di Giuseppe Genna

Il 4 gennaio 1972 nelle case degli italiani successe qualcosa di inaudito e mai visto. Da 17 milioni di piccoli schermi in bianco e nero cominciò a irradiarsi la serie di fantascienza più devastante dell’intera storia umana. Era come se Bergman, Tarkovskij e una telecamera fissa si fossero trovati insieme per giocare uno scherzo a un intero Paese. Era stato realizzato A come Andromeda, il telefilm più lento e ipnotico mai trasmesso. A partire dalla sigla (un Tavor tv: potete maneggiarla con cautela qui a destra). Su una strada britannica (in realtà porta a Basiglio, in provincia di Milano) corre (si fa per dire) una spider. Oltre che la Lombardia, si userà la Gallura, per le location. La spider della sigla procede alla velocità di un’Ape. L’infinita maratona della fuoriserie si chiude con una scritta ricca di promesse: “Questa storia si svolge l’anno prossimo in Inghilterra”. La trama è un Blade Runner pensato da qualcuno che ha preso più LSD di chi Philip Dick (e ce ne vuole).

Si tratta di un romanzo di fantascienza scritto da un astronomo inglese e adattato da un italiano, il cui nome suggerisce quel che si vuole: Inisero Cremaschi. Per la Rai dei Settanta, A come Andromeda è una megaproduzione. Il cast è stellare, per i tempi. Viene assoldato il meglio del teatro di allora: Tino Carraro, Paola Pitagora, Luigi Vannucchi (tutta gente che pare inglese esattamente quanto Antonio Banderas sembra islandese). Dovrebbe esserci anche Patty Pravo, che poi però dà misteriosamente forfait. Azzardiamo che biondina del Piper, stando ferma, era comunque più veloce delle inquadrature.
A un ritmo che pareva scientificamente studiato dai sovietici come rimedio all’insonnia, gli italiani si appassionarono alla leggenda di un telefilm in cui stenta ad accadere un delirio. Ecco cosa piacque al Belpaese, che poi ne fece un mito. In Inghilterra installano un radioscopio puntato verso la galassia Andromeda. Viene intercettato un messaggio, che nasconde istruzioni per costruire un supercomputer. Che viene assemblato, anche se nessuno sembra capire come funziona (una situazione comune a tutti gli uffici trent’anni dopo A come Andromeda). A questo punto, la scena madre (qui a destra: firmate il consenso prima di fare partire il video): Nicoletta Rizzi (sosia di Patty Pravo e recentemente scomparsa), come se fosse sotto incantesimo di Giucas Casella, impiega sette minuti netti ad avvicinarsi al processore, che la fulmina (verbo inadatto, perché nulla nel serial ha la velocità del fulmine). Poi il computer si pente e la fa risorgere, superando barriere bibliche — la sosia di Patty Pravo si rianima, diventando bionda ossigenata. Non è più quella di prima: si chiama Andromeda ed è un’aliena che si aggira per il mondo, intelligentissima, arrivando a condizionare scelte strategiche dell’umanità. Il tutto finirà in tragedia.
Le ricchissime scenografie (computer che sono fustini di cartone traforati con lampadine da 3 watt), la raffinata estetica del vestiario (scienziati in girocollo aderente, cattiva imitazione di modelli Facis), gli spettacolari interni (il mio monolocale è più ampio) e i folgoranti dialoghi (interessanti come sette consecutivi discorsi di fine anno del presidente della Repubblica Scalfaro) fecero di questa serie un cult: e ciò già diceva che l’Italia viveva anni di piombo. Non fate però gli esterofili. Spazio 1999, pur essendo una produzione Usa, esibiva costumi molto peggiori e dialoghi più surreali. E comunque è arrivato dopo. Nel 1972, con A come Andromeda, l’Italia fu all’avanguardia televisiva mondiale, quasi superando Star Trek. Non è mai più successo. E meno male.