di Arturo “Potassa” Cravani

iranicafe.jpgSono arrivato a Bombay col mito letterario del Leopold Café, elaborato nella lettura di Shantaram, il roccioso romanzo di Gregory David Roberts. Nelle pagine dell’autore australiano, ex-rapinatore, ex-studente di filosofia, ex-evaso da un carcere di pubblica sicurezza e un tempo sul conto-paga della mafia di Bombay, il Leopold è un angolo di boheme nel caos della città: ubriaconi, filosofi, spacciatori, aspiranti attrici di Bollywood e gangster si incrociano tra gli specchi di questo caffé a pochi metri dalla Gate of India. Perlopiù europei (termine che qui può indicare anche i canadesi o i neozelandesi), che sotto i ventilatori del Leopold danno vita, nella finzione letteraria, a una combriccola romantica di malaffare.


Il Leopold non è famoso solo per Shantaram. É salito alla ribalta dei media internazionali in seguito all’attacco terroristico del novembre 2008, quando un commando di estremisti assaltò alcuni simboli di Mumbai. Oltre ai monumenti dell’affluenza, il Taj Mahal e l’Oberoi, anche il Leopold, punto di sosta dei turisti occidentali, ricevette raffiche di mitragliatrice e versò sangue. Stupisce, ripercorrendo l’itinerario degli obiettivi, la vicinanza con la centrale di polizia di Colaba (30 passi) e con il quartier generale della polizia di Mumbai (300 passi).

Detto questo, si arriva al Leopold e per entrare bisogna superare una serie di controlli che vanno dalla scrupolosità più meticolosa al menefreghismo totale. Come tutto in India, dipende dalla sorte. Un giorno per entrare mi hanno fatto una perquisizione accuratissima, il giorno dopo ho tirato a dritto e nessuno mi ha fermato. I controllori impugnano doppiette da caccia. Non c’è mai un posto libero. I clienti sono tutti biondi, bianchi e obesi. Inglesi e americani del nord spadroneggiano, e non parlano né di Baudelaire né di hashish, ma del sari di seta da 300 dollari che hanno comprato a Westgate. Quanto al cibo, è nella media della qualità e sopra la media per il prezzo. Vale solo la pena andare al Leopold per bere una birra, ma è la solita Kingfisher: si difende, ma in altri posti non devono farmi una perquisizione. Alla fine, il Leopold non è granché: belli gli specchi, me se ne vedono di migliori, idem per il pavimento.

Ogni volta che ho provato a rientrarci, la prospettiva dei controlli e l’idea di sedermi al tavolo di uno yankee in compagnia obbligatoria mi hanno spinto a fare retromarcia e ad attraversare la strada (quella Colaba Causeway che in realtà è intitolata a un freedom fighter dell’indipendenza indiana che in molti hanno dimenticato, troppo violento e troppo poco gandhiano). Proprio di fronte al Leopold ci sono due ristoranti meravigliosi. Cucina migliore, clientela migliore, prezzi modestissimi.

Il primo è l’Olympia. É un ristorante musulmano, specializzato in cucina moghlai. Ovviamente il biryani al pollo è il capolavoro di questo posto. Io in India però tendo a essere vegetariano, non per questioni religiose ma per diffidenza verso la conservazione e il sapore della carne. Vado quindi per un egg-masala con veg-biryani (riso con verdure e salsa di spezie con un uovo sodo, anche se l’uovo a voler essere precisi qui è considerato carne), scegliendo la mezza porzione, per tenermi un po di fame e provare un altro locale. Mi regalano anche un chapati (focaccia sottile) e alla fine mi prendo un chai, il te dolce e denso al latte. Spendo 60 rupie (meno di un euro), tutto è squisito. Il servizio è composto da ragazzini vestiti in abito tradizionale musulmano. Peccato che in tutto il locale non ci sia una donna a riflettersi sugli splendidi specchi dell’Olympia. Questa è l’unica pecca di questo meraviglioso locale.

Basta fare pochi passi in avanti, sullo stesso lato della strada, in direzione Khala Goda, e si incontra l’entrata dell’Hotel Majestic. Hotel qui vuol dire soltanto ristorante. Dalle strada intravedo un piccolo altarino di Ganesha, il dio elefante, con una ghirlanda di garofani color zafferano. É un buon segno: la cucina vegetariana indù è la mia preferita. Dentro ci sono solo indiani, nessun turista: anche questo è propizio. Il servizio va per caste. Il cameriere può toccare il cibo ma non pulire il tavolo, e viceversa. Chi pulisce è scalzo e vestito di scuro. Una gerarchia a cui purtroppo ci si abitua spesso in India. Ordino un veeg sheed kebab e un lassi, non posso mangiare troppo perché sono appena uscito dal ristorante musulmano. Anche qui specchi, che però riflettono la variegata tavolozza dell’iconografia religiosa indù, coi suoi impasti colori e forme (mentre l’Olympia rispetta il precetto islamico del divieto della rappresentazione divina). Alla maniera indiana, si mangia solo con la mano destra, senza posate – la sinistra è impura – e si mangia di fretta, per continuare l’eterno movimento indiano da un posto a un altro. Trangugio il mio lassi, il latte fermentato e zuccherato, e mi infilo in un taxi per fumarmi in pace un beedi (per strada in teoria sarebbe vietato), mentre l’autista mi guarda malissimo: i beedi, tanto fashion tra i fricchettoni europei, sono fumati esclusivamente dai contadini poveri delle campagne.

Decido che è il momento di prendere un dessert. Mi faccio scaricare dal tassista a Ballard Estate, sulla soglia di uno degli ultimi ristoranti parsi di Bombay. I parsi sono una piccola comunità – piuttosto affluente, tanto che tra le sue fila conta il magnate indiano Tata – che è emigrata qui dall’Iran alcuni secoli fa per sfuggire le persecuzioni religiose. Sono seguaci di Zoroastro. Il nome del ristorante, Britannia, mi ricorda un caffé di Buenos Aires che fu costretto a cambiare nome durante la guerra per le Falkland/Malvinas, ma le affinità finiscono qui. Per il resto il locale è semplice, con una clientela di vecchi iraniani con abiti stinti che odorano di vecchie abitudini e che parlano delle loro belle case a Malabar Hill. Scruto velocemente il menù e scopro che qui fanno il Fried Bombay duck. É un piatto tipico di Mumbai che volevo provare da tempo e che non avevo mai trovato in un ristorante. L’anatra, la “duck”, non c’entra nulla. Si tratta di un pesce che si trova solo nella baia di Mumbai e che viene pescato da un gruppo specifico di pescatori, un’etnia di tribali intorno ai quali nei secoli è stata costruita la metropoli. Decido di mandare a monte l’idea del dessert e di provarlo. Mi servono il pesce e me lo spinano: è fritto, molto saporito, con una consistenza strana, molto morbida, quasi gelatinosa. Non voglio pensare a quanto possa essere inquinato. Il conto è salato: 300 rupie per 4 pesci di medio-piccola dimensione. Il Britannia non mi ha impressionato: è un posto per vecchietti ricchi.

Mi chiedo come continuare il gastro-tour religioso (l’ultimo attributo è dovuto al fatto che i ristoranti seguono le diete religiose, in India). Dai cristiani no. E non solo per diffidenza antipapalina, ma per il fatto che qui i cristiani si vantano di non essere vegetariani (per distinguersi dagli indù) e trangugiano quantità esasperanti di carne (spesso le stesse vacche sacre che si nutrono di spazzatura agli angoli delle strade, macellate dai musulmani e rivendute ai cristiani). Ma se la cucina indiana vegetariana è strepitosa, non si può dire altrettanto per quella carnivora. La carne marcisce spesso nei negozietti dei mercati estemporanei, pieni di mosche e privi di frigorifero, e spesso solo le spezie, con la loro esuberanza, riescono a nascondere al palato il sapore del marcio.

Decido allora di dare un’occhiata a un posto che mi aveva attratto, passandoci davanti qualche tempo fa. Nella zona di Khola Gada, tra Fort e Colaba, anzi, per essere più precisi, tra la Mumbai University e l’High Court, avevo visto un ristorantaccio fatiscente che mi aveva colpito. Poi il nome mi aveva bloccato: Army Restaurant. Il ristorante dell’esercito. Decido di entrarci per l’ennesimo chai. Il posto è stupendo. Sudicio, fatiscente, forse vecchio (è difficile fare datazioni di immobili in India: un posto restaurato da tre anni può avere l’aspetto di un edificio centenario, tanto il clima e l’incuria corrodono gli intonaci). Il proprietario non si lascia sfuggire l’occasione di salutare un occidentale. Dice di essere iraniano. Iniziamo a parlare di tè e tabacco.
Nel frattempo osservo la clientela: la maggior parte degli astanti sono avvocati (il tribunale è a due passi). Li riconosco facilmente perché sono vestiti in abiti molto formali e alcuni hanno il bavaglio bianco, già usato nelle corti britanniche, al collo. Quello che mi stupisce è che quasi ogni tavolo ospita un avvocato elegantissimo e dei poveracci male in arnese. Mi sembra di capire che il ristorante funzioni come sala visite per gli avvocati che si consultano con i loro clienti. Spesso i clienti sono dei ceffi e hanno tutte le stigma, come direbbe il vecchio Lombroso, del “criminale nato”. A volte sembra che abbiano cercato di darsi una sistemata ma che i panni che hanno addosso, buoni per l’udienza, non siano i loro ma che li abbiano piuttosto presi a prestito. Continuo la panoramica sui volti. Mi rendo conto (e qui il Lombroso fa fiasco) che a volte ci sono avvocati che hanno ghigni peggiori di quelli dei loro clienti. La fisiognomica della criminalità rimane una stronzata della criminologia positivista.
Continuo a guardarmi attorno. Non capisco le parole in marathi o in hindi e nessuno parla inglese. Ma dai volti preoccupati degli uni che osservano le mani degli altri che contano con le dita (alla maniera indiana, cioè contando sulle falangi col pollice di una stessa mano, un sistema estremamente efficace e migliore di quello occidentale che permette di arrivare a 12 con una mano sola), capisco che qui si parla di mesi e anni di carcere.
In questo limbo di uomini che aspettano il giudizio e di difensori che mercanteggiano anni di carcere con la stessa tranquillità con cui infilano le zollette di zucchero nel chai, si riassume uno dei conflitti della meravigliosa e corrotta Bombay. Il miglior ristorante in città è quello che della città esprime l’anima, e questo posto umido e sudicio, affollato d’azzeccagarbugli e di poveracci alle soglie di una sentenza, è indiscutibilmente il miglior ristorante in città.