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[Questo testo è tratto da un manoscritto in fase di scrittura]

La pubblicazione del volume La sfida educativa (Laterza, Bari 2009, pp. 224, € 14.00), a cura del Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), con la Prefazione di Camillo Ruini, consente di fare il punto sulla politica educativa e scolastica della Chiesa e delle lobbies ad essa correlate, e di ricostruirne le strategie a partire dalla loro formalizzazione in un vero e proprio progetto politico: come sempre avviene, è l’anatomia dell’uomo che consente di ricostruire quella della scimmia.

Una precisazione. La strategia progettuale di cui questo volume fa testimonianza è una strategia di lungo — anzi: lunghissimo — periodo. In un lontano, ma ancora attuale (e per alcuni versi preveggente) libro del 1954, Storia della scuola popolare in Italia, Dina Bertoni Jovine osservava che, all’indomani del Concordato del 1929, la politica scolastica del Vaticano «si svilupperà in una duplice direzione: diffondere una crescente indifferenza per la scuola dello Stato; sviluppare e rinvigorire una legislazione che favorisca la scuola privata, nella sicurezza che, nel campo dell’iniziativa privata, nessun ente potrà, per lungo tempo, competere con le forze clericali». Lo studio di Bertoni Jovine giungeva a constatare il fallimento del progetto, debole ed elitario, di un’educazione fondata sulla tradizione del riformismo illuministico, concretatosi con i Patti Lateranensi: un’impostazione che potrebbe valere anche per una storia della scuola e del problema educativo nell’Italia repubblicana. E che vale senz’altro per delineare le mosse di una potente lobby educativa nell’ultimo decennio.

Possiamo riassumere queste mosse in tre passaggi strategici.
Nel primo viene lanciato l’allarme dell’emergenza educativa.
Nel secondo si scatenano, con toni apocalittici e talvolta sguaiati (ma non casuali), i taliban.
Infine viene avanzata una — apparentemente — pacata proposta che sembra espungere i radicalismi e proporsi come una ragionevole piattaforma formulata in nome del bene comune.
C’è, in realtà, un quarto passaggio, che resta celato dall’apparente opposizione allo stato di cose presente: ma di questo, più avanti.

Per definire questa strategia uso qui una categoria concettuale proposta a suo tempo da Umberto Eco in Apocalittici e integrati: i venditori di Apocalisse [1]. Benigni-Troisi.jpg Il venditore di Apocalisse è quell’intellettuale che si costituisce come «esperto del “dove andremo a finire”», piuttosto che accettare l’esistenza di un nuovo orizzonte di problemi: come i dotti di Salamanca che confutarono Colombo, e davanti all’evidenza empirica dell’esistenza dell’America sostennero con pervicacia che «l’America esiste, è vero, ma è male che esista, e gravi danni ne conseguiranno per la comunità umana». Ricordate l’insegnante Saverio, ossia Roberto Benigni in Non ci resta che piangere? [clicca sull’immagine] Voleva impedire a Cristoforo Colombo di partire perché la scoperta dell’America aveva messo in moto una serie di eventi culminati con la sofferenza della di lui sorella ad opera di un americano: ecco, il venditore di Apocalisse è uno così. Con una variante, rispetto all’originaria proposta di Eco: a volte assume toni ancora più catastrofici, e si fa esperto non del “dove andremo a finire”, ma del “dove siamo andati a finire”.

Dove siamo andati a finire, dunque? Nel pieno di un’emergenza educativa, ci dicono. E come ci siamo arrivati? Ce lo spiega (siamo al primo passaggio) un Appello per l’Educazione lanciato nel 2005 da Comunione e Liberazione in “appoggio” alla pubblicazione di Il rischio educativo di don Giussani [2]. L’appello è intitolato Se ci fosse un’educazione del popolo tutti starebbero meglio: una frase di don Giussani che nasconde, dietro l’apparente ovvietà dell’enunciato, un ambiguo senso secondo. Se, infatti, in apparenza nessuno potrebbe negare l’enunciato nella sua formulazione ingenua, a ben vedere dentro questo accattivante Cavallo di Troia viene suggerito che il popolo avrebbe bisogno di essere educato perché attualmente non lo è: e, a ben pensarci, perché da solo non ne è capace. Per dirla con un intelligente blogger: se il pastore lo chiama gregge ci sarà un motivo. L’appello si apre con l’allarmante denuncia di «una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli». Il motivo è presto detto: i maledetti 40 anni che ci separano dal ’68, fonte di tutti i mali. Un ritornello che diventerà, due-tre anni dopo, ossessivo: «Per anni dai nuovi pulpiti – scuole e università, giornali e televisioni – si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere». Questa l’anamnesi. La diagnosi è conseguente: «È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta».

Nulla di nuovo, per certi versi. Si dà per certa una peculiare concezione dell’educazione, della vita, del mondo; si constata che l’educazione, la vita, il mondo non vanno nella direzione dovuta; si fornisce una descrizione caricaturale di questo nuovo mondo, funzionale alla critica che dovrebbe seguirne (una petizione di principio); e si conclude col «dove siamo andati a finire» tipico dei dotti di Salamanca. Tutte cose già dette, e meglio, nel libro di don Giussani.
Ma — è questo l’elemento rilevante — attorno a questo Appello si coagula un insieme di firmatari che va ben oltre Comunione e Liberazione, e che assume la forma di un vero e proprio schieramento pronto alla battaglia. Impressionante è soprattutto il parterre del giornalismo; belpiet.jpgaccanto alla scontata la firma di Amicone e Bonacina (rispettivamente direttori di Tempi e Vita), Davide Rondoni e Dino Boffo (all’epoca direttore di Avvenire), troviamo Maurizio Belpietro (Il Giornale), Carlo Rossella e Paolo Liguori (Mediaset), Mauro Mazza (direttore TG2), l’agente del SISMI Renato Farina (Libero), Giuliano Ferrara (Il Foglio), Antonio Polito (Il Riformista), Giancarlo Mazzuca (Quotidiano Nazionale), Franco Bechis, (Il Tempo), Ferruccio De Bortoli (all’epoca in castigo al Sole 24 Ore), e Magdi non-ancora-Cristiano Allam, il “pinocchio d’Egitto”, che sulla crisi della civiltà occidentale è come i cagnolini di pezza sul cruscotto dell’automobile — non serve a niente, ma non se ne può farne a meno [se vi siete persi il saggio dedicato a Magdi Allam da Valerio Evangelisti, cliccate qui: 1, 2, 3, 4, 5]. E poi banchieri e affaristi: Franco Bazoli (Banca Intesa), Giuseppe Guzzetti (CaRiPlo), Roberto Mazzotta (Banca Popolare di Milano), Giuseppe Mussari (Fondazione Monte dei Paschi di Siena), Fabio Roversi Monaco (Fondazione CaRisBo), Santo Versace (di professione fratello), Massimo Calearo (Federmeccanica, poi deputato PD, poi fuoriuscito dal PD dopo aver scoperto che era un partito “di sinistra”), Giorgio Squinzi (MAPEI) e Andrea Muccioli (San Patrignano), Gaetano Quagliarello e Giorgio Israel. E qualche simpatica ciliegina sulla torta, da Pupi Avati (tra i primi firmatari) alla Mina nazionale (in veste di giornalista, non di cantante: ma tant’è…).
È commovente pensare che tanti stimati giornalisti, ciascuno nel proprio mestiere maestro di sincerità e trasparenza, abbiano sentito questo doveroso imperativo come prioritario. E che tanti banchieri, affaristi, uomini d’impresa, trascinati dall’imperativo etico di risollevare le sorti dell’educazione, siano rimasti sorpresi dall’esplodere di una crisi globale alla quale, per nobilissime ragioni, non avevano avuto tempo di prestare attenzione.

Cosa succede dopo questo Appello che di fatto è un Manifesto? Che il tema dell’emergenza educativa, ormai lanciato, viene diffuso in modo ossessivo. E non solo dalle testate ufficialmente “di destra”: nel frattempo De Bortoli, che aveva qualcosa da farsi perdonare, ha finito di scontare il purgatorio al Sole 24 Ore, ed è tornato alla direzione del Corriere della Sera, dalle cui colonne partono le bordate di alcune tra le sue più autorevoli firme, come Ernesto Galli della Loggia ad Angelo Panebianco.toto_san_giovanni_decollato.jpg Che, come dimostrano i loro editoriali, di scuola poco sanno e ancor meno capiscono, ma per la proprietà transitiva dell’autorevolezza espressa per la prima volta in San Giovanni decollato da Totò nel ruolo di Mastr’Agostino Miciacio (un ciabattino talmente bravo da essere soprannominato “il professore”, dunque per definizione un professore tout court, un pozzo di scienza capace persino di sapere come si fa una scarpa), se sono autorevoli in un campo lo sono, o ritengono di esserlo, sull’intero globo terracqueo, dunque anche sulla scuola.

La reiterazione dell’emergenza educativa procede di pari passo con la campagna sulla “dittatura del relativismo”, vero cavallo di battaglia del cardinale Ratzinger, nel frattempo assurto al Soglio Pontificio, e ne costituisce una sorta di conseguenza empirica: nell’età del vuoto nichilistico e dell’indifferenza etica, l’educazione non può che essere in stato d’emergenza. In verità la “dittatura del relativismo” è, dal punto di vista logico, filosofico ed effettuale, un ronzino azzoppato più che un cavallo, che esso si regga solo al prezzo di fallacie logiche e scorrettezze argomentative più volte rilevate [3]. Basterebbe ricordare queste parole di Gustavo Zagrebelsky: «dire a una persona “tu sei un relativista”, significa qualcosa di molto simile al dirgli “tu sei un nichilista, tu non credi in nulla”. Ma dire che le istituzioni democratiche devono essere relativiste significa che devono sostanzialmente rispettare una posizione di neutralità tra le posizioni sostanziali che vivono nella società in modo che tutte possano vivere e possano espandersi» [4]. Ma questo non preoccupa più di tanto. Nella società della comunicazione e dello spettacolo, nella società postmoderna, l’effetto prodotto da un enunciato è più importante del suo valore di verità: un paradosso che non sembra essere colto dagli spuntati avversatori del cosiddetto nichilismo postmoderno.

In parallelo con la campagna di denuncia dei mali della modernità — «dove siamo andati a finire, signora mia!» — procede la campagna sull’emergenza educativa. Nella quale si distinguono, per la violenza con cui, sgomitando, si affacciano sulla scena, i catastrofisti.
Ne è un esempio Giorgio Israel, che in una impressionante serie di interventi su quasi tutti i quotidiani in qualche modo rappresentati nell’Appello per l’Educazione reitera sempre gli stessi concetti. Il principale dei quali è l’estensione dell’emergenza educativa all’intero Novecento: la crisi dell’educazione, infatti, è il prodotto di una distorsione pedagogica che parte da John Dewey e Jean Piaget, per arrivare, ai giorni nostri, a Morin, ai teorici della “complessità” e del concetto di “sistema” (concetti che per Israel sono come il famoso punto G: non riuscendo a trovarli perché non li capisce, ne nega l’esistenza), attraverso la pedagogia sovietica, don Milani e l’attuale riforma educativa del governo Zapatero.
Questa ricostruzione ricorda certe deliranti teorie del complotto, che costituiscono la migliore confutazione empirica della pseudo-teoria della creazione mediante un disegno intelligente: come quella che vuole Aldo Moro consegnato dalle Brigate Rosse a una Loggia Massonica segreta al cui vertice (cioè al 51mo grado, da cui Grado-LI) ci sarebbe stato il Maître du Glaive (=il Signore del Gladio), con annessi cavalieri dell’Ordine di Malta, Rosa-Croce e via delirando [5]; o consimili deliri neo-nazisti sul complotto giudo-massonico che avrebbe per sede non più i sotterranei della Banca di Londra, ma il MIT di Boston; o infine, una qualunque puntata del programma televisivo Voyager. Basterà osservare che su Dewey e Piaget sono stati costruiti i sistemi scolastici di un secolo intero, e che se la tesi di Israel avesse una parvenza di verità la catastrofe educativa avrebbe dovuto travolgere l’intero sistema occidentale di istruzione.
Accanto al professor Israel, come non notare Mario Giordano, col suo libro just in time sulla scuola 5 in condotta, che attinge copiosamente a La fabbrica degli ignoranti di Giovanni Floris (il conduttore di Ballarò) [6], e condivide con quest’ultimo la bufala del numero di bidelli che sarebbe superiore a quello dei carabinieri?

Un vecchio trucco retorico, nella gestione delle dispute pubbliche, è di far affiorare una posizione apparentemente radicale per poterne assumere i contenuti fingendosi portatori di una tesi moderata, o quantomeno misurata. E infatti, accanto agli sciabolatori senza briglie, viene a costituirsi poco a poco una posizione che ingloba l’Appello per l’Educazione, magari senza esplicitarlo, e reitera il tema dell’emergenza educativa in forme più accurate, e a un più alto livello. Se ne fa carico, in modo esplicito, Joseph Ratzinger il 29 maggio 2008 [qui]:
«In Italia, come in molti altri Paesi, è fortemente avvertita quella che possiamo definire una vera e propria “emergenza educativa”. Quando, infatti, in una società e in una cultura segnate da un relativismo pervasivo e non di rado aggressivo, sembrano venir meno le certezze basilari, i valori e le speranze che danno un senso alla vita, si diffonde facilmente, tra i genitori come tra gli insegnanti, la tentazione di rinunciare al proprio compito, e ancor prima il rischio di non comprendere più quale sia il proprio ruolo e la propria missione. Così i fanciulli, gli adolescenti e i giovani, pur circondati da molte attenzioni e tenuti forse eccessivamente al riparo dalle prove e dalle difficoltà della vita, si sentono alla fine lasciati soli davanti alle grandi domande che nascono inevitabilmente dentro di loro, come davanti alle attese e alle sfide che sentono incombere sul loro futuro. Per noi Vescovi, per i nostri sacerdoti, per i catechisti e per l’intera comunità cristiana l’emergenza educativa assume un volto ben preciso: quello della trasmissione della fede alle nuove generazioni. Anche qui, in certo senso specialmente qui, dobbiamo fare i conti con gli ostacoli frapposti dal relativismo, da una cultura che mette Dio tra parentesi e che scoraggia ogni scelta davvero impegnativa e in particolare le scelte definitive, per privilegiare invece, nei diversi ambiti della vita, l’affermazione di se stessi e le soddisfazioni immediate».

Tracciata la direttrice, è Camillo Ruini a indicarne in modo più accurato gli sviluppi, con la Lectio Magistralis «La questione dell’educazione al tempo del relativismo» (tenuta il 2 febbraio 2009, e pubblicata il giorno successivo su L’Osservatore Romano: qui): la premessa a La sfida educativa, non a caso citata nell’Introduzione. ruini01.jpgSostiene Ruini che l’«educazione autentica» sarebbe minata alla base da tre aspetti della cultura contemporanea: accanto alla dittatura del relativismo e al nichilismo, il «”naturalismo”, o più esattamente riconduzione e riduzione dell’uomo a un elemento della natura: […] la tendenza a considerare l’uomo “soltanto una particella della natura”. Oggi il rischio è molto aumentato, perché sta diventando egemone l’idea che il soggetto umano non sia altro che un risultato dell’evoluzione cosmica e biologica: certamente il suo risultato più alto, almeno per ora e nella piccola porzione dell’universo da noi meglio conosciuta, ma pur sempre un risultato omogeneo a tutti gli altri, in particolare agli animali superiori a noi più vicini nelle linee evolutive. In questa ottica i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l’intelligenza e la libertà, non vengono certo negati, ma considerati semplicemente sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi progressivamente».
Accanto al rigetto di ogni concezione dell’umano e del suo posto del mondo che non presupponga una Verità già data, viene insinuato il sospetto su ogni concezione scientifica del mondo. Non a caso La sfida educativa, a proposito dell’educazione alle «scienze della natura» (si noti quel “della natura”, che sottintende l’esistenza di un’altra scienza, non della ma al di là della natura, alla quale la prima sarebbe logicamente subordinata), sostiene che «già la semplice presentazione delle principali teorie scientifiche pone la questione della loro “verità”, della corrispondenza delle loro affermazioni con una “realtà” che non dipende da noi». L’apprendimento critico del sapere scientifico dovrà quindi aver cura di «distinguere le affermazioni scientifiche da quelle che scientifiche non sono. Si potrà così avviare i giovani a distinguere le diverse forme di accertamento della verità [corsivo mio]» [p. 55].
Chi ha orecchie per intendere intende, o intenderà.
O farà meglio ad intendere.

NOTE

[1] Umberto Eco, «Da Pathmos a Salamanca», in Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964, pp. 367-371.
[2] Luigi Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005.
[3] Mi permetto di citarmi: «È noto che su questa espressione, ottenuta unendo due parole che scritte l’una dietro l’altra non significano alcunché, Ratzinger ha scritto un libello a quattro mani con Marcello Pera — un episodio inquietante, che dimostra come si possano occupare cattedre universitarie senza alcuna seria verifica sulla scientificità della produzione dei cattedratici. “Dittatura del relativismo” è, dal punto di vista logico, una fallacia bella e buona, ottenuta confondendo i livelli di denotazione delle parole usate: è come dire che la democrazia non è democratica perché non ammette la dittatura (come infatti affermava il cattolico tedesco Carl Schmitt). Ma non è necessario ricorrere alla teoria dei tipi per confutare il PeRatzinger, questa strana bestia filosofica, metà cardinale e metà vegetale: basta, di Bertrand Russell qualche pagina più accessibile. Ad esempio questa: «A un certo tipo di persone piace moltissimo ripetere “tutto è relativo”. Si tratta naturalmente di una sciocchezza, perché se tutto fosse relativo non ci sarebbe più nulla con cui stare in relazione»
Ciò che in logica si presenta come fallacia, in un’analisi del linguaggio comune quale quella proposta da Harry G. Frankfurt è una stronzata, cioè un discorso né vero né falso, che cioè non presenta alcun interesse per (affermare o negare) la verità: «mai dire una bugia quando puoi cavartela a forza di stronzate». Sennonché, se dal punto di vista puramente logico una stronzata resta tale anche se detta da un cattedratico, un cardinale o un papa — tutt’al più sono questi a divenire “dicitori di stronzate” —, dal punto di vista del rapporto tra linguaggio e mondo il ruolo e l’autorevolezza dell’enunciatore contribuiscono nella prassi a costituire il valore dell’enunciazione. Accade così che la “dittatura del relativismo”, autorevolmente enunciata, avvolga nelle sue nebbie logico-argomentative la sostanza della questione, occultando la posta in palio e dando l’impressione che l’alternativa sia tra un mondo privo di valori (il relativismo) e l’unica alternativa costituita dai valori naturali» [Si deus est, unde Ratzinger? — I parte: qui].
[4] Gustavo Zagrebelsky, «Laicità. Pericolosi Non Possumus», l’Unità 23 marzo 2007 [qui].
[5] Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, Il misterioso intermediario. Igor Markevic e il caso Moro, Einaudi, Torino 2003.
[6] Mario Giordano, 5 in condotta. Tutto quello che bisogna sapere sul disastro della scuola, Mondadori, Milano 2009; Giovanni Floris, La fabbrica degli ignoranti. La disfatta della scuola italiana, Rizzoli, Milano 2008.