di Sandro Moiso

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Per consolarci dell’accaduto raggiungemmo la Yosemite Valley in autostop

Per consolarci dell’accaduto raggiungemmo la Yosemite Valley in autostop.
Nel dirigerci a Est, fummo fortunati perché trovammo, quasi subito, un passaggio su un vecchio furgone Volkswagen con cui due giovani si recavano a lavorare nella Yosemite per poter arrampicare nei ritagli di tempo.
Questo incontro ci rese allegri e ci permise di parlare un po’ con loro delle esperienze della nuova arrampicata californiana.

Ma a stupirci, una volta giunti, fu, ancora una volta, l’incredibile fascino della wilderness americana.
Le pareti di granito strapiombanti di El Capitan e Half Dome, i boschi verdi e fittissimi, gli altopiani della Sierra che ci sovrastava ci spezzarono il cuore.
Anche la fauna di procioni, daini e orsi fece del suo meglio per incantarci .

Con un procione che venne di notte vicino al mio sacco a pelo, attirato dal luccichio di poche monete cadutemi dalle tasche dei jeans.
Oppure con un branco di daini, colti nella bruma del mattino, mentre si abbeveravano in uno stagno prossimo alla nostra tenda o, ancora, con l’orso colto, in fragranza di reato, dopo che aveva sfondato il lunotto di una station wagon per impadronirsi del cibo di cui aveva sentito l’odore.

Per questo motivo chi campeggia nella Yosemite deve lasciare i sacchi con il cibo fuori e lontano dalle tende e in più appesi agli alberi.
Per evitare che un enorme orso Yogi non si intrufoli nella tenda, a caccia di cibo, con i conseguenti rischi per il campeggiatore addormentato.

Trascorremmo nella valle qualche giorno, facendo conoscenza con un paio di ragazze francesi che erano lì per arrampicare.
La loro simpatia e il fatto che fossero carine non bastarono però a elevarci lungo le pareti di granito che, loro, intendevano sfidare. Anche perché Ettore, a causa della perdita della lente, cominciava davvero ad avere seri problemi con la vista.

Lasciammo la valle per tornare a San Francisco e soltanto allora, passeggiando insieme, nei boschi di altissimi redwood, che un tempo servivano ai navigatori per individuare dal mare la posizione della baia, io e Patty ci rendemmo conto di esserci innamorati.
Furono giorni bellissimi ed era un miracolo per me svegliarmi ogni mattina al suono del suo pianoforte elettrico, con cui amava accompagnarsi mentre cantava Giant Step di Carol King.

Volarono quei giorni e comunque dovevamo ripartire, anche se Patty cercò di convincermi a restare e a trovarmi un lavoro precario nella sua città.
Mi sarebbe piaciuto, ma in Italia avevo lasciato qualcosa che pensavo fosse ancora vivo.
Mi sbagliavo, ma non potevo saperlo.
Per mesi dopo il mio ritorno continuammo a scriverci lettere appassionate, ma la distanza, alla fine, fece sentire le sue ragioni.

Quando, un paio di anni dopo, lei venne in Italia ci fu il tempo di vederci solo per qualche ora.
Di lei conservo qualche foto insieme o scattata sulla Sierra, dopo la mia partenza.
Seppi da Tom, in seguito, che si era messa con un reduce dalla guerra del Vietnam e che non era stata felice. Anch’io non sono mai più stato felice come in quell’anno.
Cos’è che ogni volta ci spinge ad allontanarci dalla felicità?

La strada del ritorno fu più lineare e veloce

La strada del ritorno fu più lineare e veloce.
Dovevamo prendere l’aereo, per il ritorno in Europa, da New York, quindi si trattava di riattraversare l’intero continente.
Inizialmente avevo pensato di tornare a includere Boston tra le tappe.
Per rivedere ancora Farland.

Ma poi la prolungata sosta a San Francisco e l’innamoramento per Patty mi avevano fatto cambiare idea.
Spesso ci si stupisce di come i giovani possano innamorarsi o disinnamorarsi così facilmente, rimuovendo in fretta e furia volti, corpi e storie.
Ma la felicità sembra sempre passare attraverso il tradimento delle aspettative altrui.

E la gioventù vuole essere felice e per essere tale deve essere leggera.
Sono le istituzioni, le famiglie, le chiese a chiedere il vero amore eterno.
Come recita la più trita delle formule:”Finché morte non vi separi”.
Ma in questa formula è già contenuta una visione mortifera di un rapporto, un plumbeo obbligo alla convivenza e alla condivisione che non può far altro che storpiare ogni premessa di felicità.

Il commiato da Frisco e da Patty fu rapido.
Prendemmo al volo e per pochi dollari, poiché l’abbonamento Greyhound era scaduto con il nostro arrivo in California, un passaggio in stand-by su un aereo per Los Angeles.
Poi da lì ripartimmo con un viaggio diretto in autobus fino a New York.
Settantatre ore per attraversare tutti gli Stati Uniti da costa a costa

Percorremmo l’interstatale 40 fino a Oklahoma City, poi da lì la 44 fino a Saint Louis, la 70 fino a Pittsburgh e la 76 e la 78 che ci riportarono nel cuore di New York.
La sensazione fu quella di un viaggio lisergico, sospeso tra sogno e realtà.
Ogni tanto gli occhi si chiudevano per riaprirsi dopo un numero indefinito di chilometri e una quantità di tempo trascorso non immediatamente quantificabile.

Ogni tanto occorreva scendere dall’autobus per il cambio presso le stazioni.
La Greyhound sembrava aver mantenuto un sistema di stazioni di posta simile a quello dell’epoca della diligenze, solo che lì si cambiavano autobus e autisti invece dei cavalli.
Immagini, come fotogrammi, si fissavano negli occhi di luoghi, boschi, case isolate, strade deserte quasi fino a Saint Louis.

I boschi autunnali del Missouri sembravano non avere mai fine.
Mi addormentavo, mi risvegliavo e l’autobus stava ancora correndo in mezzo a quegli alberi dalle chiome rosse e gialle.
Prima c’erano stati pianure soleggiate e deserti, dove i pochi autobus e autocarri che si incontravano si salutavano con lunghe tirate di clacson.

Gli autisti degli autobus portavano quasi tutti stivali da cow-boy.
Non mi sembravano così comodi per guidare per tante ore, ma dovevano costituire il tratto distintivo della loro categoria. Forse un ricordo dell’epoca delle diligenze.
Gli occhi si chiudevano sempre più spesso e ci sentivamo sospesi in uno stato di dormiveglia in cui non riuscivamo nemmeno più a parlare.

Il film stava scorrendo rapidamente al contrario.
Il paesaggio iniziò a cambiare, si facevano più frequenti i centri abitati e i centri industriali.
La Pennsylvania, lo stato in cui era nata mia madre, si presentò come una sorta di ferriera a cielo aperto, soprattutto nei dintorni di Pittsburgh.
Da lì in avanti ci sembrò non esserci più alcuna distanza tra un conglomerato urbano e l’altro, fino alla Grande Mela, New York City.

Quel viaggio a ritroso ci era costato meno di un volo aereo diretto ed era durato molto di più, ma ancora una volta ci aveva permesso di cogliere volti, luoghi e sensazioni che dall’alto e in un minor tempo non avremmo mai potuto cogliere.
Dovevamo ancora trascorrere un paio di giorni a New York e ci attendeva un ultimo incontro con la musica americana.

Ultima fermata CBGB’s

Ultima fermata CBGB’s.
Country, Blue Grass, Blues e altre musiche per inaccontentabili divoratori di suoni, questo prometteva l’insegna dello storico locale del rock di strada e del punk newyorkese.
CBGB’s and OMFUG: al 315 della Bowery, in una zona di dormitori e bar da quattro soldi per ubriaconi, reduci dal Vietnam, tossici, derelitti e per ogni altro genere di anime perse.

Aperto nel dicembre del 1973, il locale era diventato il tempio e il luogo da cui era partita l’avventura di band come i Ramones, Television, Talking Heads, Mink De Ville e soprattutto di Patti Smith e del suo gruppo.
Tutto era esploso tra il 1974 e il 1975, ma il 1977 avrebbe un po’ segnato l’apoteosi del punk, prima della deriva new wave e del power pop.

Il nostro viaggio era stato letterario e cinematografico, ma la musica, di cui eravamo appassionati cultori, ne aveva costituito l’anima più autentica.
Da costa a costa, da New York in avanti, le nostre orecchie avevano cercato di afferrare suoni di ogni tipo. Dal suonatore di autoharp, ascoltato il giorno del nostro arrivo, nei pressi del Central Park, ai gruppi country dei bar di Nashville fino a ciò che avevamo ascoltato a Frisco.

Ma il centro del terremoto sonoro che aveva scosso il mondo del rock’n’roll, a metà degli anni settanta, era proprio lì in quel locale, lungo una cinquantina di metri e largo otto, irrimediabilmente marchiato, per decenni, dal fumo, dall’urina e dal vomito di ubriachi cronici e dalle risse passate.
Prima di chiamarsi CBGB si era chiamato “The Palace Bar”, dal nome dell’hotel che l’aveva sovrastato e che adesso era diventato uno dei sessanta dormitori pubblici della Bowery.

L’avevamo conosciuto attraverso un doppio Lp, registrato dal vivo in quel locale da una manciata di gruppi punk della prima ora, di cui eravamo venuti in possesso durante uno dei nostri safari di “caccia” ai dischi.
Ci andammo l’ultima sera prima di partire.
Non l’abbiamo più dimenticato.

Suonavano i Tuff Darts, con quello che sembrava un vero e proprio inno: “All For The Love Of Rock’n Roll”. Costituivano, a quel tempo, il primo gruppo di Robert Gordon, forse la miglior voce del nuovo Rockabilly. Trasmisero energia, gioia, furia e divertimento.
Storditi dai suoni, dagli odori, dalle scritte sui muri del locale e dei suoi mitici bagni, tornammo poi a casa a notte fonda.

Tra le pareti del CBGB sarebbe ancora nato l’hardcore di New York negli anni ottanta.
Ma oggi quel locale è stato sostituito da un negozio di abbigliamento.
Aveva chiuso i battenti il 30 settembre 2006 dopo una lunga causa legale con i proprietari dello stabile. Hilly Kristal, suo fondatore e gestore, si era ripromesso di riaprirlo a Las Vegas nel 2008, ma è morto il 30 agosto 2007. Per una seconda volta, amen.

Epilogo 1

Il volo di ritorno ci sembrò più breve che all’andata.
A bordo dell’aereo per Parigi avevamo trovato alcune ragazze francesi conosciute la sera prima al CBGB, ma la cosa non ebbe conseguenze di rilievo.
Eravamo proiettati sul ritorno a casa e speravamo di ritrovare presto gli amici e le situazioni lasciati mesi prima.

Una notte in un ostello di Parigi e poi via con un altro autobus, l’ultimo, verso Torino.
Dormimmo per quasi tutto il viaggio.
Anche Ettore aveva imparato ormai a dormire da seduto e non dovette più coricarsi sotto i sedili, come aveva fatto in precedenza.
Appena rientrato in casa, all’alba mio padre mi comunicò la morte di sua madre, avvenuta due mesi prima.

Provai a chiamare gli amici più cari; mi risposero genitori o conviventi spazientiti o un po’ turbati.
Alcuni pensarono che li prendessi in giro e si infuriarono, poi capirono.
Ma non lo sai cosa è successo? Qualcuno è in galera, altri sono fuggiti e sono latitanti
Caddi dalle nuvole; il dramma successo in un bar di Torino, dove un giovane era morto, bruciato vivo dalle fiamme causate da una molotov lanciata con troppa leggerezza, non era giunto sulle pagine dei giornali americani.

Non erano colpevoli coloro che erano finiti in cella o che avevano dovuto fuggire, ma, come sempre, la polizia e lo stato avevano sparato nel mucchio, alla faccia delle indagini attente e mirate.
Fu un brusco risveglio, non solo per me. La spirale di violenza in cui si era cominciati a scendere, dopo le interminabili diatribe tra lotta armata e violenza spontanea di massa, aveva preteso una prima vittima innocente. Dalla festa si stava passando alla forca.

Gli scontri dell’inverno precedente a Bologna, quelli di Roma a essi successivi, ma con lo stesso strascico di assalti alle armerie e di sparatorie furiose nelle piazze, avevano lasciato o stavano lasciando il posto ad azioni dimostrative destinate, negli intenti di chi le promuoveva, a dare l’esempio: di chi, di cosa e di perché tutti chiusi in una logica politica e programmatica settaria, separata dal movimento quasi quanto quella delle forze avversarie.

Si aprivano gli anni di piombo e non tanto per i proiettili sparati, il sangue versato, i proclami deliranti e la repressione indiscriminata, ma piuttosto perché segnarono la fine della gioia generalizzata come obiettivo comune, della festa fatta all’esistente e del darsi alla vita senza scopi o obiettivi finali.
E per tutti la violenza della rivolta si trasformò soltanto in più terrorismo.

Le mete si sostituirono al momento, e non a caso molti indicatori di mete e programmi seppero poi riciclarsi per mete e programmi altrui.
La mentalità partitica, ereditata dalle tradizione staliniana, inficiò di nuovo ogni esperienza.
Lo sguardo non avrebbe più potuto vagare libero sul qui, adesso e subito, ma avrebbe ricominciato a puntare verso un orizzonte troppo lontano, forse inesistente e comunque sempre, e volutamente, irraggiungibile.

Un vortice di violenza, sospetto e tradimento, nel giro di pochi anni, avrebbe cancellato amicizie, esperienze comuni e lotte, mentre l’abisso dell’odio avrebbe trascinato con sé ogni cosa.
Troppi caddero lungo quel percorso, troppi ne pagarono le conseguenze, troppi se ne servirono per celebrare funerali destinati a seppellire la furia, la felicità, la sensualità e la gioia del volere il mondo e di volerlo subito. Ho amato tutto e tutti troppo per poterlo dimenticare.

Epilogo 2

Avevamo sciamanicamente fatto uso di ogni genere di droghe.
Marijuana, hashish, oppio e acido lisergico avevano accompagnato i nostri giochi e i nostri sogni.
Le notti si erano fatte più lunghe, le discussioni più incasinate, mentre i ragionamenti passavano continuamente da una logica bianca e pura, come quella descritta da Jack London nel suo John Barleycorn, all’abisso purpureo dell’errore e della confusione.
Ma il tutto accompagnava una ricerca, una sorta di indagine collettiva sulle possibilità offerte dall’esistente e dal fatto di esistere, di essere vivi.
Cercavamo di allargare il campo della vita, di sfondare i parametri del quotidiano una volta per tutte, di servirci di altre logiche per penetrare l’insondabile.
Novelli hobbit cercavamo l’anello di un potere che ci liberasse dal mondo dei nostri padri.

Nella casa in collina ci eravamo sfidati a fumare erba in ogni contenitore possibile.
In montagna ci eravamo disperati cercando di rintracciare un acido caduto tra i sassi.
Tra le doline del Marguerais qualcuno si era divertito a distribuire casualmente punte di LSD nella pasta di ignari speleologi.
E tutte ci avevano talvolta fatto intravedere le geometrie blasfeme di Lovecraft o ciò che poteva nascondersi al di là della parete del sonno.

Ma arrivò Lei, l’angelo sterminatore dei sogni, la mietitrice di vittime inconsapevoli, l’affascinante maliarda che non permetteva di lasciarla fin dal primo incontro: l’eroina.
Durante il nostro soggiorno americano alcuni amici avevano iniziato a farne un uso discreto.
Sembrava a molti di poter controllare quel demone perverso dalle mille promesse.
La delusione di quell’autunno spinse altri ad abbracciarla per non più lasciarla.

Anche Ettore, così timoroso degli aghi, iniziò a frequentarla e mentre i giardini pubblici italiani cominciavano a rivelare quasi ogni mattina il cadavere di qualche giovane abbandonato per terra o su una panchina, chi era sopravvissuto allo scontro con le istituzioni spesso decise, inconsapevolmente, di suicidarsi iniettandosela nelle vene.
Talvolta con l’acqua delle pozzanghere e, rigorosamente sempre, con lo stesso ago per tutti.

Eppure molti avevano partecipato, solo qualche anno prima. alle incursioni contro i locali dove si spacciavano droghe pesanti, nei quartieri proletari e centrali della città.
Quando la benzina sembrò costituire la sola igiene del mondo
La cosa più terribile che la diffusione dell’eroina causò, fu quella della fine di ogni solidarietà o comunanza di intenti che non fosse trovarne ancora una dose.

Le vittime furono decine e molti ne hanno pagato il prezzo ancora in anni recenti.
A differenza della lotta armata hanno fatto però, o quasi sempre, solo del male a se stessi.
Dal rincorrere la vita si era comunque passati al rincorrere la morte e che ciò fosse fatto con consapevolezza o meno non ne cambia le conseguenze, anche se qualcuno si trasformò solo in uno zombie. Cercando la libertà, avevano finito col trovare una nuova schiavitù.

Tutto sommato fummo come pietre che rotolavano lungo il letto di un fiume di febbre e di furore, e chi, come me, sopravvisse lo fece per caso, per fortuna e poco altro.
E, ancora oggi, ha troppi caduti da piangere e da ricordare.

Alla fine altri hanno vinto.
I nostri eroi sono stati rimossi, uccisi, umiliati.
Sono stati cancellati, torturati, imbalsamati.
E poi ancora castrati, venduti, mutilati.
Traditi, divorati, massacrati, dimenticati.
Nel giorno della loro resurrezione
sputeremo sulle tombe dei vincitori

Ma il ’77 vive ancora e ha un nome

Ma il ’77 vive ancora e ha un nome.
Elena, nata, in quell’anno, il giorno dopo la pubblicazione del primo 45 giri dei Clash.
Come il movimento del ’77 porta dentro di sé la gioia e la furia, la rabbia e la ricerca disinibita della felicità e del piacere.
Come quel movimento ha rivoluzionato la mia vita e quella di tutti coloro che ha toccato.

Parla con il corpo e la musica è la sua scrittura, ma qualcuno ne ha solo approfittato.
Qualcun altro ne è rimasto accecato.
Altri ancora hanno cercato di rinchiuderla e legarla.
Io le ho creduto sapendo che non sarebbe durata, ma ha finito col soggiogare una parte di me come avrebbe potuto fare solo l’eroina. Così è passata senza lasciare nulla, ma trasformando tutto.

Scrivendo se ne sarebbe potuto fare una dark lady o una lamia, ma per me rimarrà sempre una donna-bambina, innocente e selvaggia come il movimento che può ben rappresentare.
Come tutti i grandi sommovimenti rivoluzionari non ha potuto o saputo mantenere le promesse.
In questo sta in fondo il fascino di tutto ciò che avrebbe potuto essere, ma che non è stato.
L’ultima di queste tre ballate è dedicata a lei e a tutti coloro che si sono persi.

A tutti coloro che hanno portato negli occhi e nel mondo la gioia, la sensualità e la follia.
Per tutti quelli che hanno sempre pagato il prezzo più alto per non aver saputo accontentarsi o fermarsi là dove la riva era più sicura.
Ma con tutto questo ho anche saldato il mio debito con i ricordi, con il rimpianto e con il rimorso per ciò che non ho fatto e non ho pagato e per un folle amore non realizzato.

(15-FINE)