di Marilù Oliva

Grazia VerasaniDiTutti.jpgGraziaVerasani.jpgGrazia Verasani ha appena pubblicato per Kowalski Di tutti e di nessuno (1), quello che lei stessa definisce “il Cantini 3”, ovvero il terzo volume (dopo Quo vadis, Baby? e Velocemente da nessuna parte) che vede come investigatrice la quarantenne Giorgia Cantini, creatura letteraria ma anche cinematografica, dopo la trasposizione filmica di Gabriele Salvatores. Oltre le incertezze dell’ esistenza, oltre i chiaroscuri di una città che sfuma dal passato e dall’altrove all’hic et nunc, Bologna si staglia con le sue vie, con i suoi sapori invitanti, con le sue trappole nascoste dietro al pregiudizio, con le sue donne che tornano e che, a volte, non riescono a fuggire.

Il tuo ultimo romanzo, Di tutti e di nessuno è ambientato a Bologna sotto l’egida del tuo personaggio letterario, l’investigatrice privata Giorgia Cantini, si apre con il ritrovamento, in un giardino pubblico, del cadavere di Franca Palmieri. La Cantini conosceva la donna dai tempi dell’adolescenza: si trattava di una donna disponibile, una Bocca di Rosa di quartiere, solitaria, accessibile ai ragazzini della zona. Perfino ai più bruttini e sbandati, ecco perché la chiamavano la “Ragazza dei rospi”. C’è una forte discrasia tra quello che lei offriva e il trattamento sociale e pubblico che le veniva riservato. Penso, ad esempio, al momento in cui viene descritta la sua partenza. Chissà perché mi è venuto in mente il confronto con la canzone di De Andrè, in cui, alla fine, gli addii si esibiscono perfino in un cartello sdolcinato: “Addio Bocca di Rosa, con te se ne parte la primavera”. La partenza di Franca Palmieri, invece, è una totale denigrazione sia a livello di insulti che di oltraggi. Nessuno mostra un barlume di riconoscenza e proprio quelli che hanno ricevuto senza che lei chiedesse nulla in cambio sono pronti a scagliarvisi. La fine di Bocca di Rosa di De Andrè è più romantica, ma quella della Ragazza dei Rospi è senza dubbio più realistica, sei d’accordo?

Sì, certamente. Perché la realtà, spesso e volentieri, è nuda e cruda. Spetta agli artisti, agli scrittori, io credo, estrapolarne una poetica di fondo, per esprimere — attraverso simboli e metafore — il suo senso più profondo. Resta il fatto che una donna che racconta un’altra donna ha, secondo me, più libertà di pensiero, è cioè meno condizionata da una mentalità che affligge molti uomini, rendendoli ancora inclini a suddividere le donne in categorie manichee. Per il personaggio di Franca, “la Ragazza dei rospi” mi sono ispirata a una persona vera, conosciuta quand’ero adolescente. Frequentavo i muretti e l’American bar del mio quartiere in anni dove si parlava di eurocomunismo, dove si faceva volantinaggio davanti alle Coop e si pelavano patate per feste dell’Unità nei cortili di piccole sezioni del P.C.I. Come tutte le quindicenni cresciute in famiglie tesserate, figlie di ex partigiani, cambiare il mondo era la priorità. Le mie fedi erano due: l’amore e il comunismo. Ma la lotta era soprattutto farsi rispettare dai maschi, dimostrare di essere in gamba, di avere letto anche più libri di loro, di essere — insomma — sullo stesso piano. Cosa non facile… Era una sfida affascinante, più vinta che persa, anche se certi luoghi comuni erano inamovibili. Diciamo che per conquistare la stima dei maschi ero costretta a mettermi continuamente alla prova, e che avere un aspetto piacevole era uno scoglio in più da affrontare. Ma, tutto sommato, c’era dialettica. E le mie più grandi amicizie sono state con uomini. Poi c’era Franca (che nella realtà aveva un altro nome), una trentenne che andava coi ragazzini, semiconsapevole di esserne usata e di rappresentare un’anomalia, una “macchia” che turbava e offendeva quel “sano” moralismo che dettava le sue regole: le brave ragazze da un lato, da tenere per mano e farci l’amore, e le spregiudicate “pitturate”, scollate, disponibili sessualmente dall’altro, con le quali intrattenersi di nascosto, quasi con vergogna. Era la fine degli anni ’70 inizio ’80… Cosa è cambiato?

Questo è un libro che, nonostante non tratti esclusivamente di donne, si può definire un tributo all’altra metà del cielo. Donne combattive, donne fragili, donne annichilite, donne risolute, donne violate o donne piene di aspettative per un lavoro da apprendista. Qual è l’atteggiamento della Cantini nei confronti delle donne sconfitte?

É quello che ho io, che con la Cantini ho parecchio in comune, soprattutto la generazione di cui fa parte. Ho da sempre un amore viscerale (dovuto anche a esperienze che mi hanno “segnata” nella prima giovinezza) per tutte quelle donne diverse, “irregolari”, ribelli nei confronti del conformismo imperante. É un amore anche letterario, ma non c’è dubbio che le donne che prediligo sono complesse e fanno spesso scelte controcorrente. Mi piace raccontare di donne che sfuggono al controllo di uomini dominanti, o di donne che non hanno trovato il senso della vita sposandosi e facendo figli; donne che sono forti perché sanno ammettere le proprie debolezze, o donne che non riescono ad amarsi; donne che non usano l’aggressività come forma di riscatto, e donne che possono “ammazzarti” con una risata. Donne vere, reali, contraddittorie, ma mai sconfitte. Nel senso che, anche quando hanno il mondo contro, usano l’ironia e la sensibilità per bilanciare le relazioni tra i sessi. A meno che, come nel caso di Di tutti e di nessuno, non insorgano violenze — fisiche e psicologiche — che le fanno arrabbiare, inducendole a reagire, a guardare negli occhi il loro nemico e a difendersene. Cosa che purtroppo non succede a Franca, vittima consenziente di una deriva maschilista dalla quale è troppo tardi per salvarsi.

Il tempo sovrasta i confini usuali, con rapidi ma intensi voli narrativi tra passato e presente, flashback dal sapore di una fotografia. La malinconia che a volte cattura il lettore getta un’ombra sul ricordo. É voluta o inevitabile?

Inevitabile. Per me, la letteratura è un lento ruotare del collo e delle spalle, è approfondire il passato per tentare di fare luce sul presente. Ma mi interessa anche la realtà, il qui e ora, se no non scriverei dei noir… La memoria è un’inesauribile fonte di ispirazione: l’importante è trarre da quella materia confusa che sono i ricordi, immagini e indizi che siano anche “testimonianze di verità”.

Uno dei temi affrontati in questo romanzo è quello della violenza sulle donne e, per avere una credibilità sociologica, ti sei documentata presso la Casa delle Donne di Bologna. C’è qualcosa che, da questi incontri, hai scoperto e non immaginavi?

Ho scoperto la moltitudine, e la varietà, delle donne che hanno bisogno di aiuto e che si rivolgono ad altre donne per ritrovare fiducia in se stesse, attraverso un lungo e delicato processo di recupero. Le operatrici che lavorano alla Casa delle Donne non hanno tempo da perdere, sono professioniste sul campo, dalla mattina alla sera, a costante disposizione delle altre. Non si appellano alla retorica di un vetero-femminismo “urlato”. Sono donne che invece di lamentarsi si rimboccano le maniche. Conoscono perfettamente i problemi della società, ma il loro modo di combatterli è farsi carico del dolore altrui trovando strumenti “pratici” per curarlo e risarcirlo.

C’è qualcosa invece, che immaginavi e di cui hai avuto la conferma, qualcosa che tendenzialmente si passa sotto silenzio?

Il berlusconismo ha fatto della televisione l’unica realtà riconosciuta dalla maggioranza di questo paese. L’arroganza del potere machista, camuffato da galanteria d’altri tempi, è corrosivo e ingiurioso per tutte quelle donne i cui meriti vengono scavalcati da chi si fa connivente di un regresso culturale di cui la sinistra non riesce, ahimè, a essere antagonista. Io non credo che le donne debbano andare in piazza, e non credo che abbia molto senso parlare di neo o post femminismo. Penso che sia l’identità umana (maschile e femminile) a dover essere ridiscussa. Quello che passa sotto silenzio è che ci sono moltissime donne che dedicano il loro tempo agli altri, passando sopra a interessi e rabbie personali. Moltissime donne preparate come e più degli uomini negli ambiti più svariati, “eccellenze” che non badano alla visibilità o a un plauso plateale ma portano avanti con passione battaglie che riguardano tutti. Donne che non trovi quasi mai sulla carta stampata, piena com’è di parlamentari ex veline o di escort d’assalto, di corpi femminili “pubblicitari” o “preserali” addirittura più volgari di un film porno. Donne che non si fanno abbattere il morale dal silenzio in cui vengono confinate, ma non scendono nemmeno a patti col rumore.

Se tu dovessi spiegare ai posteri cosa implica essere donna nella nostra epoca, cosa diresti?

Significa, oltre a tutte le cose che ho già espresso, muoversi in una realtà sempre più complicata con l’ostinazione di chi replica con l’intelligenza a qualunque manifestazione di idiozia. Significa stimolare le nuove generazioni a essere disubbidienti rispetto alla (sotto)cultura dominante, per costruire un mondo in cui, per quanto diversi, uomini e donne siano esseri umani e basta.

E se dovessi aggiungere una postilla sull’utilizzo mediatico oggi della figura femminile?

Trent’anni di tv commerciale hanno ridotto le donne a oggetti di consumo di un erotismo mercaticcio e avvilente, da sagra di paese, inoculando negli uomini che più risentono di “ansie da prestazione” una sotterranea frustrazione (che diventa rancore) in cui si plaudono le performance sessuali di un politico come a un concerto di Franco Califano. Le ragazze di Palazzo Grazioli, come moderne Mata Hari provviste di registratore, ci hanno dimostrato la ricattabilità (e quindi la vulnerabilità) del potere (e i rischi che potrebbe correre il paese). Ma sono loro le prime complici a delinquere di uno squallore che le trasforma da “sgualdrine impenitenti” a star delle inaugurazioni di centri commerciali. Ecco, credo che madri, padri, insegnanti, debbano spiegare a ragazze/i che ingannare la propria coscienza con furbizie d’alcova è il più grande autogol a cui può prestarsi una donna (e anche un uomo)… dal momento che vendersi è vendersi, anche se lo fai alla luce del sole.

Si può dire che è un circolo vizioso, ovvero che l’inadeguatezza degli uomini contribuisca all’insicurezza delle donne?

Ho conosciuto uomini, soprattutto nel lavoro, incapaci di concepire il rapporto uomo/donna come uno scambio alla pari. Uomini che, se accusati di misoginia, ti dicono che non conoscono il significato della parola e amano le donne alla follia (certo, a patto che siano belle, e sottomesse ai loro “superiori”). Non è raro che a una donna carina e intelligente si associ una “tendenza lesbica”, o che si dica “è un uomo mancato”. La cosa preoccupante è che tutto ciò riguarda anche una parte di uomini “illuminati”. Credo che questi pregiudizi si possano controbattere con un’informazione alternativa, oltre che in famiglia e nelle scuole, partendo dalle nuove generazioni… Credo che gli uomini debbano ritrovare la maniera di “proteggere” le donne in un momento in cui le vessazioni contro un sesso si ritorcono inevitabilmente anche contro l’altro. E credo che le donne debbano solidarizzare maggiormente tra loro, evitando di ricalcare compiaciuti modelli maschili.

A pagina 58 fai dire a Johnny Riva, vicino di casa della Cantini: «Ci sono troppe donne, sulla terra, e mi intenerisco a vederle andare in crisi per la forza di gravità. Sono così insicure. É quando la bellezza sfiorisce che comincia il fascino, le rassicuro.» Mi servo del tuo nome per azzardare un’espressione metaforica: è come se le donne non avessero grazia nel rapportarsi a se stesse. Ti chiedo di approfondire il divario tra insicurezza femminile e inconsapevolezza del fascino.

Conosco donne mature, plurilaureate, che fanno continue iniezioni di botulino. Un altro autogol. Più la società ci vuole giovani e desiderabili, più ci acclimatiamo a una richiesta di mercato dove apparire al meglio è garanzia di “essere amate”. Che errore… Ma io confido molto nell’intelligenza maschile, di quella che sceglie compagne coetanee, che preferisce la personalità (il fascino) a una levigatezza (finta o autentica che sia) senza carattere. Nell’antichità, le strade si chiamavano “rughe”. Non è meraviglioso? In quest’immagine c’è tutto l’attraversamento, il transito, di chi ha camminato, generazione dopo generazione, sulla terra. E la dolcezza di invecchiare come vicoli e pietre di una città che ne ha viste tante…

Cosa secondo te, magari a livello di iniziativa sociale o di educazione, potrebbe modificare questa proiezione nella dimensione-apparenza della categoria femminile?

In primo luogo, la critica e il dissenso. Esercitare un antagonismo, un’opposizione efficace, capillare, energica, altruistica, verso tutto ciò che tende a far retrocedere il progresso sociale, rieducare al valore della vera bellezza, comprendere che la felicità non è rimuovere i problemi attraverso una manipolazione mediatica “barzellettaia”, che l’ottimismo non è uno spot per creduloni da superenalotto, che il sesso (anche quello mercenario) non è scevro dal rispetto di se stessi e dell’altro, che i sentimenti non sono cose che si comprano come nella pubblicità degli orologi, che leggere libri è vivere meglio, e così andare al cinema, a teatro e ai concerti. Che la cultura non è sinonimo di noia, e che precede la politica, non ne è a ruota (come diceva Pavese). Che gli intellettuali devono tornare a essere “utili”. Che la meritocrazia non è solo una parola per farsi belli nei comizi. Che l’ingiustizia che tocca uno tocca tutti. E poi, per tornare all’argomento di cui parla Di tutti e di nessuno: che è vergognoso fare parte di un mondo dove una tredicenne di nome Carmela, stuprata senza essere creduta, si toglie la vita… — e vergognoso, anche, sentirne parlare alla tv come di un corpo, una vittima tra le tante, e non come di una persona…

1) Grazia Verasani, Di tutti e di nessuno, Kowalski, 2009, pp. 237, € 15,00.