di Thomas Pynchon

pynchon_simpson.jpg[Prefazione a Stone Junction di Jim Dodge, Grove Press, 1989]

Se accettiamo la nozione che l’utilizzo del potere contro chi non dispone di potere è sbagliato, ne consegue una serie di corollari sufficientemente chiari. Per esempio entriamo in possesso di un criterio che permette di distinguere, come hanno fatto del resto tutti i popoli (ma non sempre i loro governanti), tra fuorilegge e agenti del male, tra extralegalità e peccato. Non è necessaria un’analisi approfondita in merito, è un qualcosa che si avverte nella sua immediatezza drammaticamente impellente. “Ma sono banditi!” gemono indignati i custodi della legge, “banditi motivati unicamente dalla fame di denaro!”. Certo. Salvo che, disponendo da un’eternità del criterio di distinzione tra furto e riequilibrio, comprendiamo perfettamente i termini di una transazione in cui i fuorilegge, in qualità di broker dei poveri, risultando molto più esperti nelle arti e nelle tecniche del riaggiustamento karmico, operano un ricarico non superiore a una semplice Iva, ricarico talmente leggero per i loro clienti da risultare a tutti gli effetti accettabile per costoro e tuttavia abbastanza cospicuo da coprire i rischi estremi che si sono assunti, e insomma noi finiamo per amare questa gente, noi adoriamo Rob Roy, Jesse James, John Dillinger, con un’intensità di passione che di solito si riserva ad atti di tifoseria sportiva.

stonejunction.jpgStone Junction è un’epica fuorilegge per la nostra tardiva epoca di romanticismo corrotto e difettata dignità, con tanto di relativa presenza di usurpatori moralmente degradati e di determinazione delle fazioni detronizzate – sebbene il lettore che si attenda qui l’espressione della nostalgia per gli anni Ottanta oppure – iddio abbia pietà di costui – un ancora più desueto party tra le libidini di droga sesso e rock&roll, dovrebbe essere avvisato che mettendo gli occhi qua dentro, laddove si dà rappresentazione ai più tetri interessi di quel consenso generale ancora in pulsazione ovunque – nonostante l’enorme ammontare del divertimento sensuale – e che si compiace di autoappellarsi “Realtà”, mettendo insomma gli occhi qua dentro questo lettore incapperà in oltremodo malefiche truppe mercenarie che trascinano la trama verso sviluppi sgradevolmente mortali.
Una delle molteplici grazie di questo libro risiede nella scelta, da parte dell’autore, di non volteggiare a passo di danza verso latitudini di sogno, restando, piuttosto, consapevolmente ben ancorato nel nostro mondo per come esso si dà, un mondo in cui, come la voce canterina di Pam Tillis ci ricorda in un contesto alquanto differente, basta un niente perché il destino ti volti le spalle.
L’altro giorno per strada ho sentito un poliziotto in una volante che con il suo altoparlante intimava all’auto di un cittadino comune, che gli bloccava il passaggio, di spostarsi: e chiamava il guidatore per nome. Mi sono meravigliato, anche se poi, tentando di condividere la meraviglia con altri mi sono sentito dire, con tanto di spallucce, che era una cosa ovvia di cui non c’era da meravigliarsi, che il nome del guidatore (compresi altezza, peso e data di nascita) dovevano essere stati ottenuti via satellite dalla Motorizzazione, mentre l’agente inseriva nel database delle denunce la targa del veicolo in sosta vietata – e quindi perché meravigliarsi?
Stone Junction è stato pubblicato nel 1989, verso la fine di un’epoca tutto sommato ancora innocente (innocente a modo suo), con il cyberspazio che di lì a poco le sarebbe esploso addosso. A essere sinceri, c’erano già milioni di computer al mondo, ma il fatto è che non erano ancora così connessi tra loro come a breve sarebbero stati. Dati e informazioni, oggi disponibili a chiunque, erano allora accessibili soltanto agli Autorizzati, che tra l’altro non sempre sapevano di possederli o di che farsene. C’era ancora spazio per scorazzare e dimenarsi in assoluta libertà. Il Web era una nazione primitiva, popolata soltanto da una manciata di rozzi pionieri, mezzi matti e perfettamente a conoscenza del minimo dettaglio del territorio che avevano occupato. Vigeva l’onore, le leggi non erano scritte e i fuorilegge, pur essendo difficile definire un fuorilegge in Rete a quei tempi, si contavano sulle dita di una mano. Incominciava soltanto ad affacciarsi la domanda su come evitare o, preferibilmente, scampare la minaccia, invero implicita epperò minacciosa, dell’impietoso controllo assopito nell’attesa che si realizzassero le appropriate prospettive di libertà che il popolo dei computer immaginava allora – domanda alla quale, peraltro, non abbiamo tuttora risposto. Come buttarsi a corpo morto in quell’universo e disporre ancora a pieno delle facoltà mentali – chi ci garatisce rifugio lì nel cyberspazio? E se ce ne restiamo calmi e indifferenti, c’è qualcosa che non verrebbe in qualche modo alterato, cooptato e colonizzato dalle forze del Controllo, che sono quintessenzialmente digitali? Qualcuno sa come si possa realizzare quella che William Gibson ha battezzato “Repubblica del Desiderio”? Se loro fossero a conoscenza di come la si realizza, ce lo direbbero? E così via.
Scoprirete in Stone Junction, oltre alla moltitudine di profezie che regala, una consistente celebrazione di quegli àmbiti della vita che tendono a rimanere motivate dal flusso di mercato, soprattutto al di là dell’universo digitale. Si tratta, credo, di un apax, l’unico esempio di romanzo che consapevolmente disegna un simile scenario. Da allora gli scrittori hanno dovuto fare i conti con le ubiquitarie cyber-realtà che via via sono intervenute a stabilire in qualche modo i termini delle nostre vite (secondo frammentazioni di scale di valore, anzitutto), senza menzionare la messa in questione delle più radicate tradizioni di ogni singolo autore e di qualunque storia che avesse progredito linearmente un passo dopo l’altro, (situazione che Jim Dodge intuiva esplodere di lì a poco e che ha fronteggiato, poichè il romanzo, sempre investendo contro contro la trascinante corrente del mercato, mantiene la sua fede in una nicchia – e chissà, forse questo è un profondo bisogno umano – in cui le modalità di esistenza esprimono valore proprio nel resistere alla tempesta digitale – come per esempio il riservarsi possibilità di ricerca più onorevoli che altrimenti).
Un metodo di resistenza abbastanza popolare è sempre stato quello di continuare a muoversi, cercando non tanto un posto in cui stare riparati, un luogo sicuro e stabile, bensì realizzando una sorta di stato di ambiguità dinamica in cui si ha la possibilità di essere presenti un po’ ovunque, lungo le linee del principo di indeterminazione di Heisenberg. Le moderne macchine digitali, tuttavia, si comportano con una velocità sufficiente a individuare con precisione le incertissime ellissi della libertà umana, con una certezza superiore a quella con cui si lascia stabilire la costante di Planck.
Ugualmente irto di difficoltà, per chi desiderasse procedere lungo l’esistenza in forma anonima senza lasciare la minima traccia, è risultato il continuativo assalto contro quello che una volta era il fidato rifugio del denaro contante, cioè solido: la cosiddetta economia non-plastica. Una volta, neanche tanto tempo fa, si poteva passeggiare per le grandi avenue statunitensi e incassare assegni, aprire un conto postale, spedire ovunque somme da capogiro, senza alcun problema. Ora, non più di 750 dollari a botta – e si sta per provvedere ad abbassare anche questo limite. Provvedimento emanato ovviamente per beccare quei mitici Mercanti di Stupefacenti, nulla a che vedere con il torvo e semplice desiderio di disporre di un maggiore numero di informazioni, di maggiore controllo, dico quello che sta al cuore delle maggiori concentrazioni di potere, siano esse governative oppure di corporate private (se proprio desiderate credere in una simile distinzione).
Guardate sul video apparire di botto la schermata iniziale di Windows 95 e pensate: Magia! Ma per coloro che comprendono il sistema ai livelli più profondi, non c’è nessuna magia – tutto quell’incanto si rivela semplicemente come una semplice routine meccanica e ripetitiva. E quello che potremmo persino denunciare come sperpero di tempo prezioso non è dovuto ad altro che alla Tecnologia, che ha scoperto come incidere sulla velocità media della materia a scale dimensionali sempre più piccole (Nnggyyyyow-w-w!, è come Indianapolis laggiù!), affidando tutti i kazilioni di simpatiche istruzioni prive di autonomia a dispositivi sempre più piccoli e veloci.
Tuttavia Stone Junction esprime una fervida lealtà a quell’altro genere di magia, e cioè la magia reale – magia a cui siamo abituati da tempo immemore, esotica al di là di ogni aspettativa, sempiternamente controfattuale, insomma la magia con la M maisucola, non spettacolo avventizio ma impresa esplorativa rischiosa, in questo mondo materiale in cui siamo incastrati, che continua a offrire possibili suggerimenti – o analoghe indicazioni – sul fatto che siamo all’estero o al lavoro – sempre in esso e fuori di esso contemporaneamente.
La tentazione fatale in cui incorre uno scrittore di romanzi, che deve accettare la presenza – spesso necessitata – della magia nel suo lavoro letterario, è quella di risolvere le difficoltà poste dalla trama, dai personaggi e – molto più spesso di quanto si supponga – dal gusto, apportando soluzioni con un supporto di convenienza che spunta all’improvviso, con un amuleto o uno stupefacente ad hoc, che si occpi di ogni problema appena questo sorga. Per nostra fortuna Jim Dodge, per i termini stessi in cui consiste la sua chiamata in correo letterario, non può indulgere in questa peculiare forma di inerte lussuria. Avere a che fare con la magia è un lavoro duro e onorevole, e non lo si può svolgere secondo ghiribizzi personali, o almeno non senza conseguenze.
C’è un momento di rimarchevole crescita esperienziale del personaggio di Daniel Pearse, il protagonista di Stone Junction, il quale inizia a imparare il mestiere e a sviluppare poteri – il che fa di questo romanzo una sorta di Bildungsroman di un mago -, ed è il momento in cui i suoi professori, più o meno eterodossi nei loro metodi di insegnamento, appaiono a Daniel uno alla volta, ciascheduno con differenti compiti iniziatici da superare, tutti connessi a un’organizzazione conosciuta con la sigla di AMO, Alleanza Maghi e Ostili alla legge, sorta di protoWeb che mette in rete attraverso numeri telefonici a pagamento, cassette postali fisiche e fenomeni extraparanormali più che attraverso server e computer – un sistema sorvegliato dall’enigmatico e non del tutto totipotente Volta.
Di traverso a tutto ciò scorre una trama ulteriore – una detection alla “Chi è il colpevole?”, in cui Daniel è costretto a risolvere la questione molto terrena e priva di sfumature di chi ha assassinato sua madre, Annalee Pearse, in una stradina di Livermore, in California, quando lui aveva quattordici anni – storia, questa, completa di sospetti molteplici, false piste, e con l’identità del colpevole che viene svelata non prima delle ultime pagine del libro. Questa vicenda di detection attraversa una geografia che potremmo definire moralmente intricata e ambigua, col passo sicuro di Chandler e uno spettro aromatico da Agatha Christie, il tutto mentre si sviluppa l’altra storia: quella dell’educazione magica del protagonista Daniel.
Educazione magica. Will Bill Weber insegna meditazione, pesca e attesa. Mott Stocker insegna droga: come produrla e come consumarla. L’asso del furto con scasso Bill Clinton (sì, avete letto bene) istruisce l’allievo su come violare ogni genere di serratura o allarme, permettendogli così di penetrare in particolari aree protette sparse sul pianeta e rendendosi pronto in questo modo alla smaterializzazione.
Per un po’ di tempo Daniel fa squadra con il mago del poker Bad Bobby Sloane, col quale batte le autostrade d’America in cerca di opportunità di investimento che non possano essere ufficialmente controllate, avventure che culminano in un leggendario scontro d’azzardo con l’adorabile mascalzone Guido Caramba, in un passaggio di poker letterario che è classico quanto divertente, qui manifestando un’appassionata devozione a un gioco in cui la posta morale è elevatissima e giungendo a esiti paragonabili a Il maestro di go di Kawabata.
L’eclettico e dinamico genio Jean Bluer insegna a Daniel le arti del travestimento, ulteriore abilità che sconfina con l’illecito, già oggetto dell’odierno pubblico divieto a impersonare poliziotti, medici, avvocati, esperti di finanza e chissà cos’altro in futuro, incluso l’impersonare un Ordinario Cittadino. E finalmente Daniel arriva alla tappa dell’insegnamento di Volta stesso, il supremo controllore dell’AMO, il quale gli fornisce il segreto dell’Invisibilità. Qui non si tratta dei fin troppo secolari trucchi alla Wells, a base di indici di rifrazione e pigmentazione plasmatica, bensì delle assai note e da lunga pezza riverite tecniche che permettono di cessare di essere materiali.
E dunque Daniel è infine pronto per impegnare tutti gli insegnamenti che ha appreso nella sua metafisica Cerca del Graal, che ora si rivela inaspettatamente essere un furto a elevatissima tecnologia, avente un diamante da sei libbre (il Diamante) come bottino. Daniel vive in tempi ancora immaturi per i drammi cinematografici a base di tastiere elettroniche, download di emergenza e fughe cyber con il conto alla rovescia digitale nell’angolino dello schermo. Perciò egli impiega una tecnologia che grossolanamente possiamo definire ancora analogica (sorveglianza ottica, allarmi termostatici, griglie che rilevano ogni movimento) insieme a tecniche nondigitali che includono l’uso del gas nervino, del plastico e dell’invisibilità. Daniel riesce ad appropriarsi del Diamante e il Diamante si appropria di lui. Perché esso si rivela essere un passaggio a un altro universo e la vita di Daniel diviene la narrazione dell’occasionale incarnazione di un dio, quindi del tutto antagonista a una soluzione usuale, di quelle che comportano conforto per il lettore, bensì un esito che gli scrittori annoverano tra i favoriti: cioè l’apparizione di quella figura saggia e tipologica che è nota agli antropologi col nome di Trickster, agli alchimisti con quello di Ermete e ai giocatori di carte con quello di Jocker.
Apprendiamo tutto ciò soltanto alla fine del romanzo. Fino a quel punto, venuti a conoscenza di Daniel nel modo in cui l’autore ce lo ha descritto, siamo liberi di prenderlo alla lettera come una trasfigurazione narrativa di un’occorenza del reale, oppure come una metafora dell’illuminazione spirituale, o come la descrizione della mente in stato di inusuale esaltazione mentre si prepara a superare per sempre il ponte che lega l’Aldiqua e l’Aldilà. Ma da questo punto finale, che è la soluzione dello scrittore, tutte le possibili interpretazioni divengono corrette e legittime contemporaneamente, poiché ci rendiamo conto che abbiamo effettuato uno di quei viaggi perigliosi e indispensabili che la letteratura offre, e siamo stati condotti alle distanze lontanissime alle quali è giunto il personaggio che abbiamo seguito pagina per pagina, là dove lo attende l’ultimo passaggio, l’attraversamento dell’ultimo confine, in ciò di cui Wittgenstein suppose una volta che convenisse tacere e su cui Eliphas Lévi – dopo avere enunciato “conoscere, volere, osare” quali leggi ultime della magia – ci suggerì di mantenere il silenzio.

[traduzione di Giuseppe Genna]