paratelevisivo e gli attacchi di montaggio sgrammaticati) e un uso della musica intelligente (assente in momenti in cui la retorica cinematografica lo imporrebbe e presente quando meno te lo aspetti, ma come parte essenziale della narrazione). Insomma: grandissimo film, per conto mio meglio riuscito dell’osannato Fuckin Åmal. E poi come non amare un film che ti fa ascoltare la cafonissima Love Hurts dei Nazareth (grande gruppo hard scozzese)? Molta critica schizzinosa e stronza ha osservato che Together è un piacevole bozzetto, che le figure protagoniste sono esili e un po’ stereotipate e altre balle. Di fronte a tanta spocchiosa diffidenza non mi premuro neanche di rispondere se non con un vaffanculo. Il commento più bello al film l’ha fatto Paolo, il fratello cineasta di Barbara: “Un film così ti fa capire quanto sia ancora bello essere di sinistra”. È proprio vero. (Cinema Arlecchino, Milano; 8/2/01)

90 – La tigre e il dragone del professionale Ang Lee, Cina/USA 2000

Prendi il kung fu, Matrix e l’esotismo fiabesco della Cina senza tempo, mescola il tutto con un pizzico di misticismo (tao, che fa molto new age) e poi mettici una spada magica e una ragazzina guerriera al bivio tra bene e male. Ottieni così La tigre e il dragone, film programmaticamente divertente, talmente costruito che alla fine, dopo volteggi per aria, urletti felini, sciabolate sibilanti e pretesti per mostrare combattimenti sempre più fantasiosi e montati con crescente maestria, finisce che ti rompi anche un po’ le palle. La tigre e il dragone è tratto da qualche librone cinese di avventure da cui Ang Lee ha desunto le canoniche due ore di narrazione con al centro Jen (la bella Zhang Ziyi, e chi non la conosce?). C’è, come detto, la scelta della protagonista, ma anche l’amore: quello giovanile e passionale di Jen (con un brigante mongolo) e quello intellettuale e che non arriva a concludersi fisicamente dei non più giovani maestri Chow Yun-fat e Michelle Yeoh (raccontato non senza ironia). E poi ancora tanti duelli, bellissimi, frenetici, spassosi, ricchi di invenzione. Il problema è che le parti di racconto che legano il tutto sono statiche, noiose, con dialoghi senza alcuna qualità. Ma so già che sarà colpa della traduzione. In USA ha sbancato il botteghino e se ne comprende il motivo. Visto all’Excelsior (con proiezione leggermente aberrata, sala in salita e gallerie scomode). Nella fila davanti a me, incapace a rimanere in silenzio due secondi di seguito, c’era Pinketts. Col cappello. Intanto, giusto perché sono un acuto osservatore del mondo, due pinzillacchere sulla crisi bovina ormai all’apice: in Germania si forma un basagliano Potere Contadino (giuro) per salvare dall’abbattimento le mucche sospettate di pazzia. Qui da noi, invece, macellai e allevatori intellettuali manifestano davanti al Parlamento invocando una meno rigorosa indagine fiscale l’anno venturo (!). È un piacere perverso vedere macellai con colli taurini strozzati da catenone d’oro che agitano pugni gonfi d’indignazione all’indirizzo dei politici che hanno votato, perché è ovvio, è colpa loro. Non di chi la carne la vendeva o di chi allevava le povere bestie che adesso si credono Napoleone. Tra l’altro viene anche scoperto un deposito (Nord Italia, mica Napoli, come farebbe comodo dire) pieno di farine animali vietate. Della civile imprenditrice nordista, in osservanza alla legge della privacy, non si cita il nome. Che garbo, talvolta. (Cinema Excelsior, Milano; 8/2/01)

DDV0702.jpg91 – Il gusto degli altri della arguta Agnés Jaoui, Francia 1999

Di nuovo al cinema di pomeriggio. A fare le ragnatele in ufficio non ci penso neanche e allora mi godo uno dei pregi della libera professione (dire “della precarietà” mi sembra offensivo): l’arte della fuga. Mi dirigo al cinema President, il cinema di Milano che sta alle altre sale come un salotto sta a dei tinelli. Elegante, pulito, attento alle esigenze dello spettatore (tanto che ti forniscono una rassegna critica sul film tratta dai quotidiani), senza pubblicità imposta, con poltrone molto comode e con una precisione svizzera nel rispettare gli orari di proiezione. Insomma: una pacchia e, a dimostrare che la qualità paga, la sala (alle 15 e 30) è piena, manco fossimo a Genova dove il biglietto scontato del primo spettacolo è un incentivo imbattibile. Il film è diretto da Agnés Jaoui, figlia di un cialtrone vero che ho avuto occasione di conoscere due anni fa quando ho frequentato delle incredibili lezioni sulla creatività, che il suddetto cialtrone riteneva di poter controllare con un mazzo di tarocchi, qualche pallina di gomma, dei riti simil voodoo e la barzelletta sempre pronta. Il tizio in questione scippa faraoniche parcelle ad aziende che devono rivitalizzare dirigenti lenti di comprendonio ed executive in crisi creativa. Non è giusto far ricadere sui figli le colpe dei padri, lo so, e cito la cosa per il gusto di farlo, ma chissà come è riuscito a un padre furbacchione tirare su una figlia abbastanza genialoide (assieme al compagno Jean-Pierre Bacri, ha scritto anche Parole, parole, parole e Smoking/No Smoking di Resnais e Aria di famiglia di Klapisch). Chissà se vanno d’accordo, chissà se i metodi creativi del padre sono usati anche dalla figlia, chissà che non abbia preso una cantonata io che ho giudicato Jaoui padre un pagliaccio (no). Ma smettiamola con queste baggianate egoriferite da autore tivù e passiamo al film: Il gusto degli altri è un allegro balletto che vede i protagonisti alla ricerca dell’affetto altrui, del compiacere appunto il gusto degli altri, di farsi comprendere e amare. È difficile ottenere questa sintonia e le storie orchestrate dalla Jaoui hanno esiti non immediatamente positivi, però con una briciola di speranza che induce a non desistere, come dimostra il finale in cui un protagonista che ha suonato note strazianti sul suo flauto per tutto il film, finalmente riesce a suonare in accordo con un piccolo ensemble. C’è l’imprenditore volgarotto e ignorante che s’innamora di un’attrice di teatro, c’è la guardia del corpo fascistona che non riesce a far coppia con la spregiudicata Manì, barista che vende erba, e c’è l’autista che crede all’amore ma subisce delusioni cocenti. Il film è decisamente piacevole, scritto molto bene, con grande attenzione a tic verbali, piccoli imbarazzi, curiosità sincere. È musicale, arguto e, anche se talvolta soffre di qualche pausa narrativa, si fa vedere con gran piacere, anche se davanti a me un tizio ha dormito profondamente, arrivando perfino a russare come una marmitta bucata. Simpatico (il film, non lui). (Cinema President, Milano; 9/2/01)

ddv0703.jpg92 – Garage Olimpo del coraggioso Marco Bechis, Argentina/Italia 1999

Maria è una diciottenne impegnata nella resistenza alla dittatura militare di Videla, nell’Argentina della metà degli anni Settanta. Non sembra particolarmente coinvolta, ma pensa e tanto basta per essere sequestrata dai militari e venire portata al Garage Olimpo, una centrale di tortura segreta. Come altri trentamila cittadini argentini, scomparirà (trentamila, capito?). Il film di Bechis ha un inestimabile valore per la memoria futura: è così che un regime ha annullato la migliore parte di una generazione. I responsabili, oggi, sono uomini liberi grazie a quel pagliaccio basettone di Menem (e a tutti i governi occidentali, silenti corresponsabili allora, blandi accusatori dalla coscienza sporca oggi). A Bechis non preme solo raccontare la sua storia (fu sequestrato e per miracolo evitò la morte): Garage Olimpo riesce, senza mai mostrare la violenza, a farcene sentire tutto il peso. Quello argentino fu un meccanismo di eliminazione fisica rozzo eppure pulito, tanto che le responsabilità non sono venute a galla neanche un quarto di secolo dopo. Ma fu anche un sistema di annullamento delle coscienze basato sulla paura: gli stessi ribelli – come mostra il film – hanno il terrore di venire a sapere di loro stessi, perché la conoscenza è fonte di morte, propria e di altri. E il terrore nelle carceri, dove, pur intuendo che non se ne uscirà se non morti, porta ai perversi meccanismi che già Pontecorvo aveva mostrato in Kapò: la ricerca di un qualunque appiglio di umanità. Una parola, un pasto decente, una doccia diventano ricchezze inestimabili per le quali si è disposti a barattare il proprio corpo. E chi stava fuori? Ridotto al silenzio chi sapeva e voleva protestare, indifferente chi sapeva e ne guadagnava. E anestetizzato da una calma terrificante chi non sapeva. È difficile giudicare il film di Bechis perché il suo valore risiede nella testimonianza, non nelle istanze estetiche. Ma a fronte di alcune lievi cadute (alcuni personaggi troppo stilizzati, una o due sequenze “dimostrative”) c’è una messa in scena rigorosa dove – per gli interni del Garage – l’utilizzo della livida luce naturale contribuisce a trasmetterci il clima d’angoscia. L’attrice principale, Antonella Costa, è molto brava e ha un volto che non si dimentica. Bel montaggio di Jacopo Quadri. Film bello e in ogni caso importante. (Vhs da Tele+; 10/1/01)

ddv0704.jpg94 – Una storia vera del pacato David Lynch, USA/Francia/Gran Bretagna 1999

Alvin ha settantatré anni e non è esattamente un fiore: ha la vista calante, un’anca sbilenca e un principio d’enfisema. Scommetto che non gli tira da almeno 5 lustri. Il medico gli fa presente che se non si piega a qualche rinuncia, gli rimane poco da vivere. Suo fratello Lyle, nel frattempo, ha appena avuto un infarto. Vive a 315 miglia di distanza e Alvin decide di andarlo a trovare, prima che sia troppo tardi. Ha da farsi perdonare una lite vecchia di dieci anni, dopo la quale non si sono più parlati. Attacca un rimorchio alla tagliaerbe, fa il pieno di gasolio, sigari e salsicce e parte per l’impresa. Il cammino è lungo e ogni incontro lungo la strada è occasione per trarre (e dare) un insegnamento morale. Il vecchio Alvin ha la benedizione di un prete, rammenta gli anni orribili della guerra con un coetaneo, ricorda l’importanza della famiglia a una ragazza fuggita di casa e a due gemelli litigiosi, vive immerso nella natura con rispetto, si destreggia tra l’insensata ansia della modernità. Alla fine arriva a destinazione e, nel muto sguardo reciproco dei due fratelli riconciliati, si conclude la parabola. Vedendo il trailer al cinema, ricordo che m’era venuto sonno in un minuto e mezzo e con feroce diffidenza avevo evitato il film in qualunque maniera. Adesso, che posso dire? Che il film è discutibile, sí, ma possiede anche un’innegabile qualità poetica, data soprattutto dalla sincerità della narrazione. Il modello a incontri didascalici è usurato e non credibile, ma l’eleganza della messa in scena, la splendida fotografia del paesaggio e la bravura degli attori creano un convincente e dolce clima d’intimità con questo anziano caparbio che rivede la sua vita, gli errori e compie l’ultima grande impresa (il viaggio, ma soprattutto l’espiazione). Un elogio della lentezza, dei “veri” valori, dell’amicizia fraterna, dei solidi sentimenti. Buonista, dolciastro e dimostrativo, okay: al Lynch filtrato dalla Disney preferisco quello perverso di Lost Highways, ma – insospettabilmente – Una storia vera non m’ha irritato, anzi. Sto invecchiando. (Vhs da Tele+; 12/2/01)

ddv0705.JPG96 – Un chien andalou e Estasi di un crimine del miglior Luis Buñuel, Francia 1929 e Messico 1955

L’occasione per tornare al De Amicis è data da una rassegna dedicata a Buñuel: ne vedrò pochi, anche perché sto per cominciare una produzione che mi porterà lontano da Milano e mi ammazzerà di lavoro. Mi siedo in fondo alla sala per sentire il rumore del proiettore: voglio recuperare quella sensazione dimenticata che provavo quasi ogni sera al Lumière; sarà poi merito del film allontanarmi da quel ronzio. Prima del film il De Amicis favorisce buona musica classica (non so mai i titoli dei brani, però posso cantarveli). Intorno a me i soliti studenti di cinema (li riconosci subito: leggono i programmi del cineclub e dicono “célo… manca”), qualche appassionato con del tempo libero a disposizione, qualche anziano che ha gusto e poi ci sono io, il più figo perché faccio la televisione la mattina, mi concedo un Buñuel al pomeriggio e poi ho il cervello a pezzi la sera. Il problema è la gente che entra a film iniziato (almeno un terzo del pubblico) e che, chissà per quale astruso motivo, ha per le mani sempre dei rumorosi sacchetti di plastica, manco fossero d’accordo. Prendo tempo perché il film – come sempre con Buñuel – è una Viennetta multi strato, pieno di sottotesti, e io, di fronte a tutte queste sollecitazioni sono un pugile suonato. Prima di quell’Estasi di un crimine tante volte citato da Almodovar, rivedo per l’ennesima volta l’intramontabile Un chien andalou, l’esordio cinematografico del Maestro dall’Occhio Ipertiroideo. Sono bombardato dalle connessioni subconsce, dalle immagini inquietanti ed erotizzanti, dagli accostamenti geniali. C’è un’ascella che sembra una vagina che diventa un riccio, c’è un campanello che vibra come uno shaker, ci sono didascalie senza senso, c’è un personaggio che trascina due pianoforti con sopra due muli sgozzati e sotto due preti (uno è Dalì). E c’è Vermeer e una farfalla “testa di morto” come ne Il silenzio degli innocenti. E poi c’è una donna androgina che conserva una scatola e che viene investita per la strada, e la luna è tagliata da una nube orizzontale e l’occhio da un rasoio, a significare che da quel momento lì il cinema non sarà più lo stesso, non potremo guardarlo con gli stessi occhi di prima. È bellissimo, insomma, e inspiegabile. Poi parte Estasi di un crimine e la prima scena è assolutamente folgorante. Il piccolo Alessandro, mentre ascolta un carillon ed esprime intensamente il desiderio di vedere morta la governante, assiste alla sua uccisione grazie a una pallottola vagante. Da quel momento la sua vita sarà condizionata dal suono del carillon che susciterà pulsioni erotiche e omicide, solo che – come in tanto cinema di Buñuel a venire – non riuscirà mai a essere esecutore dei suoi desideri. Alessandro vedrà morire persone che ha voluto intensamente uccidere, ma ciò accadrà sempre per mano altrui o grazie al caso. Tanto che un ispettore che ascolta la confessione del protagonista non può fare altro che stringere le spalle: se dovesse incarcerare tutti quelli che vogliono ammazzare qualcuno… Buttato il carillon, Alessandro guarisce. O perlomeno crede. A me, ogni volta, Buñuel mette un po’ a disagio perché penso di acchiappare il 2 per cento di quello che mette nelle sue storie. Il film è bello e, per l’epoca, molto esplicito visivamente, ricco di beffarde osservazioni sui poteri forti (Patria, Religione, Istituzioni) e denso di considerazioni psicanalitiche. Grande Luis. Ultime nuove: come previsto I cento passi è stato bellamente schifato dagli yankee e non concorrerà per nessun Oscar. Tornatore ha invece strappato due candidature minori per il suo Malèna da esportazione. Mica scemo a farsi produrre dagli americani la Sicilia da cartolina con gnocca gadget, eh? (Cinema De Amicis, Milano; 14/2/01)

100 – La leggenda del pianista sull’oceano dell’irritante Giuseppe Tornatore, Italia 1998

La curiosità era molta; altrettanta la paura di prendere una sòla. Abbiamo appagato la curiosità e purtroppo anche la paura. Baricco è un belloccio che sa scrivere. Dicono. Delle sue cose, Novecento – da cui questo film è tratto – m’è parsa la migliore: un testo veloce, senza le pretese che affiorano in altre sue opere. Il buon Tornatore prende nota, ci pensa su e forse irretito dalle immagini del Titanic pensa che se ce l’ha fatta Cameron, può farcela anche lui. E così una storiellina esile diventa uno spropositato elefantiaco kolossal dove tutto è eccessivo. Novecento è un trovatello che passerà tutta la sua vita sul Virginian, un piroscafo transatlantico. Imparerà – non si sa come – a suonare il pianoforte come nessuno ha mai fatto. E morirà sulla nave in via di demolizione, perché non vuol scendere a terra. La motivazione finale – scena estenuante – è un po’ confusa. Non ne ha voglia, non è nato per avere la terra sotto i piedi, non si troverebbe a suo agio, boh. Preferisce saltare in aria: la classica montagna che partorisce il topolino. Forse è un problema di trasposizione. Ma Tornatore ci mette anche del suo: un’incredibile patina fiabesca e infantile. Crolla nei dialoghi e nella direzione degli attori e Tim Roth, che dovrebbe essere il nostro eroe, è un odioso personaggio, semi autistico e tronfio. Intorno a lui tante macchiette dalle facce tanto buffe quanto irritanti. Il regista è come il piccolo Totò Cascio di Nuovo Cinema Paradiso: sogna davanti allo schermo, fantastica e vuole tornare a quel cinema che era macchina della/per la fantasia. Solo che Totò Cascio sarà lui, intesi?, perché a me tutte ‘ste bambinate fan girare i coglioni. Ormai ho raggiunto la maggiore età e non rido più per le parolacce (si veda l’epico duello dove Novecento e Jelly Roll Morton si mandano continuamente “in culo”). E poi: si può fare un film alle soglie del 2000 con i neri che parlano da “boveri negri”? Non m’è piaciuto proprio. (Vhs originale; 17/2/01)

ddv0706.jpg101 – Fantasia 2000 di tantissima gente, troppa: Don Hahn, Pixote Hunt, Eric Goldberg, Hendel Butoy, James Algar, Francis Glebas e Gaëtan Brizzi, USA 1999

Domenica mattina, alle ore 10 e 30: non ho di meglio da fare che andare a vedermi un film in compagnia di duecento bambini con rispettivi genitori. Non voglio perdermi la nuova edizione di Fantasia e approfitto di una proiezione mattutina aperta al pubblico infantile. Il cinema, come detto, è gremito: l’incubo di Erode Antipa. Prendo il posto più estremo, davanti al palco, in balconata, e subito due mocciose mi si mettono imitativamente dietro la schiena. Poi, non essendo abituate ad anni di visioni fortemente aberrate, desistono dall’emulazione. In platea un inferno di inseguimenti e urletti. Chissà poi perché vogliono farsi tutti una corsa sul palco, boh. Prego che rimangano tutti in silenzio e stupefatti di fronte all’immagine proiettata e, quando si comincia, il miracolo accade. Chissà per quanti di loro si tratta del primo film. Purtroppo io non lo ricordo: mia madre sostiene che fosse proprio il primo Fantasia, a Busalla, ma chi lo sa? Siccome ho delle turbe mentali, ho creato un file in cui segno – quando mi torna in mente – tutto quello che ho visto su grande schermo, con i ricordi legati a quelle visioni. Fantasia, il primo, l’ho comunque (ri)visto al cinema durante gli anni Ottanta con mia nonna e riuscii a litigare con un bambino di otto anni che correva nella sala. Oggi starò sulla difensiva anche perché, qui in mezzo, sembro un pedofilo. Scendono le luci e parte il primo applauso. Il film è composto da 8 episodi, alcuni carini, altri appena decenti, alcuni proprio brutti. Andiamo con ordine: apertura con la Quinta Sinfonia di Beethoven e una storia astratta di farfalle cattive e buone. Episodio pessimo e dal disegno algido. Poi I pini di Roma di Respighi con una fantasia di balene in volo. Tecnicamente carino, ardito come accostamento, ma niente di che. Dunque arriva il clou: Rapsodia in blu di Gershwin con più storie parallele in una New York anni Trenta: disegno vivace e spigoloso alla Al Hirschfeld, vicende carine e inventive. Il Concerto n.2 di Shostakovich a commento della fiaba del soldatino di piombo (un Toy Story dei poveri) delude me ma non il pubblico che applaude. Molto breve ma convincente poi Il carnevale degli animali di Saint-Saëns, con un simpatico fenicottero casinista. Poi torna, rimasterizzato, lo storico episodio dell’Apprendista stregone con la musica di Dukas. Sempre bello. Quindi tocca a Pomp and Circumstance di Elgar e alla narrazione del diluvio universale, con Paperino che presiede le operazioni di carico dell’Arca di Noè. Azzeccato l’accoppiamento, ricco di gag, ben disegnato nel solco della tradizione. Ultimo L’uccello di fuoco di Strawinskij, con un’allegoria molto fredda sul trionfo della natura che (come l’episodio precedente) riceve un applauso convinto del giovane pubblico. La cornice vede molti personaggi del cinema e della televisione americana che introducono i pezzi: sono connessioni pretestuose che fanno schifo, come regia e come testi. Il film in definitiva funziona a tratti, ma non è malaccio. C’è una grande attenzione alla natura e torna più volte la metafora del volo come libertà: non so quanto sia voluto o casuale, ma l’ho segnalato perché così faccio finta di averci ragionato su. Rispetto all’illustre predecessore c’è meno anima (persa nel progresso tecnologico e nei disegni più freddi e puliti), ma anche là ricordo episodi che non pigliavano per nulla. (Cinema De Amicis, Milano; 18/2/01)

(Continua — 7)