di Luisa Catanese*

BolognaBarcaBorghetto.jpgA Dodi

Quando a novembre piove a lungo, se cammini per i portici della parte antica di Bologna, sotto le arcate altere delle vie centrali, fra la folla e i negozi e le vetrine lucide, soffri meno il freddo e non ti bagni, ma non vedi che i muri e i tetti delle vecchie case, soprattutto nei vicoli e nelle strade secondarie, sono fatti di foglie, quelle dell’autunno.
Se poi prendi il bus per tornare a casa, dove i palazzi hanno occupato la campagna lungo le nuove vie soltanto da pochi decenni, quando oltrepassi il canale, che se costeggi ti porta alla Certosa, un monumento di pietre, di piante e di silenzio, dopo una breve discesa, calata la sera, trovi la nebbia, più fitta nei campi non ancora edificati, circondati dalle case, di poche luci accese.

Vorrei che tu sapessi che non rimpiango affatto il grande prato, quasi di fronte alla casa che ora è tua, tra lo Stradone e i palazzi, che a marzo al primo sole si ricopriva a lente ondate di migliaia di fiori colorati. Proprio in quel campo facevamo la tenda degli indiani con un bastone e una coperta. Lì mentre giocavamo a calcio ci è arrivata la notizia che un presidente era stato ucciso. Un ragazzo mi chiese un giorno di fargli provare il mio orologio, un altro mi picchiò perché pensava lo guardassi male.
Un amico mi ha spiegato che quelle case immense e nuove, non ancora terminate, bisogna costruirle perché più di diecimila restano vuote. Un altro invece mi ha giurato che in un mattone del palazzo più alto stanno le polveri di Alessandro Magno; e mi ha raccontato il loro itinerario secolare, da erba a latte, da ossa a terracotta.
Ma ti dicevo dei muri e dei tetti. Quando cammini tra le vecchie strade e le vecchie case di Bologna, durante il giorno o prima di tornare a casa per cenare, tutto è condensato come un nido di erbe e stecchi, di sangue e piume. Intravedi alberi dai portoni semichiusi di alcune corti, o che svettano dai cortili e dai giardini interni fino ai tetti. Uscito dalla città più antica, li vedi schierati sui viali ad arginare la furia delle auto, e infoltirsi a ridosso dei colli, dove se sali le case si diradano. Là è bello salire in auto e poi a piedi anche d’autunno, quando si moltiplicano i colori di Bologna, in altri odori e rumori.
Invece dentro la cerchia quasi del tutto immaginaria delle mura si concentra l’antica civiltà e la barbarie, che il lavorìo presente e quotidiano àltera e muta. In una breve passeggiata vedi antichi palazzi, ampie arcate signorili, chiese e torri che hanno schiantato molte schiene. Trovi portici alti e puliti, o soffocanti e fetidi sotto case anguste. Vedi case in bella schiera, appena diverse in altezza, ampiezza e colore della facciata, su cui talvolta sorgono altane o torrette, da cui vedi le colline, le altre torri, i tetti alberati dalle antenne e la distesa dei coppi e dei comignoli sempre uguale e diversa. Camminando per le vie puoi pensare che alcune case abbiano preso il posto delle antiche fabbriche del ‘500, schierate lungo il corso dei canali ora coperti dall’asfalto, dove al buio qualcuno consumava la vista per le sete colorate. Si credeva infatti che la luce del sole le sbiadisse.
Quando invece scendi dal bus e cammini verso casa, sei in una città diversa. Trovi, se hai voglia di girare, erbe e alberi che la città non ha voluto ricoprire ed estirpare, o non ancora. Ne incontri alcune sempreverdi, espiantate dai monti, recintate in qualche piccolo giardino. Poi ancora alberi ed erba lungo il fiume, intorno al cimitero e alle scuole, intorno agli svincoli veloci e a quelle vie per auto, deserte di bambini, di uomini e di donne a piedi, se non di notte sui marciapiedi, per lavoro, al freddo fino a tardi; vie che vanno all’Autostrada in una fuga di lampioni alti e curvi.
Tra i palazzi e le torri di cemento non lontano dalla tua casa sta la mia prima scuola e il giardino pubblico in cui giocavo da bambino; altri giardini più lontani, o brevi prati, sono per altre torri; lungo il canale una striscia di alberi e d’erba si allarga, prima dietro a grandi case, poi attorno a una villa diroccata, dove ho dato i primi baci. Un’altra villa, che fu una scuola e altro, sta in un giardino che ricordo con piacere. A nord della tua casa invece case fitte, strade angustiate dai parcheggi.
Anche se gli alberi e le erbe stanno in spazi aperti, hai l’impressione di un territorio conquistato dalle auto e da palazzi enormi. Pensi a volte alle piante come a un esercito sconfitto. I desideri non rampicano questi muri, queste case. Dopo cena, tutto dice di riprendere l’autobus notturno, di camminare per altre strade, di andare altrove. Come quando, molti anni fa, verso sera guardavo, dall’alto di un ponte pedonale che sormonta gli affluenti dell’autostrada, le luci veloci delle auto, e quelle dei lampioni appena accese, in fuga verso le nubi rade sui colori del tramonto; e potevo o inebetirmi soddisfatto, o cercare di spiegarmi che bellezza fosse quella e in qualche modo catturarla, o sputare sulle auto in corsa, o andarmene — e così facevo. Infatti quella bellezza, quel crepuscolo terso di luci e di colori sulle strade d’auto, mi diceva una sola cosa: vai oltre.
Tu preferisci le vecchie case di Bologna, in particolare le centinaia di case in cui sei entrato. Ami quelle piazze, sei fedele a quelle strade, anche se strozzate dalle auto e dall’afa estiva; ma forse, anzi lo spero, non ricordi il passato con nostalgia, perché ti danno voglia di fare e di rifare. Forse come me, anzi lo spero, non sei fedele a quelle case piazze e strade, o meglio solo quelle non ti bastano, ami piuttosto chi c’è passato con te e potresti rincontrare altrove, o chi incontrerai ma non hai mai visto prima, o non conosci ancora, ed è appena una faccia, una spalla arrossata, un cenno, tre parole.
Invece quando ti risvegli a casa, se esci a passeggiare, vai alla ricerca delle piante, dei prati, delle siepi, delle file di alberi, e quando arriva primavera, dopo le piogge, al sole puoi vedere sull’erba luminosa le galassie dei ranuncoli, delle margherite e sul ciglio grigio di un marciapiedi anche i papaveri.

Dove stava fino a un anno fa un podere recintato, inaccessibile, inquadrato dalla città ormai da decenni, hanno costruito, allineate quasi addosso allo Stradone che porta alle autostrade, case bianche a schiera, basse e uguali, tetto piatto, brutte ma costose. Non case bianche di altezza ineguale, su di un declivio o sulle rocce, magari sulla costa che si insena o si protende su acque marine e calde, case col tetto piatto perché la pioggia è rara, la neve quasi sconosciuta, lontane da vie percorse da macchine veloci. Subito dopo la schiera lapidaria, s’alza una grande torta bianca di cemento.
Chi le ha fatte costruire non sa che s’affacciano alla strada? Non ha visto che oltre le quattro strade unite e compatte come fili di rame dentro un cavo, chiamate Asse Attrezzato Sud-Ovest, sta una fila alta e folta di pioppi, che protegge gli orti dati in piccoli lotti ai pensionati, poi un campo verdissimo, e poi il cimitero, la Certosa turrita e murata? Qualcuno mi diceva, con un’aria da vecchio capo indiano, che nelle fronde, nelle foglie dei pioppi, stanno miriadi di morti, che chiedono, chiedono a noi, un altro mondo.
Quando prosegui lungo l’Asse, camminando verso nord sul marciapiedi stretto, a sinistra vedi una grande scuola, tutto intorno centinaia d’alberi, prati che da marzo dilagano di fiori anche per chi viaggia in auto, che se li vede rallenta la corsa e con più calma o scrupolo si ferma al primo incrocio. Ma se non gli importa, sono lì anche per te.
In quel parco giocano i bambini, tra i rami gli uccelli fanno i nidi, se fa caldo qualcuno legge sotto un albero, corrono i cani e così via, non importa dirlo.
Vicina alla scuola, quasi addosso, ai margini del parco, senza che l’occhio la distingua, sta una toppa verde, popolata d’alberi ed erba, scampata per anni all’asfalto, non ancora edificata. Lì volevano, anni fa, costruire delle torri. Hanno cambiato idea, hanno pensato a due edifici e piazzole coi parcheggi; coleranno strati di asfalto e di cemento su centotrenta alberi.
Al di là della strada, che dall’Asse si diparte, su cui s’affacceranno questi edifici, sono stati da poco terminati altri grandi palazzi bianchi. Pianteranno alberi, semineranno erba intorno alle centinaia di nuovi abitanti e alle loro auto. Ma dietro quei palazzi vanno e vengono dall’Autostrada altre due vie congiunte, larghe e veloci. Le sorveglia dopo un colle artificiale un’altra fila di pioppi.
Un amico mi ha detto che le ceneri di Alessandro non stanno affatto nei palazzi alti che s’alzano dov’era il prato su cui giocavo da bambino, di fronte alla casa che ora è tua. E ha aggiunto che se anche fosse vero, le ceneri starebbero in un mattone solo, non nel palazzo.
Molti hanno protestato contro i palazzi a ridosso della scuola, contro al taglio di quei centotrenta alberi, che sono meli, aceri campestri, salici, olmi, carpini, pioppi bianchi e cipressini, ippocastani. Che sono fiori, ombra, lavoro, aria. Chi decide alla fine ha deciso di costruire un palazzo in meno, soltanto un palazzo a doppio corpo di non so quanti appartamenti. Molti alberi saranno comunque abbattuti. Il nuovo edificio murerà la vista a quelli appena terminati, stringerà la scuola, assedierà le piante superstiti. Non vedremo i fiori di quei meli.
Ma qualcuno ha spiegato a tutti: il verde che noi vediamo in realtà non c’è. Quel verde sono piante, ma non sono quello che nelle mappe si definisce verde. Vi sono, da tempo, progetti che oggi si devono realizzare. Un altro ha assicurato che finiti i lavori, nel quartiere ci sarà più verde, perché ci saranno alberi in fila, prati educati, o magari recintati, non rovi sterpi cespugli boscaglia.
Esiste solo quello che si può pestare? Quelle toppe d’inesistenza, che si fanno a volte movimento o luce, devono per forza diventare altri recinti e case enormi? Per forza e per quale forza devono? Chi ha bisogno di case non le vorrebbe fitte, senza misura e memoria, non le vorrebbe soffocate dall’asfalto, anche se l’auto qualche volta gli serve e qualche volta ci ha fatto l’amore.
Hanno risposto che è stata bonificata dopo tanti anni la riva del fiume, prima impervia, selvaggia, intricata di piante, sporca di rifiuti. Bene. Ma sul fiume non c’erano case; ce ne saranno altrove, dove erano o potevano essere alberi ed erba.
Qualcuno mi diceva che nelle piante stanno i morti che vegliano i nipoti. Le piante chiedono in silenzio che gli ammutoliti siano ricordati, in particolare i sempre muti, e parlino nei vivi, ma anche vogliono i morti distinti dai vivi, vogliono che i vivi cambino la propria vita e assieme il mondo.
Alcune, solo alcune, per custodire la vicenda dei corpi e dei viventi, accettano di sfarsi in aria, di bruciare con appena un filo di pietà, o di farsi nidi o costruzioni umane o di castori, che per loro è rimettersi in cammino.
Devi sapere che un brivido di vento divampa le fronde dei pioppi se qualcuno si suicida, cerca la bella morte, o dorme quando dovrebbe vegliare. I pioppi laggiù in fila che ti proteggono i sonni e a volte guidano i tuoi sogni non ti possono aiutare se la tua vita è un solo sonno. E tremano a vedere tutto quello che non cresce la vita ad ogni vivo.

*Il racconto L’armata muta è stato pubblicato in AAVV (a cura di Giorgio Noli), Incroci a raso. Tra Storia e storie, Cagliari, Scuola Sarda Editrice, 2006.