di Carlo Loiodice

Bandiere2.jpgAl mondo ci sono oggi circa 200 stati. Ciascuno ha un inno (1) e una bandiera. Inni e bandiere hanno origini militari. Cantando gli inni, i soldati segnavano il passo nel marciare dietro il vessillo del reggimento di appartenenza. I contenuti erano ovviamente violenti poiché incitavano alla guerra. È nel XVIII secolo che, senza mutare l’impianto militaresco e autoincensante, si cominciano a produrre inni con un contenuto politico.
Nel 1745 in Inghilterra fu suonato per la prima volta «God save the king» (2). Quello fu l’anno dell’ultimo e infruttuoso tentativo dei cattolici Stuart di riconquistare la corona, e in quel caso la scelta di God del re da salvare fu netta e irrevocabile.
Il francese «Chant de guerre pour l’armée du Rhin» fu composto da Claude Joseph Rouget de Lisle a Strasburgo nella notte fra il 25 e il 26 aprile 1792. Doveva trascinare alla battaglia i soldati della rivoluzione; battaglia che essi avrebbero poi vinto il 20 settembre 1793 a Valmy. Sto parlando della «Marsigliese», così ribattezzata per essere stata cantata da un battaglione di volontari provenienti da Marsiglia al loro ingresso in Parigi.

Agli anni ’40 del XIX secolo risalgono due canzoni che solo in seguito furono adottate come inni nazionali: «Deutschland über alles» (scritta da Heinrich Hoffmann von Fallersleben su un’aria di Franz Joseph Haydn (3)) e «Il canto degli italiani», più noto con il suo incipit «Fratelli d’Italia» (testo del garibaldino Goffredo Mameli e musica di Michele Novaro).
C’è un primo elemento che accomuna i due inni: Fallersleben e Mameli erano entrambi patrioti e democratici. Per entrambi il problema principale era la divisione della nazione. Quando Fallersleben metteva la Germania — Deutschland — al di sopra di tutto — uber alles — si riferiva senza alcun dubbio agli stati e staterelli che ne frammentavano l’unità. Qualcosa di simile pensava Mameli quando scriveva: «Noi siamo da secoli / Calpesti, derisi / Perché non siam Popolo / Perché siam divisi».
L’ispirazione democratica, non tanto dei testi in sé quanto degli autori, fece sì che entrambi gli inni fossero visti con sospetto, quando non si tentò esplicitamente di vietarne l’esecuzione, dal re di Prussia e da Carlo Alberto (4). E si dovette attendere la repubblica di Weimar in Germania, e la fine del fascismo e della monarchia in Italia perché i due canti divenissero, pur con differente percorso, gli inni dei due stati.
In realtà nell’inno di Mameli mancano termini come ‘libertà’ o ‘giustizia’, presenti nel testo di Fallersleben:
«Einigkeit und Recht und Freiheit / sind des Glückes Unterpfand».
(Unità, giustizia e libertà / sono la garanzia della felicità).
Nell’intero inno tedesco peraltro non è difficile leggere in nuce quelle metamorfosi semantiche e concettuali che, da un nazionalismo di emancipazione e riscatto (1848), condurranno a un nazionalismo razzista e genocida (1933-45):
«Deutsche Frauen, deutsche Treue, deutscher Wein und deutscher Sang»
(Donne tedesche, fedeltà tedesca, vino tedesco e canto tedesco).
Il buon Mameli avrebbe potuto far ricorso al motto contadino «Mogli e buoi dei paesi tuoi», ma con questo avrebbe provocato una frana semantica che si sarebbe trascinata dietro tutte le glorie nazionali poeticamente assemblate da Ugo Foscolo nei «Sepolcri» o storicamente rievocate dagli intellettuali romantici italiani in drammi e romanzi che oggi nessuno legge più.
Non dobbiamo dimenticare che l’idea italiana di «Risorgimento» si fonda sulla memoria di una vagheggiata grandezza passata, quella dell’antica Roma, da riportare in vita dopo che, per secoli, spiriti forti (Dante, Petrarca, Machiavelli, Galileo, Alfieri) e genti indomite (i comuni lombardi e toscani, il popolo siciliano dei Vespri) ne avevano tenuta accesa la fiammella.
Il neoclassicismo settecentesco aveva fornito ottimi paradigmi al linguaggio rivoluzionario (Bruto che uccide il tiranno). Ma «la Marsigliese» chiama alle armi i cittadini invitandoli a formare «battaglioni» (termine moderno) per sconfiggere «coorti» e «falangi» (termini antichi) di tiranni e invasori.
La coorte invece piace a Mameli come unità militare in cui inquadrare i patrioti. Magari poi era solo un problema di rima: «Stringiamci a coorte / siam pronti alla morte». Ma intanto, per far rima, il nostro inno in ciò suona falso. Nel paese dell’«Armiamoci e partite» o del «Vai avanti tu che a me mi scappa da ridere», si proclama una prontezza all’estremo sacrificio che manca negli altri inni citati.
Nell’inno inglese un’idea implicita di morte sta nella seconda strofa, in cui s’invita il Signore a disperdere e far cadere i nemici del re:

« O Lord our God, arise,
Scatter his [her] enemies
And make them fall».

Nell’inno tedesco, seconda strofa, si parla di «nobili gesta» (Uns zu edler Tat begeistern), ma nulla di più esplicito.
Nella «Marsigliese» ci si rimette alla fatalità: «S’ils tombent, nos jeunes héros,/ La terre en produit de nouveaux»
(Se muoiono, i nostri giovani eroi, /La terra ne produrrà dei nuovi).
Che Goffredo Mameli fosse convinto di ciò che scriveva, può essere testimoniato dal suo stesso destino: morì nel 1849 difendendo la Repubblica Romana, il più laico dei tentativi risorgimentali, anche se il suo animatore, Giuseppe Mazzini, è autore di uno dei più infausti motti della nostra storia : «Dio, patria e famiglia».
Nel 1861 fu proclamato il Regno d’Italia. Si presti attenzione alle “convergenze parallele”! Il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele, portava l’ordinale II, allo scopo di non interrompere la continuità dinastica con il regno precedente. Come colori della bandiera, vennero scelti quelli di uno stendardo repubblicano (Repubblica Cispadana, Reggio-Emilia 1797), mutando il verso della banda da orizzontale in verticale. L’inno rimase «La marcia reale», composto da Giuseppe Gabetti nel 1831 (l’anno di Ciro Menotti) su commissione di quel Carlo Alberto che i patrioti chiamarono «re tentenna», tali erano le sue oscillazioni politiche tra liberalismo e conservazione.
Ad avviso di chi scrive, «La marcia reale», musicalmente, non è da buttar via: vi si sente un po’ di Rossini e un po’ di corte viennese. In compenso le parole sono veramente orribili!

«Evviva il Re ! Evviva il Re ! Evviva il Re !
Chinate o Reggimenti le Bandiere al nostro Re
La gloria e la fortuna dell’Italia con Lui è
Bei Fanti di Savoia gridate evviva il Re !
Chinate o Reggimenti le Bandiere al nostro Re !
Viva il Re ! Viva il Re ! Viva il Re !…»

Nei versi seguenti si sente l’atmosfera dei moti del ’31:
«gloria di nostra stirpe, segnal di libertà,
di libertà, di libertà, di libertà».
Possibile mai l’insistere sulla libertà mentre in Mameli la parola è assente?
Non è questo il luogo per approfondire lo svolgimento delle dinamiche egemomiche che si svilup-parono durante il processo risorgimentale. Sui limiti politico-culturali del giacobinismo prima e dell’azionismo poi, c’è una nutrita letteratura, da Vincenzo Cuoco ad Antonio Gramsci, per rimanere ai classici. Qui possiamo suggerire un confronto fra il testo della «Marcia reale» e quello di «Fratelli d’Italia».
Il primo vola decisamente basso: poche parole e concetti minimi, salvo una quartina di chiaro stampo manzoniano alla «5 maggio»:

«L’Alpe d’Italia libera,
dal bel parlare angelico,
piede d’odiato barbaro
giammai calpesterà».

Il secondo mette già in difficoltà il popolano che non sa di storia romana e che non realizza immediatamente il nesso con «l’elmo di Scipio». Abbiamo già citato il verso d’incitamento «Stringiamci a coorte». Ancor oggi — ma forse oggi a maggior ragione — c’è chi canta: «Stringiamoci a corte» (5), incongruente con l’idea di repubblica ma più coincidente con il dizionario di base dell’italiano comune.
Nel 1799 c’era stato a Napoli, ed era tragicamente fallito, il tentativo di instaurare una repubblica giacobina. In un suo famoso saggio Vincenzo Cuoco ne analizzò le cause, fra le quali individuava un serio problema di comunicazione interculturale — nei proclami e nelle disposizioni – fra una borghesia colta e un popolo illetterato. «”Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema”… Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua felicità?» Critica ancora pertinente a mezzo secolo di distanza.
L’inno di Mameli, in versione originale, consta di cinque strofe. Le prime tre sono di esortazione rispettivamente al risveglio, all’unità e all’amore. Le ultime due contengono la motivazione storica (la quarta) e quella politica (la quinta).
Ecco il testo della quarta strofa con le glosse tra parentesi.

Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano
,
[Battaglia combattuta nel 1176 fra i comuni lombardi e le truppe di Federico Barbarossa. Icona del riscatto nazionale ai tempi del Carducci, oggi è diventata, assieme a Pontida, icona del secessionismo bossiano]

Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano
,
[Francesco Ferrucci, al comando delle milizie fiorentine, fu sconfitto dall’esercito imperiale di Carlo V nel 1529. È stato a lungo celebre per la sua frase “Vile, tu uccidi un uomo morto!”, pronunciata all’indirizzo di Fabrizio Maramaldo, anch’egli italiano, ma militante in campo avverso (l’ossessione nazionalista per il traditore). Considerato esempio di orgoglio nazionale, oggi è praticamente di-menticato e nelle scuole non se ne fa più il nome.]

I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla
,
[Giovan Battista Perasso, detto Balilla — o più verosimilmente Baciccia – dovrebbe essere stato – se i documenti storici ne provassero definitivamente l’esistenza – un ragazzino che nel 1746 tirò un sasso all’indirizzo delle truppe austriache che occupavano Genova. Un precursore dell’Intifada, insomma. Peccato che i fascisti si siano impadroniti del suo mito per rovinare una generazione di ragazzi.]

Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò
.
[La vicenda in seguito alla quale nel 1282 la Sicilia si staccò dal regno angioino di Napoli per passare a Federico III di Aragona. Dei vespri siciliani si vantano in troppi:
a) I nazionalisti, che avranno anche ragione nell’approvare la rivolta al giogo straniero, ma non certo nell’apprezzare la conclusione di quella vicenda: la Sicilia passò dal padrone angioino al padrone aragonese.
b) I mafiosi che vi vedono un segno della latente scintilla dell’indipendentismo siciliano.
c) L’Antimafia, che in codice ha chiamato “Vespri siciliani” una famosa azione di polizia, protrattasi dal luglio 1992 al luglio 1998 con la partecipazione dell’esercito.]

Quando Mameli e Novaro fecero conoscere il loro inno, Vincenzo Cuoco era morto da circa un quarto di secolo; ma fa meraviglia che non si sia sentita riecheggiare la sua domanda: « Era obbligato il popolo a saper la storia medievale e moderna per conoscere la sua felicità?»
In effetti, dati i livelli di analfabetismo di allora, direi che si fa il paio con l’elmo di Scipio. Ma anche a livelli di istruzione un po’ più elevata, si fa fatica a recepire senza traumi la quinta strofa:

«Son giunchi che piegano
Le spade vendute
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute
Il sangue d’Italia
E il sangue polacco
Bevé col cosacco
Ma il cor le bruciò».

Sperimentalismo linguistico? Non saprei. Il problema non si pone, tanto poche sono le volte che questa quinta strofa dev’esser stata cantata… E comunque cinque strofe sono decisamente troppe per chi nelle cerimonie deve rimanere sull’attenti. E visto che anche la quarta era un tantino compromettente per via del riferimento al Balilla, via anche quella… Un taglio dopo l’altro, arriviamo al cerimoniale ufficiale oggi in vigore, per il quale di «Fratelli d’Italia» va suonata la sola prima strofa.
E torniamo al parallelismo con l’inno tedesco. In quanto alla prima strofa (quella preferita dai nazisti), occupato e smembrato il territorio del Reich, non si poteva più parlare di una patria « Dalla Mosa fino alla Memel, dall’Adige fino al Belt». La seconda, quella delle donne tedesche e del vino tedesco, appariva alquanto etnica e sessista. Di qui la decisione di mantenere l’inno con quel titolo, ma utilizzando solo la terza strofa, quella che parla di giustizia, di libertà e di obiettivi da raggiungere con il lavoro comune.

Quando scrivere un inno? Quando modificarlo? È evidente che inno e bandiera fanno riferimento a momenti fondativi. Affermazione che tuttavia può indurci in errore. Potremmo infatti pensare inno e bandiera come elementi immodificabili. La storia smentisce questa convinzione. Abbiamo già visto come l’inno inglese «God save the king» fu composto nel 1745, quando già da secoli ci sarebbero stati re d’Inghilterra da salvare.
Gli Stati Uniti d’America dichiararono l’indipendenza dalla madrepatria inglese nel 1776. «The Star-Spangled Banner» fu scritta nel 1814 dall’avvocato Francis Scott Key. Sarebbe divenuta l’inno ufficiale statunitense con decisione del Congresso del 3 marzo 1931 (6). Come abbiano potuto gli USA rimanere per 155 anni senza un inno ufficiale è cosa che un giurista formalista nostrano difficilmente riesce a capire. Ma evidentemente si può, e non muore nessuno…
Lutti e stragi sono invece legati alla storia della «Marsigliese». Composta nelle circostanze che sappiamo, divenne «chant de la république» nel 1795, quando ormai, caduto Robespierre e affermatosi il Direttorio, la rivoluzione si avviava a ben diverse modalità. Ovvio che «La Marsigliese» non avrebbe potuto rappresentare né l’impero di Bonaparte né tantomeno la restaurazione borbonica. Tornò in auge dopo la rivoluzione del luglio 1830, ma solo nel 1879 il presidente Jules Brévy ne fece l’inno della repubblica; e come tale lo sanziona il II articolo della costituzione francese attualmente in vigore.
Niente sull’inno si trova invece nella Carta Costituzionale italiana. L’art. 12 dice: « La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni», e niente di più. In effetti, caduta la monarchia con il referendum del 2 giugno 1946, la Marcia reale smetteva di essere razionale. Sicuramente un popolo che si era vittoriosamente ribellato alla dittatura aveva o avrebbe saputo produrre un canto che ne rappresentasse lo spirito. «Bella ciao»? Oggi parrà strano; ma allora questa canzone era praticamente sconosciuta e il suo successo, fino a diventare icona della Resistenza, appartiene ad anni successivi. Si trattava dunque di riandare alle vecchie glorie risorgimentali mai dimenticate in realtà. In pole position balzarono immediatamente «Fratelli d’Italia» di Mameli e Novaro, e «L’inno di Garibaldi» di Mercantini e Olivieri. L’orientamento re-pubblicano dei testi e degli autori non permetteva uno scontro nel merito. E il dibattito si trasportò sul piano estetico. Uno dei protagonisti fu il grande musicologo Massimo Mila, che intervenne su L’Unità del 16 giugno 1946 nei termini che seguono.
«La Repubblica Italiana il suo inno ce l’ha già, ed è l’Inno di Garibaldi […]. Prima di tutto perché è piuttosto bello ed ha un’onda melodica che trascina (a differenza dell’Inno di Mameli, che musicalmente è piuttosto una lagna, ed è teatrale ed artefatto). Poi perché tutti gli Italiani lo conoscono e lo amano, e ci induce a ricollegare, com’è ovvio, la nostra attuale rinascita all’epopea del Risorgimento; infine perché questa nostra repubblica è stata fatta largamente nel segno di Garibaldi, il quale […] ha quasi finito per sostituirsi a Mazzini come nume tutelare dell’idea repubblicana».

Il testo di Mercantini suona così:

«Si scopron le tombe, si levano i morti
i martiri nostri son tutti risorti!
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome,
la fiamma ed il nome d’Italia nel cor».

I versi, per alcuni critici come Augusto Monti, si prestavano all’accusa di «archeologia funeraria» (7), alla quale Mila così ribatte:

«Ma oggi qualcosa è cambiato, e credo che anche il mio maestro [Monti, n.d.r.] condivida i sentimenti espressi in quei versi: oggi possiamo cantarli senza vergogna, perché hanno un significato ben preciso. I nostri morti son bene la nostra forza, perché sono veramente nostri: non sono i compagni di Enea, o i guerrieri di Giulio Cesare, o altre venerabili anticaglie. Ce li siamo visti cadere al fianco, o meglio, davanti a noi. Non c’è da voltarsi indietro, questa volta, e da interrogare gli storici e i poeti per aver notizia dei nostri martiri. Sono stati sempre con noi, specialmente dal giorno in cui ci furono uccisi, ma oggi, veramente, sono tutti risorti, da Ginzburg a Rosselli, da Gramsci a Matteotti, da Giaime Pintor a Renzo Gina, da Gobetti all’ultimo partigiano che un’umile croce di legno ricorda sul margine di un campo di grano, e non ci chiedono conto di quel che abbiamo saputo fare sulle loro orme sanguinose, non ci ammoniscono e non ci rampognano, ma ci ringraziano di questo giorno». (8)

Non nego di aver provato una fortissima emozione nel leggere queste ultime righe di Mila; ma davvero non riesco a sentire come mie le parole di Mercantini; come quelle di Mameli del resto, delle quali il minimo che si può dire è che han fatto il loro tempo.
Nondimeno sono stato colpito da una delle motivazioni con cui Mila sostiene l’Inno di Garibaldi: «tutti gli Italiani lo conoscono e lo amano». Che coincidenza! Il 16 agosto scorso, Umberto Bossi ha comiziato: «Quando cantiamo il nostro inno, il Va pensiero, tutti lo cantano perché tutti conoscono le parole, non come quello italiano che nessuno conosce».
In effetti il coro verdiano era stato candidato di seconda fila come inno nazionale assieme ad «Addio mia bella addio» e alla «Leggenda del Piave», ma evidentemente nel 1946 il criterio della popolarità era stato trascurato. A scapito del «Va’ pensiero» pesano due argomenti: 1° il riferimento all’Italia è solo metaforico e poco pertinente risulta un saluto alle rive del Giordano e alle torri di Sionne; 2° il tempo di “sei ottavi” lo rende, sì, estremamente empatico, ma non si adatta alle esigenze marziali delle celebrazioni militari: nel ’45 era morto il fascismo, ma vivi restavano i suoi genitori: nazionalismo e militarismo.
Che fosse e sia molto noto è fuor di dubbio. Ma che si tratti di nozione profonda è piuttosto discutibile. Avendo riportato correttamente la citazione dal Corriere della sera, faccio notare una piccola ma significativa mancanza: una corretta grafia del titolo vorrebbe l’apostrofo (va’ pensiero) poiché si tratta della seconda persona dell’imperativo del verbo ‘andare’, non già della terza persona del presente indicativo. Qualcuno alla Lega lo sa per certo:. Ma a cercare, su Google, la grafia corretta non è in maggioranza. E ne desumo che, se il canto è noto, non lo è davvero il suo significato. Un test per chi voglia sperimentare dal vivo:

« O simìle di Solima ai fati
traggi un suono di crudo lamento,
o t’ispiri il Signore un concento
che ne infonda al patire virtù!»

Ditemi che nelle valli bergamasche o nella Marca Trevigiana ogni paesano saprebbe spiegare a suo figlio questa quartina, e io farò a piedi scalzi il percorso Bologna-Gerusalemme, o Felsina Solima che dir si voglia…
Una mia vaga sensazione è che i funzionari del MinCulPop leghista abbiano preso una sorta di abbaglio. Fissatisi su Verdi, come il maggiore dei genii musicali nati in riva al Po, han pensato automaticamente al «Va’ pensiero», quando il riferimento giusto sarebbe stato, caso mai, al coro de «I lombardi alla prima crociata». È lì che avrebbero trovato la quartina:

«Oh fresche aure volanti sui vaghi
ruscelletti dei prati lombardi!
Fonti eterne! Purissimi laghi!
Oh vigneti indorati di sole».

Lapsus dunque, o non piuttosto consapevole depistaggio? Infatti, accogliendo «O Signore dal tetto natio» come inno della Lega Lombarda o per esteso della Lega Nord, ci sarebbero state da dire due parole per spiegare la contraddizione: i lombardi che, nella crociata, combattono per il papa di Roma (ma non era ladrona?).

Citato Bossi e ricordati i gesti e le parole di dileggio da lui rivolti all’inno e alla bandiera nazionali, siamo nella fase presente. Negli anni ’90 la stampa cominciò a notare, in occasione dei campionati mondiali di calcio, l’atteggiamento svaccato dei nostri giocatori al suono dell’inno:

«Anche questa volta i giocatori della nazionale hanno tenuto la bocca chiusa: solo Francesco Moriero ha accennato qualche verso, mentre Gianluca Pagliuca, come al solito, ha fatto finta di cantare. Gli austriaci, invece, hanno cantato a squarciagola il loro inno nazionale» (Valeria Gandus, su Panorama del 2 luglio 1998).

Gianluca Pagliuca è in effetti quello che meglio ci rappresenta: quello che fa finta… E in effetti c’è da star contenti. Sarei molto più preoccupato se masse di italiani cantassero convinte la loro passione per le coorti e i loro propositi di dare e ricevere morte. E allora perché non proclamare alto e forte il desiderio di un inno che canti in modo non retorico la pace e l’accoglienza? (9) Del resto, nell’ultimo quarto del XX secolo, cantautori italiani avevano già prodotto tre canzoni che, con caratteristiche diverse di mentalità, si avvicinavano parecchio all’idea del nuovo inno. Mi riferisco a: «L’italiano» di Toto Cutugno, «La terra dei cachi» di Elio e le storie tese, e «Viva L’Italia» di Francesco De Gregori.
Come motivare quest’esito apparentemente frivolo per un lungo ragionamento che ha presunto di essere serio e impegnato? Innanzitutto perché rifiuto, come Augusto Monti nel ’46, ogni forma di archeologia funeraria; e poi, che io canti d’amore o di politica, vorrei esprimere genuinamente cose che sento davvero, per non essere costretto a far finta come il portiere Pagliuca.
In secondo luogo per tentare di scrollarmi di dosso la cappa di un certo storicismo, per il quale il passato vale sempre e comunque più del presente. Quando Mameli e Mercantini scrissero le loro canzoni, erano canzoni assolutamente contemporanee nel testo e nella musica. E davvero non si comprende perché nella nostra epoca non si debba poter fare altrettanto.
Rileggiamo i testi delle tre canzoni proposte e noteremo che:

– il testo di Cutugno — tipico autore sanremese – sarà manieristico e un po’ ruffiano; ma non più di quanto non apparisse “teatrale e artefatto” quello di Mameli nel 1946 a Massimo Mila;
– il testo di Elio, fatto di ironia, satira e sberleffo a gogo, fa oggi ciò che negli anni ’40 dell’Ot-tocento facevano — mutatis mutandis – le poesie di Giuseppe Giusti, autore purtroppo dimenticato;
– nel suo testo, Francesco De Gregori canta un’Italia a due facce, che è a mio avviso il modo più reale e condivisibile di rappresentarci: «l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare, / l’I-talia metà giardino e metà galera…» E conclude: «Viva l’Italia, l’Italia che resiste».

Consideriamo ora la musica:

– quella di Cutugno è la più adatta delle tre ad essere cantata da 30 mila persone allo stadio, per via della sua orecchiabilità e facilità ritmica;
– quella di Elio sembra camminare gioiosamente sulle acque del disastro, con uno humour che manca a tutti gli inni nazionali;
– la canzone di De Gregori non è in grado di trascinare ritmicamente le folle, ma la frase strumentale tra una strofa e l’altra, dal vivo, è assolutamente trascinante.

Il fatto straordinario è che, a partire dalla fine degli anni ’70, tre cantautori dalle caratteristiche diversissime abbiano sentito il desiderio di cantare l’Italia con modalità contemporanee, e ciò senza che nessuno glielo commissionasse o senza un concorso cui partecipare. Come se nell’aria ci fosse ancora qualcosa… Con buona pace di Galli Della Loggia e delle sue intemerate (10), il vero peccato è che in questo scorcio di XXI secolo, pian piano sembra venir meno non solo e non tanto l’idea di patria o di nazione, ma la voglia stessa di cantare.

NOTE

1) Timothy Garton Ash, Inni: le parole sbagliate che tormentano gli stati, su La Repubblica, 19 agosto 2008
2) La versione al femminile oggi in vigore — “God save the queen” — fu adattata nell’Ottocento per la regina Vittoria.
3) L’aria è esattamente la stessa sulla quale, fra il 1797 e il 1918, in Austria si è cantato l’Inno dell’imperatore, «Haydn hymne». Oggi gli austriaci cantano il «Bundeshymne» (inno federale), che adatta versi di Paula von Preradović alla musica di un inno massonico settecentesco attribuito da alcuni a Mozart e da altri al suo amico Johann Holzer.
4) Nel 1862 si tenne a Londra l’Esposizione Universale. Nell’occasione Giuseppe Verdi scrisse un «Inno delle nazioni» su parole di Arrigo Boito. La suite conteneva «God save the queen», «La marseillaise» e «Fratelli d’Italia». Nel 1862 solo il primo era inno ufficiale; gli altri due lo sarebbero diventati in futuro. Nel dicembre 1943 Arturo Toscanini, alla direzione della NBC Symphony Orchestra, registrò la suite aggiungendovi «L’internazionale», nel nuovo spirito della guerra antifascista.
5) Una ricerca su Google documenta la frequenza del fenomeno, che in verità viene anche denunciato e irriso.
6) Si noti la seguente sfumatura: l’inno inglese è dedicato al simbolo concreto della nazione, il re; gli inni francese, tedesco e italiano sono dedicati al simbolo astratto, la patria; l’inno statunitense sta a mezza strada, essendo la bandiera concreta nella sua fisicità e contemporaneamente astratta nella sua simbolicità. Fra i canti risorgimentali italiani c’è un inno garibaldino dedicato alla bandiera: «La bandiera tricolore è sempre stata la più bella / Noi vogliamo sempre quella noi vogliam la libertà», la cui strofetta più “militante” è questa: «E noi andremo a Roma santa per vedere il Campidoglio / pianteremo su quel soglio la bandiera tricolor».
7) Una certa attitudine funeraria di Mercantini traspare in effetti anche dall’altro suo testo famoso, la poesia dedicata a «La spigolatrice di Sapri», immaginata testimone dell’eroica morte di Carlo Pisacane e dei suoi uomini (Sapri 1857); il cui ritornello insiste: «Eran trecento, eran giovani e forti / e sono morti».
8) Mila rimase battuto, ma non in campo aperto. Il 17 agosto 2009, il giorno successivo all’ennesima esternazione bossia-na, un articolo dell’agenzia di stampa “Il velino” c’informava che nessun atto sancisce per legge quale sia l’inno nazionale italiano. Tra le interessanti notizie riportate nell’articolo, c’è questa. Il 12 ottobre 1946 la questione venne affrontata temporaneamente in una riunione del Consiglio dei ministri. Si legge nel verbale di discussione di quel giorno: “On. Cipriano Facchinetti, ministro per la Guerra — In merito al giuramento delle Forze armate avverte che sarà effettuato il 4 novembre. Quale inno si adotterà l’inno di Mameli. La formula nuova del giuramento sarà sottoposta all’Assemblea Costituente. Si proporrà schema di decreto col quale si stabilisca che provvisoriamente l’inno di Mameli sarà considerato inno nazionale. Gli ufficiali che si rifiutassero di giurare saranno considerati dimissionari.Gli ufficiali giureranno il giorno tre novembre”. Una curiosità: quel verbale, che resta l’unico atto da cui emerge il valore conferito all’inno, reca la sola sigla del segretario del Consiglio dei ministri, cioè il sottosegretario alla Presidenza Giulio Andreotti. Né il decreto citato né, successivamente, altri provvedimenti al riguardo saranno mai emanati.
9) Della canzone «La leggenda del Piave», scritta nel giugno 1918 da E.A. Mario (al secolo Giovanni Gaeta) è noto il verso: «Il Piave mormorò: non passa lo straniero!» Applicato all’oggi esso suona piuttosto truce e cattivo. Eppure tutti sembrano aver dimenticato l’ultimo verso dell’ultima strofa, quello che dice: «La pace non trovò né oppressi né stranieri». Polisemia in entrambi i casi; ma perché della nostra storia mantenere solo una memoria a senso unico?