di Dziga Cacace

Suonohooo per teeeheee, che non mi vuoi capiree-oooh!
Gioia e rivoluzione, Area

DDV0201.jpg13 – Air Bag di Un Cazzone, Spagna/Portogallo/Germania 1998

Promesso sposo a tre giorni dal matrimonio, Juantxo, durante un addio al celibato decisamente spinto, lascia l’anello matrimoniale nello sfintere di una bella mulatta. E da lì il prezioso passa al dito medio di un boss malavitoso (inutile spiegarvi nel dettaglio come avvenga il passaggio). Nel tentativo di recuperare l’anello, Juantxo e compari rimangono invischiati nella rivalità tra due gang mafiose, una portoghese, l’altra spagnola. Tra sparatorie, air bag pieni di cocaina, peti dirompenti, esplosioni e penetrazioni posteriori inaspettatamente gradite, ecco un film orrendo, confusionario e molto stupido, in cui è lo spettatore a prendersela – senza gradimento alcuno – in quel posto.


La narrazione è caotica, la miriade di attori (tra cui la Medeiros con una faccia come un melone) è gestita alla carlona e pure la musica va e viene, con arie classiche e rock che si sovrappongono o si sostituiscono senza senso alcuno. Visto per curiosità perché qualche disgraziato me ne aveva detto in maniera non indecente, Air Bag è una violenta cazzata iberica che mi procura 2 giorni di sguardo in cagnesco di Barbara. In Spagna è stato il più grande incasso di tutti i tempi (85 miliardi di lire) e il regista Juanma Bajo Ulloa continuerà a ritenersi imparentato con Almodovar e Tarantino. (Vhs da Tele+; 8/10/00)

16 – M.A.S.H. del miglior Robert Altman, USA 1970 (e una brutta festa)

Questo non lo rivedevo da secoli. E temevo perché ricordavo un clima di amabile svacco narrativo, una trama lasca e indolente, quasi una serie di strip comiche. Ma ero giovane, allora, e capivo meno di adesso. M.A.S.H. parte all’insegna di una comicità quasi slapstick, poi, pian piano, Altman ingrana le marce, con calma ma inesorabilmente, e il film cresce. Come non affezionarsi a Occhio di falco (Sutherland), a Razzo (Gould), a Bollore, a Cassiodoro, a Radar e a tutta la strampalata compagnia dell’ospedale da campo a tre miglia dalle linee nemiche? Siamo in Corea, ma è un modo per dire che siamo chiaramente in Vietnam e per irridere quell’America pomposa che crede in una guerra assurda. Altman costruisce un film di guerra dove tutto è antiretorico e se c’è eroismo è solo nel portare conforto ai feriti. Quale patria, quale onore, quale orgoglio quando c’è da ricucire il ventre di un soldato? Sono solo questi i pochi, brevi momenti in cui non si ride e ci si ferma un attimo. Poi si riparte, tutti a bere un Martini, ché tanto Gould s’è portato le olive dall’America. Film a tratti esilarante, costruito con mano sicura nel rischio di un’anarchia narrativa che mai si verifica, M.A.S.H. mi pare il film più bello di Altman, quello più libero, più spontaneo. E poi ho sempre adorato il duo Gould/Sutherland da quando, verso i dieci anni, vidi il probabilmente orrendo S.P.Y.S. al parrocchiale di Champoluc. E li ho amati molto anche in Piccoli omicidi, un capolavoro assoluto scritto da Feiffer, anche se lì Sutherland aveva solo una particina. Il film forse m’è piaciuto così tanto perché la sera prima sono andato a una festa che mi ha messo di cattivo umore. Pessimo. Barbara, a essere sinceri, non mi voleva perché sa che ho soglie di tolleranza molto basse. Però me l’ha detto come se invece le facesse piacere. Insomma non ci siamo capiti e mi son trovato in un locale ex dopolavoro oggi molto fighetto: convenuti di ambiente avvocatizio alto borghese che non facevano altro che parlare di rogatorie, sentenze, concorsi, dottorati e novazioni, tra fumo, frastuono e focacce pallido ricordo di quella genovese. Alla consolle un cialtrone che proponeva le più bieche hit internazionali. Avevo voglia di andare a far polemica, ma giocando fuori casa e sordo come sono, in caso di discussione sarei stato perdente a priori. Le ragazze si chiamavano Gaia, Lucrezia, Sveva, Maria Vittoria e altri nomi così. Era letteralmente pieno di fighe di plastica, tutte con i classici difetti dovuti all’incrocio continuo tra rampolli delle stesse famiglie: strabismo di Venere, gambe un po’ storte, spalle da pollo, braccine magre magre. E poi c’erano le bruttone ricche, vestite da strafiche e patetiche, tanto da non alimentare neanche fantasie di violenza rivendicativa politico-sessuale. Che poi, tutti ‘sti qui, presi uno per uno, son sicuro che risulterebbero persone adorabili, simpatiche e interessanti. Ma è la massa che vota, cazzo. I ragazzi avevano quasi tutti la camicia nei calzoni e almeno la metà presentava l’incredibile abbinamento ottocentesco di camicia e pullover. I bohèmienne sfoderavano la Lacoste, per intenderci. Molti erano abbronzati, ma mica con le lampade che è cosa da coatti. Questi avevano preso il sole vero, a Courmayeur o a Cervinia. Io ero l’unico vero straccione, con la classica camicia di flanella a quadri, grunge fuori tempo massimo, orgoglioso di lavorare per un pubblico ignorante che crede nella Barale. A un certo punto ho pensato di infilarmi in qualche discussione, alla cazzo, magari mettendomi a parlare di libri per creare un po’ di scalpore, ma poi ho pensato che questi ne leggono uno all’anno “perché non ho tempo” e comunque “Montanelli scrive bene”. E invece scrive come un piede, ma tant’è, come fai a spiegarlo a chi non ha termini di paragone? Mentre facevo queste belle pensate da mentecatto il DJ ha avuto una svolta creativa e ha cominciato a sparare robaccia sintetica, senza chitarra, argh. E ovviamente gli invitati ballavano, trascinandosi entusiasti in mezzo alla sala: erano gli stessi che odiavo 15 anni prima, esattamente gli stessi, quelli col passato paninaro e un monclair nascosto nell’armadio. A mezzanotte ll’imbecille ha deciso di mettere Walk Like an Egyptian: non ho fatto in tempo a pensare che in un mondo ideale quello sarebbe stato il pezzo con cui iniziare la festa che questo minus habens ha sfumato sull’assolo. Finalmente all’una ce ne siamo andati. In silenzio. (Vhs da Tele+; 15/10/00)

ddv0202.jpg17 – Patton, generale d’acciaio di Franklin J. Schaffner, USA 1970

Come lo racconti uno come Patton? Era il generale a capo della III Armata durante la Seconda Guerra mondiale, un invasato che si credeva erede di una tradizione militare millenaria. Un isterico che doveva precedere, non importa come, Montgomery nell’avanzata in Europa e che dopo Berlino voleva immediatamente puntare su Mosca per risolvere subito la faccenda e non parlarne più. Schaffner, grazie anche alla scrittura di Francis Ford Coppola e di Edmund H. North, non ci nasconde nulla: Patton è un megalomane, un’evidente testa di cazzo, uno scriteriato che sa solo menar le mani e non vuole arretrare mai né conosce riflessione: andare avanti, sempre, a qualunque costo. Ci viene presentato così, rischiando grosso perché la caricatura è dietro l’angolo, ma è la considerazione riservatagli da chi gli sta intorno che meglio ne definisce limiti e, perché ci sono stati, meriti, ovviamente bellici: forse la guerra sarebbe durata qualche mese o anno in più se Patton, incurante di ciò che il buon senso dettava, non avesse spinto la sua III Armata sempre più velocemente di quanto fosse lecito supporre. Lo stesso Patton è consapevole (e compiaciuto) di chiedere tantissimo ai suoi soldati e non si preoccupa di apparire ridicolo facendo analisi strategiche basate sulle mosse di Alcibiade o Federico II, come i bambini. Ma nei suoi confronti c’è anche il rispetto del pacioso generale Bradley o la stima dei nazisti — wow — che ne seguono i movimenti, al punto che Hitler cadrà nel tranello dello sbarco in Normandia proprio per timore del generale mattocchio. Filmone di quelli che si facevano una volta, con dispendio di mezzi, scene grandiose e attori super, Patton vinse una marea di premi Oscar (7) e piacque al pubblico. A me? Abbastanza: due ore e quaranta che vanno via veloci. Che Patton fosse un po’ coglione è un altro problema, ma d’altra parte se non sono costretto a scrivere queste righe in tedesco è anche grazie a lui. (Vhs da Tele+; 20/10/00)

21 – Il corpo dell’anima di Salvatore Piscicelli, Italia 1999

L’anno scorso questo film ha avuto una certa attenzione critica ma il pubblico non se lo è filato per niente. Abbiamo un regista “autore” per una trama che, nelle sue linee essenziali, può far presagire il peggio: un anziano che riscopre l’amore grazie alla giovane domestica. Ahia. E invece Il corpo dell’anima è un film ottimo, veramente. Mettendo da parte la bravura degli attori, è la scrittura a reggere perfettamente. Ernesto (Roberto Herlitzka, da applausi) è un misantropo scrittore sessantenne. Vive in una villetta a Roma, lavora a una sceneggiatura su santa Teresa d’Avila e mal sopporta l’invadenza di una nipote curiosa. Finché un giorno la sua domestica filippina dà le dimissioni ed Ernesto affida la mansione a Luana, una donna delle pulizie che lavora in un condominio vicino. E la burinissima ragazza sconvolge la vita dello scrittore. Intuisce il suo desiderio e lo asseconda, ma conducendo lei il gioco. Luana, così volgare, così infantile, così sensuale nel suo approccio ferino, nella sua libertà di rapporti (ha più partner, tra cui anche un’amica), irretisce Ernesto che dall’appagamento sessuale passa a un coinvolgimento affettivo sempre più pressante. E alla fine Luana scappa. Si incontreranno due anni dopo. Ernesto con due infarti alle spalle e una fine sempre più prossima, Luana con una famiglia e un figlio. Ernesto si sdebiterà per quella improvvisa stagione di affetto regalandole la sua dimora. Raccontato così potrebbe sembrare una violenta cazzata, un soft anni Settanta, una maliziata poco dignitosa. E invece la costruzione del rapporto tra i protagonisti è perfetto così come il ritratto dei due, tanto che una storia abbastanza inverosimile assume una credibilità rara nel cinema italiano. Si aggiungano una cinepresa mobile ma misurata, una fotografia pulita e un ritmo senza pause. Piscicelli ha fatto un gran film, peccato che se ne siano accorti in pochi. (Vhs da Tele+; 26/10/00)

ddv0203.jpg22 – Chi lavora è perduto del miglior Tinto Brass, Italia/Francia 1963

Giornata produttiva: double feature in vhs, che si vuol di più dalla vita? E così, a 37 anni dalla sua realizzazione, mi vedo l’esordio di Tinto Brass che conosce finalmente la prima visione televisiva. Ne approfitto, anche perché, oltre alla naturale curiosità per il Brass “pre-Chiave” (e soprattutto pre-chiaviche), qui c’è anche il grande Franco Kim Arcalli in veste di attore e collaboratore alla regia e alla sceneggiatura. E, alla luce di ciò che farà con il Maestro Bertolucci, la sua presenza si sente. Innanzi tutto Chi lavora è perduto potrebbe essere un cugino veneto, anarchico e pigro, di Prima della rivoluzione. Il paragone è azzardato, ma anche qui abbiamo un giovane alle prese con una crisi. Per Bertolucci era sentimentale e politica, per Brass la crisi è esistenziale, imposta al povero Bonifacio dalla società: lui tanti problemi non se li farebbe se non fosse continuamente rimproverato da tutti per la sua pacifica abulia. Il nostro eroe (Sady Rebbot) gira per Venezia in un’assolata giornata estiva (una Venezia bella: minore, poco fotogenica, più vera) e ripensa alla sua vita. Non vuole lavoro, non vuole domande, vuole essere libero e ricorda. Quasi tutto il film è commentato dalla voce off del protagonista (spesso in dialetto): ricorda il fascismo orrendo, la scuola coercitiva, l’amore finito con Gabriella, la chiesa sempre presente, gli amici. Tra questi Buazzelli e soprattutto Arcalli, l’ex partigiano finito in manicomio. Il film ebbe problemi con la censura e se certe asserzioni di Bonifacio oggi ci sembrano normali e quasi implicite, allora erano coraggiose: tutti i poteri sono attaccati con sarcasmo e si parla esplicitamente di un argomento tabù come l’aborto. E non mancano qualche parolaccia (all’epoca dirompente) e una finale dispensa divina dal lavoro al protagonista. L’ironia non è sferzante: a Bonifacio (e a Brass) non importa urlare, gli va solo di essere lasciato in pace. Narrazione indolente, struttura di racconto molto libera e ricca di flashback, montaggio spigliato e coraggioso con omaggi diretti a Melville (Lo spione, direi), a Rossellini (Paisà) e a Godard (Questa è la mia vita, di cui Rebbot era protagonista). Una nouvelle vague digerita tra le calli, insomma, ma intrigante. E poi c’è Pascale Audret, attrice mai più vista, qui semplicemente splendida. Sono già un po’ innamorato. (Vhs da Retequattro; 26/10/00)

ddv0204.jpg24 – I fiumi di porpora di Uno Che Delude Ancora, Francia 2000

Torno al cinema dopo quasi due mesi, allettato dal nuovo film di Mathieu Kassovitz, enfant prodige del cinema francese con L’odio e subito ridimensionato col disastroso Assassin(s) (che non ho visto e mai vedrò, ma ho le mie fonti attendibili). Il trailer promette molto: un film di genere per un regista giovane con una sensibilità autoriale superiore alla norma: proviamo. Andiamo al cinema San Carlo con Alessandra e suo fratello Stefano. Ricordavo una proiezione trapezoidale e non vengo smentito, purtroppo. Ma come si fa? Io devo comprarmi il Dvd perché a farmi pigliare per il culo da un proiezionista pigro non ci sto più. Vabbeh, allora (e occhio che dico tutto): in una facoltà di medicina incastrata tra i monti del Delfinato s’è appena verificato un elaborato assassinio, cui ne seguiranno altri ugualmente raccapriccianti. Investiga sulla cosa Jean Reno che, poco a poco, scopre sotto la rispettabilità accademica, un mondo di soprusi e poteri occulti. Parallelamente si svolge anche l’inchiesta di un giovane e irruente tenente di polizia, Vincent Kassel, finito tra quelle valli probabilmente per punizione. Le due inchieste andranno a confluire, con esiti imprevedibili. E non dico a caso. Il film cresce discretamente e ha un primo tempo visivamente eccezionale, a partire dall’iniziale piano sequenza aereo che ci porta sul luogo del primo delitto. Ma funzionano anche il ritmo, la caratterizzazione spiccia dei personaggi, l’interpretazione degli attori, sinché, con qualche segnale di cedimento, non si arriva al finale che, sim sala bim!, mette in gioco un nuovo personaggio: la gemella della principale indiziata, alé!, responsabile indiretta di tante efferatezze. La gemella, no, dài. Ma per piacere! Ora, non so di chi sia la colpa, ma come cacchio si fa a costruire un film che manca assolutamente del finale e che, per risolverlo, ricorre a un trucchetto da cinema di serie Z? I fiumi di porpora diventa un rigagnolo di piscio e lo spettatore incazzato e attonito si chiede: quanto costerà un film così? Ma porco Giuda: date qualche soldo in più agli sceneggiatori e fategli trovare un finale decente, a costo di trasgredire un romanzo che, anche se ha venduto un milione di copie in Europa, deve essere una bufala se viene risolto come questo film. Oltre a tutto, qui, sei costretto a ricostruirti (inventarti) tutto da solo perché non c’è una traccia d’indizio prima né di spiegazione dopo. Praticamente hanno evitato di raccontarci mezz’ora di film: a far tornare le cose dobbiamo pensarci noi, capito? Un po’ comodo, dài. Male, Kassovitz. (Sala; 29/10/00)

26 – La ragazza della porta accanto di Una Incapace, USA 1999

Avendo riservato la sua programmazione hard ai canali digitali, Tele+ concede agli abbonati di serie B solo dei casti documentari, come per provocare. E non ci riesce per nulla. La ragazza della porta accanto soffre di due grossi problemi. Innanzi tutto, l’oggetto del documentario non è per nulla interessante: Stacy Valentine, da casalinga a bambolona porno star in meno di due anni, è una ragazza di una semplicità intellettuale sconcertante, incapace di riflettere in maniera coerente sulla sua carriera e sulle scelte che l’hanno determinata. Alternativamente si vanta del suo mestiere e prova a convincerci della sua sincerità, poi accusa altri (per primo il marito) di averle fatto prendere questa strada. Non riesce a razionalizzare minimamente, interessata unicamente a raggranellare qualche soldo (e c’è pure una prestazione mercenaria, denunciata chissà quanto a uso della telecamera), salvo poi mettere in guardia chi volesse fare il suo mestiere per soldi. Ora, questa schizofrenia potrebbe anche essere interessante se solo la regia – e qui siamo al secondo problema – sapesse fare una scelta e mostrasse un minimo di partecipazione alle vicende della protagonista, al posto di documentare in maniera piatta e falsamente affettuosa. Exhibition, il film godardiano su Claudine Beccarie giocava molto sull’ambiguità della protagonista e sapeva imbastire un valido discorso metacinematografico; qui ci si impantana sulle questioni di cuore della Valentine e si perde di vista l’unica cosa che avrebbe potuto interessarci, appunto l’ambiguità, il mentire con se stessi, l’ammissione straziante della propria incapacità a fare altro che sesso a pagamento, dato un retroterra culturale devastante e non una particolare necessità economica. Oltre a tutto, avendo sempre le telecamere a riprendere ogni cosa (per due anni di lavoro), non si crede neanche per un attimo che le dichiarazioni di chicchessia siano spontanee. Ci sarà qualcosa d’interessante? Beh, il calvario chirurgico cui si sottopone la protagonista potrebbe esserlo, ma nella povertà narrativa risulta l’ennesima occasione sprecata e per lo più giocata su scene raccapriccianti (avete mai visto una liposuzione o l’inserimento di una protesi in un seno? Fanno venire il membro interno, giuro). Per fortuna non c’è l’aggravante del consueto moralismo, ma questo documentario non vale niente. E la Valentine non posso più vederla neanche col cappotto. (Vhs da Tele+; 31/10/00)

(Continua — 2)