di Marilù Oliva

ClericiSanRemo.jpgForse qualcuno storcerà il naso a sentir parlare ancora di principi e festival. Il biasimo sarà per aver indirizzato l’attenzione verso qualcosa di infimo e poco intellettuale come il Festival della Canzone Italiana o la tanto riprovata partecipazione di Emanuele Filiberto Di Savoia. In realtà a me destano veramente poco interesse le doti canore del principe, ma mi scuote d’indignazione l’utilizzo distorto della lingua italiana, l’appiattimento del senso della frase, la banalizzazione populistica. Qualcosa di grave è accaduto e non si tratta di politica. Una superficiale, becera violenza alla lingua. E se non c’è più freno alla decenza, che ci sia almeno riguardo per la lingua italiana. Per come la si usa, perché non se ne si abusi, perché a lessemi e concetti sia conferita la carica preziosa che meritano.

Parto da una dichiarazione soggettiva e per questo discutibile: questa canzone è veramente brutta. Prima di passare a un livello oggettivo e all’analisi linguistica, ecco il testo del brano che Emanuele Filiberto Di Savoia, Enzo Ghinazzi, in arte Pupo e il tenore Luca Canonici hanno presentato (e cantato, malamente i primi due, egregiamente il terzo) sul palco dell’Ariston, in occasione della sessantesima edizione del Festival di Sanremo:

Italia amore mio.

I
(Pupo)
Io credo sempre nel futuro, nella giustizia e nel lavoro,
nel sentimento che ci unisce, intorno alla nostra famiglia.
Io credo nelle tradizioni, di un popolo che non si arrende,
e soffro le preoccupazioni, di chi possiede poco o niente.
(E. Filiberto)
Io credo nella mia cultura e nella mia religione,
per questo io non ho paura, di esprimere la mia opinione.
Io sento battere più forte, il cuore di un’Italia sola,
che oggi più serenamente, si specchia in tutta la sua storia.

II
(L. Canonici) ritornello
Sì stasera sono qui, per dire al mondo e a Dio, Italia amore mio.
Io, io non mi stancherò, di dire al mondo e a Dio, Italia amore mio.

III
(E. Filiberto) Ricordo quando ero bambino, viaggiavo con la fantasia,
chiudevo gli occhi e immaginavo, di stringerla fra le mie braccia.
(Pupo) Tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente,
ma chi si può paragonare, a chi ha sofferto veramente.
(L. Canonici) Sì stasera sono qui, per dire al mondo e a Dio, Italia amore mio
Io, io non mi stancherò, di dire al mondo e a Dio, Italia amore mio
(Pupo) Io credo ancora nel rispetto, nell’onestà di un ideale,
nel sogno chiuso in un cassetto e in un paese più normale.
(E. Filiberto) Sì, stasera sono qui, per dire al mondo e a Dio, Italia amore mio.

Il brano, dal punto di vista dei significati e dei significanti, esibisce una semplicità di trasmissione tra emittente e destinatari che rasenta l’ingenuità. Già il titolo “Italia amore mio” rivela un’impostazione patriottica (che rimanda alla scelta di una fazione di scegliere, come parte fondante del suo nome, la nazione cui appartengono, indistintamente, diverse parti politiche). L’invocazione (o l’asserzione, non è molto chiaro) si presenta come altamente intrisa di pathos, pathos rafforzato dal possessivo in chiusura “mia”.
Sorvoliamo sulla semplicità sintattico-lessicale del testo adattato in musica da Pupo a partire da una poesia di Emanuele Filiberto, testo che sarebbe tranquillamente potuto scaturire dalla penna di uno scolaro di seconda o terza elementare. Il pronome “io” compare dieci volte in una canzone composta da quattordici versi (2 strofe da 4 versi+ 3 strofe da 2) più i due versi di ritornello. L’utilizzo ossessivo della prima persona “io” coniugata a verba putandi e sentiendi come “credere” “sentire” e a verbi di percezione come “ricordare” rendono iperbolico l’egocentrismo e proiettano il brano nella dimensione del resoconto infantile. Si tratta di un chiaro rimando ad un’esperienza personale che produce dichiarazioni ad altissima autoreferenzialità.
Il testo presenta molti elementi tipici dell’informazione propagandistica:
La semplicità dell’informazione
La reiterazione
Il messaggio portatore di valori
Il messaggio subliminale
Un substrato intenzionale a forte impronta patetica

La canzone può essere divisa in tre parti: la prima parte è un semplice elenco di elementi in cui Emanuele Filiberto Di Savoia (o di Pupo, ma si tratta di una spalla, di un’estensione degli intenti dichiarati del principe) afferma di credere: crede nel futuro, nella giustizia e nel lavoro, nella famiglia, nelle tradizioni, nella “mia cultura e nella mia religione” (verrebbe da domandargli quali, qualora l’anteposizione del possessivo avesse uno scopo distintivo). A questo si aggiungono sentimenti e sensazioni, anche in negativo: “io non ho paura” e “soffro”, “Io sento battere più forte”. Il principe sostiene di non aver paura di esprimere la sua opinione (era necessaria questa dichiarazione? Perché mai in un paese democratico si dovrebbe aver paura di esprimere la propria opinione? Lui l’ha sempre espressa e, al massimo, ha ricevuto qualche fischio o qualche protesta. Ma proteste, fischi e dissenso sono leciti, quindi la frase “io non ho paura” non avrebbe ragioni di sussistere, a meno che non si volesse preventivamente mettere a tacere anche il dissenso) e dichiara di soffrire “le preoccupazioni di chi possiede poco o niente”.
Il verbo soffrire, nella sua accezione transitiva, significa, secondo lo Zingarelli, patire dolori fisici o morali. Saremmo curiosi di sapere quali dolori fisici o morali ha dovuto subire Emanuele Filiberto e, nel caso, come concilia la sua solidarietà con i poveri italiani (chi ha poco o niente) con la richiesta, inoltrata dalla sua famiglia, allo stato italiano di circa 260 milioni di euro per i danni patiti a causa dell’esilio. Vecchia storia, s’intende. Ma è forse il tempo che vanifica le azioni? O proprio perché possono fungere da esempio (anche cattivo) vanno ricordate?
In chiusura alla prima parte Emanuele Filiberto sente “battere più forte”. Cosa? “Il cuore di un’Italia sola, che oggi più serenamente si specchia in tutta la sua storia.” Sarebbe auspicabile che il Savoia esplicitasse in che senso unisce il nome “Italia” all’aggettivo “sola”: Italia senza divisioni nord/sud? Italia dove immigrati e autoctoni vivono in uguaglianza e armonia? O un’Italia sola perché è rimasto un solo partito e gli altri son stati eliminati?. Sibillina è la relativa seguente, riferita a una nazione “che oggi più serenamente si specchia in tutta la sua storia”. L’Italia si riflette (e si ritrova) oggi più serenamente in tutta la sua storia. In “tutta la sua storia”, ovvero dai tempi dell’unificazione, avvenuta nel 1861, con Vittorio Emanuele II primo re d’Italia (e qui il cerchio si chiude). La parentesi temporale che apre l’espressione “tutta la sua storia” va dunque dal 1861 ad oggi. E perché l’Italia sarebbe oggi più serena quando si specchia nella sua storia? Specchiarsi vuol dire guardarsi in una superficie che riflette le immagini (Zingarelli), riconoscersi in ciò che si vede. Quindi l’Italia, osservando la propria storia dal 1861 ad oggi, riconosce quello che è oggi. Ovvero l’Italia è il riflesso della monarchia prima, del fascismo poi, della mancata estromissione degli esponenti fascisti dal governo, del terrorismo di ogni colore e dello stragismo nero. Secondo l’autore della canzone, l’Italia vede rigettate dallo specchio in cui si guarda queste drammatiche successioni storiche e lo fa ormai serenamente: siamo all’apoteosi della rimozione delle esperienze pregresse.

La seconda parte è il ritornello affidato all’ugola d’oro di Luca Canonici. Rima doppia (sì, qui — Dio, mio) per una dichiarazione d’amore patriottico intrisa di pathos, che si estende in senso spaziale e metafisico: il messaggio d’amore viene inoltrato dall’hic al mondo fino alla divinità. Il concetto si ripete nel verso successivo con la ripetizione “Io, io non mi stancherò di dire al mondo…”. Gli unici che si sono stancati, fino a questo momento, sono gli ascoltatori e le loro orecchie vilipese.

Nella terza parte l’auditorio è catapultato in un viaggio nel tempo, quando il principe era bambino e sognava ad occhi aperti. Cosa sognava? Un bambino sano sognerebbe una gita nel paese dei balocchi, ma un bambino regale sogna di stringere l’Italia tra le sue braccia. Prende la parola Pupo, rivolgendosi con tinte da melodramma a Emanuele Filiberto e alla sua trascorsa esperienza dell’esilio: “Tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente, ma chi si può paragonare, a chi ha sofferto veramente.” Il principe bambino viene proiettato in una dimensione di innocenza ingiustamente punita (“Tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente”) e proclamata con un’attestazione da linguaggio puerile (“non avendo fatto niente”). Poi Pupo nega l’immedesimazione con la sofferenza, ovvero afferma il contrario di ciò che aveva affermato il Savoia nella prima parte. Non aveva forse detto che soffriva “le preoccupazioni, di chi possiede poco o niente.”? Allora a lui è lecita l’immedesimazione e agli altri no? Perché i casi sono due: o Pupo l’ha contraddetto o il Savoia possiede una sorta di capacità empatica superiore per cui solo a lui è concessa l’immedesimazione con le sofferenze altrui.
Subito dopo uno stacco del tenore in cui si ripete il ritornello, riattacca Pupo in vece del principe e ribadisce i concetti in quello cui crede: “nel rispetto, nell’onestà di un ideale, nel sogno chiuso in un cassetto e in un paese più normale.” Quale sarebbe il paese più normale? (da notare anche la banalità dell’aggettivo in rima con ideale)
Una nota: nella serata di venerdì 19 febbraio, in uno sterile tentativo di ingraziarsi le simpatie del pubblico, è stato coinvolto insieme al trio, nell’esibizione, il commissario tecnico della nazionale Italiana Marcello Lippi. Insieme a lui c’erano Le Divas, quattro giovani cantanti con impostazione lirica corale, opportunamente vestite coi colori della bandiera italiana. L’appeal è più ideologico che musical-letterario. La poetica nazional-patetica è nostalgica di un microcosmo italico: un patriottismo in chiave populista con richiami forti alla tradizione risorgimentale. La circolarità narrativa che parte dal titolo, conclude il ritornello ed è confermata nell’epilogo.
Per l’occasione Pupo ha sferrato un parallelismo tra l’Italia patriottica cantata e quella calcistica dei mondiali vinti nel 2006, forse con l’intento di convogliare dalla loro una fetta di tifosi:“In quella notte di Berlino noi tutti alzammo le mani con Lippi e Fabio Cannavaro, l’orgoglio di essere italiani”
Concludo infine citando le parole dello stesso Pupo che forse è pure sincero quando dice «La nostra è una canzone d’amore per l’Italia.» Più che canzone d’amore è una canzone d’esibizione d’amore. Per l’Italia, forse, certo non per l’italiano.