di Alessandra Daniele

2Cuori.JPGS’è conclusa il primo gennaio la quarta stagione di Doctor Who, ultima del rigenerato ciclo gestito dal vulcanico Russel T. Davies, e interpretato dal talentuoso David Tennant nel ruolo di Ten, decima incarnazione del Dottore riuscita a surclassare nel cuore di così tanti whovians persino l’ormai mitico Four di Tom Baker, e nello stesso tempo a conquistare milioni di nuovi appassionati spettatori della serie in tutti il mondo.
Oltre ad aver dato un nuovo significato al termine cenone di Natale, questo The End of Time s’è dimostrato, com’era logico aspettarsi, un glorioso frullato del meglio e del peggio di cui dal 1963 questa serie è capace.
Un finale dai due volti, o meglio, due cuori.
Spoiler 
Appartiene senz’altro al meglio la lodevole presa per il culo di Obama. A chi nel fandom ha protestato, obiettando che i leader mondiali ritratti in Doctor Who debbano sempre essere personaggi inventati, sfugge ancora il fatto che anche Obama lo sia.
Tipico del peggio il tradizionale, spudorato cazzeggio science-fantasy: basta lanciare un diamante verso un ologramma della Terra perché la raggiunga davvero? Quindi, se io durante il Tg tirassi una scarpata allo schermo… no, purtroppo non funziona.
Parte fondamentale del meglio sono le interpretazioni dei protagonisti: dal pirotecnico Tennant, sempre ipercinetico, ma più umano che mai, all’ottimo veterano Bernard Cribbins, toccante e credibile, allo straordinario John Simm, che, come Tennant, fornisce un’altra prova dell’intensità e della versatilità del suo talento, dando prima una delle più crude rappresentazioni della follia disperata, per poi tornare al suo Master istrionico e beffardo, lasciando però che la sofferenza dell’uomo continui a trasparire dalla maschera del supervillain.
Da rubricare nel meglio l’atmosfera crepuscolare da wasteland suburbana della prima parte, la geniale, dickiana Masterizzazione del pianeta, e soprattutto il tentativo di dare reale spessore narrativo a quest’ennesima ”morte” del Dottore facendone una vera morte, chiarendo come la cosiddetta ”rigenerazione” sia in realtà a tutti gli effetti una sostituzione. Una morte autentica quindi, frutto d’una tragedia autentica, il sacrificio d’un uomo per un altro uomo, senza trucchi magici, scappatoie sci-fi, assi nella manica, e conigli nel cappello.
Un sacrificio reso ancora più struggente e credibile dall’iniziale, umanissima ribellione di Ten.
Alla decima incarnazione del Dottore in questi anni è stato affidato un compito di proporzioni bibliche: non solo attualizzare il personaggio (anche rielaborando l’apporto autoriale di Tom Baker in modo originale) ma soprattutto dargli spessore, complessità e credibilità compiutamente umane. Un ruolo ”cristico” in senso archetipico, che in questo commovente congedo trova il logico coronamento.
La riduzione di Donna al ruolo di casalinga immemore, dopo che era stata capace di assumere quello opposto di mentore, va invece decisamente catalogata nel peggio, insieme all’abuso voyageresco di profezie e apparizioni, e l’interminabile tournè d’addio di Ten, che rischia di smorzare il pathos della sua dipartita, recuperato solo in extremis dal carisma di Tennant.
La – fortunatamente breve – reintroduzione dell’intero pianeta Gallifrey, armi e bagagli, nella serie e nello spazio aereo inglese appartiene invece a entrambe le categorie.
Ottima l’idea di evocare come incarnazione del potere costituito l’archetipo di Kronos/Saturno tornato a divorare i suoi figli, nonché la vita, l’universo, e tutto il resto, ma avrebbe meritato più approfondimento e respiro narrativo. La torva, granitica fissità di Timothy Dalton in vestaglia rossa, e le incongruenze della mise en scène però non bastano a sminuire l’impatto visuale ed emotivo della decisione finale di Ten, né del triello che svela per intero quello che è il vero cuore di The End of Time: il rapporto fra Ten e il Master. Il modo in cui i due prima si fronteggiano, e poi si salvano la vita a vicenda rischiando la propria, e rispedendo all’inferno il patriarca divoratore, è qualcosa di così struggente e romantico – sia nel senso corrente che originario del termine – che da solo rimedia a tutte le cialtronate che come avanzi di veglione inevitabilmente costellano questo finale. Perché il rapporto fra Ten e il Master è amore, autentico, credibile, profondamente umano.
Il ritmo di quattro battute che ossessiona il Master è in realtà il battito cardiaco di un Time Lord. Quando alla discarica appoggia la sua fronte a quella di Ten dicendogli ”listen”, l’amato nemico gli sta in fondo chiedendo di ascoltare i loro cuori.
E Ten lo farà, fino alla fine.