di Danilo Arona

LAmantedelLoculoTre.jpgUn sunto dalla prefazione al libro di Emilio de’ Rossignoli Io credo nei vampiri (Gargoyle Books, 2009)

1. La partenza

Sono nato nel 1950.
Quando uscì la prima edizione di Io credo nei vampiri, ovvero nel 1961, non potevo ovviamente comperarlo. Né a quell’età ero in grado di seguire l’editoria di un certo tipo. I miei gusti, come quelli di qualsiasi bambino undicenne più o meno normale, erano in corso di formazione. E poi a undici anni, all’inizio degli anni sessanta, nel tempo libero ci si dedicava al gioco del pallone, a nascondino o alle scorribande di quartiere con la versione locale della Pattuglia Ciclista.

Sin qui tutto regolare. Ma qualcosa di già ben solidamente strutturato e del tutto fuori norma occhieggiava nell’ombra: un mix non tanto decifrabile formato per un verso dai “Racconti di Dracula”, transitanti di mano in mano nel gruppetto dei miei amici di allora, e per l’altro dalle incursioni pomeridiane al seguito di mia zia, fanatica degli horror film e in modo particolare di Chris Lee, nei cinematografi di Alessandria dove si proiettavano Dracula il vampiro e Psycho.
Salto a pie pari sugli effetti, temo irrimediabili, che il mix in questione ha provocato su di me. Qui non interessa. Ma ben ricordo quale fu il primo “Racconto di Dracula” che mi sparai: s’intitolava L’amante del loculo tre, e al suo seguito giunsero La vecchia poltrona, I sussurri delle streghe, Le piccole gocce (che allora mi parve un clamoroso capolavoro — e forse avevo ragione), Satana è donna, Lo squalo bianco e altri ancora. Me li leggevo di sera, alla fioca luce di una lampadina sul comodino, di nascosto dai miei genitori e li ficcavo sotto il cuscino. Per forza, di notte avevo gli incubi. Ero naturalmente convinto, come tutti i bambini lettori di nascosto e una buona parte di adulti dell’epoca (forse pure loro lettori clandestini), che quegli scrittori fossero tutti inglesi o americani: invece Doug Steiner, Max Dave, Harry Small, Frank Graegorius e Jack Leeder erano, com’è noto oggi, personaggi italianissimi e persino in qualche caso nobili di nascita (tenete a mente il particolare). Frank Graegorius era medico e psichiatra e si chiamava Libero Samale; il prolificissimo Max Dave era il conte Giusa della Rota, al secolo Pino Belli; Doug Steiner rispondeva al nome di Sveno Tozzi, forse il solo scrittore puro della scuderia; Harry Small e Jack Leeder sono pseudonimi (due dei molti) di Mario Pinzauti, tuttora vivente. Ma qui chiudo per non scantonare, raccomandandovi, se volete approfondire l’argomento dei precursori italiani dell’horror, il prezioso volume d Sergio Bissoli Gli scrittori dell’orrore, uscito nel 2007 per Ferrara Edizioni.
Un dato salta agli occhi: il mix formativo di cui sopra rigurgitava soprattutto di vampiri. E il sottotesto sessuale implicito nel vampirismo non poteva non lasciare qualche segno nella mente e nel corpo di un preadolescente.
Così trascorsero un paio d’anni. E’ noto (perlomeno così accadeva in quel decennio fatidico) che, sul fare del quattordicesimo anno di età, i ragazzini attaccano a imitare gli adulti. Allora si fumava, ci si trastullava con la stecca del biliardo, si tentava di attaccare bottone con l’altra metà del cielo.
Noi giocavamo pure a carte. In modo precoce a poker. E, siccome soldi da mettere sul tavolo non esistevano, ci giocavano i beni più o meno preziosi. Fu così che vinsi, con una scala reale di picche, la mia copia storica di Io credo nei vampiri. La sfilai con lealtà, senza barare, a un amico che si chiama Oreste Corsi e che ancora oggi mi rinfaccia il trofeo. Quanto racconto è suffragato dalla sua firma autografa, a mo’ di “ex libris” sul frontespizio del tomo. Gli editori di casa Gargoyle hanno potuto constatarlo.
Mai vincita a poker risultò per me tanto epifanica. Perché in quel libro mi ci tuffai. Lo lessi e lo rilessi, con avidità. Mentre i miei coetanei non leggevano quasi nulla. Loro cominciavano a svezzarsi con gli Shadows e con i Beatles e io ribattevo loro con i Vurdalack e le istruzioni segrete per diventare un vampiro. In seguito mi sarei messo sin troppo alla pari con Beatles e British Invasion, ma in quel momento funzionava così. E poi… Emilio de’ Rossignoli. Chi era costui? Un grande, di sicuro. Sapeva tutto e di più sul magico e terrificante mondo dei vampiri. E scriveva non da adulto snob, ma da adulto saggio perfettamente in grado di farsi comprendere da un ragazzino. E ancora — il dato più importante, perlomeno per me — Emilio ci credeva. Al punto tale che la sua fede era divenuta il titolo del tomo. Al punto che io a quattordici anni ritenni di non nutrire alcun dubbio al proposito: i vampiri, quei signori smunti e paurosi con l’hobby di affondare le zanne nel collo delle fanciulle, esistevano senza ombra di dubbio. Gli argomenti di Emilio non ammettevano contestazioni.
Gli anni trascorsero. E vi risparmio, ma va da sé che il ’68 e tutto il resto offuscarono un po’ i vampiri dalla mia mente e dal mio Es. Però la passione per il cinema crebbe a dismisura. Quando intendevo andare a punto nel buio di una sala pomeridiana con una signorina che mi cuoceva il basso ventre, non avevo dubbi sul film prescelto: il repertorio oscillava da Per favore non mordermi sul collo a Le amanti di Dracula, da La casa dei vampiri alla copia restaurata di Cyclops. Denti e bocca da affondare dalle parti della giugulare, argh!
Infine, al termine del decennio più influente della mia vita, ritrovai Emilio in edicola. Nel dicembre del ’69, in una pessima concomitanza con la strage di Piazza Fontana e l’inizio della storicamente definita “strategia della tensione”, apparve nelle edicole il numero 1 della bellissima rivista di Gino Sansoni “Horror”, fumetti ma non solo: articoli di cinema, di folclore, di storia e antropologia, insomma troppo d’avanguardia e troppo intelligente per durare a lungo. Ma, per quel che durò, è passata alla storia.
Su “Horror” Emilio teneva una rubrica intitolata “Orizzonti del fantastico”, in perfetto stile Io credo nei vampiri, ovvero indagini a 360° su mitologie, folclore, simbolismi, archetipi del fantastico, demonologia e pura critica letteraria: una twilight zone dove l’uomo, con il suo linguaggio perfetto e sempre di piacevolissima degustazione (in un momento storico, non dimentichiamolo, in cui la critica faceva a gara con sé stessa nel forgiarsi un’ostica armatura d’incomprensibilità, forse per colpa dell’avanzante strutturalismo ispirato da Ferdinand De Saussure), raccontava di Fu Manchu, dell’Ayesha di Sir Henry Haggard, del conte Zaroff, di Lilith, di Dracula of course, delle Sirene, degli Gnomi, della Bella e la Bestia, del simbolismo dei ragni e dell’Ebreo Errante. Ovvero, l’Insolito in ogni sua infinitesimale declinazione. Del resto l’Insolito, termine oggi infelicemente desueto, era la mission conclamata della rivista.

2. L’arrivo

Poi nell’agosto del ’71, con il mensile horroriano al massimo del suo fulgore (con l’Italia che precipitava in un plumbeo periodo), lo vidi. Sansoni gli aveva affidato l’editoriale del mese canicolare e, nella consuetudine della pagina d’apertura, accanto al titolo del pezzo si piazzava la foto dell’editorialista. Ed eccolo lì l’Emilio, in una fotografia probabilmente datata, dalla quale un piacevole quarantenne o poco più guardava in macchina con l’accenno di un sorriso un po’ sardonico e pure melanconico. Vagamente assomigliante a Enzo Tortora e con un taglio di capelli che, data l’epoca beatnik, appariva di sicuro fuori moda. Titolo del pezzo, La voce senza dolore. Un capolavoro, rabbrividente e angosciante. Ma soprattutto illuminante. Su di lui, sulla sua vita e la sua “vera” professione. Perché Emilio raccontava innanzitutto della nicchia più oscura e più preziosa della sua “galleria di mostri”. Perché lui era un raccoglitore puro di mostri e di leggende. Uno “specialista dell’orrore”: questa era la grande verità alla quale, nonostante avessi già letto Io credo nei vampiri e sue altre cose, ancora non avevo realizzato nella vera sostanza.
(………)
Avevo così scoperto la vera essenza di Emilio. Raccoglitore di leggende, collezionista di ritagli di giornale, vampirologo numero uno, giornalista sopraffino. E senza troppa consapevolezza, perché già allora soverchiato dai troppi progetti che mi frullavano per la testa (la musica, la scrittura, l’insegnamento che rimase al palo, e altro ancora, troppo per una vita sola…), decisi che sarei diventato un altro Emilio. E cominciai a collezionare ritagli di giornale.
Da lì a poco “Horror” chiuse. L’editore tentò di tenerlo in vita eliminando tutta la saggistica, a parere del marketing la causa della costante flessione di vendite (pensate un po’ a me e a quelli come me che lo compravano per gli articoli che su alternavano tra un fumetto e l’altro — pensate un po’ a questi nomi accanto a Emilio, ovvero Forrest Ackerman, Claudio Bertieri, Giovanni Arpino, Fusco & De Turris, Ornella Volta, Marco Rostagno, Luigi Cozzi, Robert Bloch, Ernesto G. Laura, e qui mi fermo), ma la metamorfosi non funzionò e nella fase finale l’editore tolse persino il vituperando termine “Horror”, denominando la rivista per un po’ di numeri come “Super Vip”. Emilio scomparve dal mio orizzonte visivo e la vita mi travolse. Ma il seme oscuro del De’ Rossignoli germogliò. E meno male.

IoCredoNeiVampiri.jpg3. Il viaggio dell’oscuro pioniere

Fino agli anni settanta rimasi convinto che l’autore geniale de Io credo nei vampiri fosse soltanto un capace e curioso giornalista nel quale specchiarmi per ritrovare sul mio percorso professionale un modello da imitare. Non sapevo, né potevo allora, con i miei mezzi e interessi assai politicamente indirizzati, venire a conoscenza di tutto il resto. Ovvero, di Martin Brown, di Emil D. Ross e di Larry Spada. E del Duomo di Milano abbattuto da una bomba H nel 1965…
Già, ma a questo punto occorre per forza fare i conti con le leggi, un po’ aride, della biografia. Perché solo quelle sono in grado di fornire un’idea più o meno precisa, o forse vaga, di quanti miliardi di parole abbia scritto Emilio nella sua vita (per inciso, troppo breve, soprattutto per ciò che quell’intelligenza fuori dal comune sarebbe stata ancora in grado di produrre…).
Emilio nacque nobile, probabilmente conte, di origine dalmata, a Lussinpiccolo in provincia di Pola, il 3 luglio 1920 (Lussinpiccolo è capoluogo dell’isola di Lussino nel golfo del Quarnaro). Studiò a Trieste e a Genova, dedicandosi molto presto al giornalismo. Dopo la guerra si specializzò nel campo dello spettacolo, soprattutto nel cinema. E bruciò subito le tappe attraverso un nomadismo culturale che ne rispecchia in pieno il carattere “curioso”. Fu redattore di giornali come “Festival”, “Novelle Film”, “Bella”, “Hollywood”, “La Settimana Incom” nonché inviato speciale di “Settimo Giorno”, collaborando contemporaneamente ad altri settimanali, mensili e quotidiani. Insomma, la scrittura e la poliedricità furono le sue autentiche vocazioni, le sue professioni. Perché, nobile o meno, di quello campava. E, sin dalla fine degli anni cinquanta, assieme a un’attività giornalistica a dir poco febbrile, Emilio sfornò una quantità impressionante di libri gialli e fantahorror, un certo numero di saggi e romanzi in tema e ancora — nella sua ultima fase produttiva — diversi romanzi “rosa” con un’intima e non repressa anima noir.
Ma vediamo di districarci.
Le sue prime opere gialle risalgono alla fine degli anni cinquanta. La prima in assoluto (forse…) s’intitola Nuda per il lupo ed Emilio la firma come Martin Brown nel ’56 per la collana “I Gialli del Quarto di Luna”. Siccome non so nulla del contenuto, val la pena di soffermarci sulla cover che la dice lunga sull’epoca e sulle “precauzioni” adottate dall’editore Franco Signori. Proprio il De’ Rossignoli inaugurava la collana, ma sul frontespizio non compariva affatto il “nome” dell’autore, relegato nelle pagine interne al solo usufrutto degli autentici appassionati. In compenso appare audacissima l’illustrazione per l’epoca, in perfetto stile “Pulp Magazine”: in alto a sinistra il logo fisso del “quarto di luna”, nero su cerchio rosso in tondo, mentre nell’ovale centrale (che ancora richiama la forma della luna), ecco una bionda discinta con gli abiti lacerati che lasciano intravedere generose porzioni di pelle rosacea, appesa per le braccia a una specie di grondaia. Siamo nel ’56, non dimentichiamolo… E, per chiudere la raffinata provocazione della collana, ecco quel che recitava la dicitura in quarta:
“I Gialli del Quarto di Luna sono freddi contrappunti di una carezza che scorre lenta nella tragica clessidra di un’ora. Di una notte. Sono gli appunti che il rasoio della vita incide e taglia sulla pelle dell’uomo. Sono tanto veri da sembrare irreali, perché la dolcezza di una carezza sincera troppo spesso si confonde col lampo spaccante di un colpo di revolver e nel click metallico di un paio di manette che si serrano ai polsi della follia omicida. E nelle notti del crimine, implacabile, sta sempre a guardare, il lento, solitario, immutabile cammino di un quarto di luna”.
Che dirvi? Avevo sei anni e so per certo che quelle collane lì — concorrenziali ai Gialli Mondadori, ma marginali e non “per tutti” – non erano così facilmente reperibili. Però potrei quasi scommettere che i sottotitoli appartenevano all’Emilio e che la trama di Nuda per il lupo forse anticipava le follie omicide di certi futuri serial killer alla Tarantino. Forse. Il fatto è che, arrisogli o meno il successo, Nuda per il lupo fu ristampato sempre da Signori ma nella collana (ancor più esplicita nelle intenzioni) “I gialli che turbano” con titolo e autore leggermente variati, ovvero Cinque pecorelle per un lupo di Philip (e non Martin) Brown. E più tardi ancora, nel ’70, ne “I gialli del momento”.
Ma la camaleontica verve di Emilio conobbe l’apoteosi proprio a cavallo dei due decenni. Seguite l’escalation dei titoli, degli pseudonimi e delle collane:
Bambole ardenti di Emil Ross, ne “I Gialli del Quarto di Luna” n° 4, 1956 (ristampato ne “I Gialli del Vizio” n° 4 nel ’59, nonché rieditato nel 1970 ne “I Gialli del Momento” con il titolo Le bambole di Satana;
Velluto nero di Emil D. Ross, ne “I Gialli del Quarto di Luna” n° 6, 1956, ristampato nel ’59 ne “I gialli che turbano”;
Belva di fuoco di Martin Brown, ne “I Gialli del Vizio” n° 7, 1960;
Figlia del delirio di Martin Brown, ne “I Gialli del Vizio” n° 8, 1960;
Mercanti di donne di Emil Ross, ne “I Gialli del Vizio” n° 9, 1960;
Strega nuda di Jarma Lewis, ne “I gialli che turbano” n° 12, 1960;
Veneri proibite di Emil Ross, ne “I Gialli del Vizio” n° 10, 1961;
Larry Spada non perdona di Emil Ross, ne “I Gialli del Vizio” n° 12, 1961;
Una pupa per l’inferno di Martin Brown, ne “I Gialli che turbano” n° 13, 1961;
La salma sono io di Emil D. Ross, ne “I Gialli che turbano” n° 15, 1962;
Il mio letto è una bara di Jarma Lewis, ne “I Gialli che turbano” n° 16, 1962.
Bell’elenco che qui possiamo temporaneamente chiudere nella condivisibile incertezza che l’uomo in quel periodo — il suo più prolifico se teniamo conto anche de Io credo nei vampiri, prodotto proprio a cavallo tra i due decenni — abbia scritto altre cose di cui non sono al corrente. Un dato però appare incontrovertibile: da qui in poi Emilio entra in una fase professionale molto più giocata sulla saggistica e sul giornalismo, presentandosi anche alla ribalta dell’editoria che conta con il suo vero nome. E con un romanzo profetico a dir poco: H come Milano, pubblicato da Longanesi nel 1965, un’opera straordinaria che, pur avvalendosi di una cornice da tipica fantascienza catastrofica, usa a piene mani il registro dell’horror in una direzione che allude tanto a I am legend di Richard Matheson (opera ben conosciuta da Emilio al punto che ne firmerà la prefazione per l’edizione del ’72 intitolata I vampiri, edita da De Carlo in “Gamma”) quanto al futuro Romero. Val la pena di alcune, brevi citazioni dalle pagine iniziali, laddove una bomba H è da poco esplosa su Milano e un superstite si aggira, quasi deprivato dalle ragioni, tra le rovine della metropoli:
“Quelle macchie laggiù sono sagome umane; prima erano uomini e donne a semicerchio, che si godevano il sole di questo mattino di giugno. L’esplosione li ha disintegrati, lasciando soltanto le loro patetiche ombre sul terreno sconvolto. Uno ha il braccio levato per difendersi dal bagliore: non altrimenti fu Pompei, non altrimenti fu Sodoma. Un guizzo, un gesto, la fine… Scavalco un’ombra umida, nera e oleosa, come di pece. Una minuta forma di donna sacrificata all’ultimo dio della follia umana, l’idrogeno… Da uno squarcio tormentato vedo le pareti granulose e grigie della metropolitana. C’è un residuo di vagone sulla rotaia, rovesciato, spiaccicato, tutto ammaccature, protuberanze e irti ferri graffianti. Il vetro d’un finestrino è rimasto intatto, ammicca verso la luce. Dietro, appiattito e sorridente, il viso di una ragazzetta, con i capelli castani a raggiera. Dal naso schiacciato sono colate due rosse lumache di sangue che poi si sono coagulate in due strisce nerastre sul vetro.”
Un autentico, intenso, orrore fisico-presplatter anni ’80 pervade le pagine iniziali di H come Milano. Un crudele voyeurismo da delirio telecatodico dei nostri tempi. Ma si tratterebbe solo di pura estetica se non si andasse oltre. E invece con incredibile e incontestabile preveggenza ecco in quale modo (ma non è che uno dei tanti) Emilio racconta la Sostanza che traligna sotto la Forma dell’Apocalisse. Ecco chi sono i mostri, una via di mezzo fra zombie cannibali e i vampiri di Matheson, che percorrono la distrutta metropoli alla ricerca di superstiti da sbranare:
“Loro sono quelli delle baracche alla periferia, gli immigrati. Non avevano casa e per questo i crolli non li hanno decimati: le baracche sono più leggere quando si sfasciano sulla schiena. Non hanno mai avuto niente e adesso credono sia venuto il momento di volere tutto. Si ricomincia da capo, ma loro sono i favoriti. La miseria e le privazioni li hanno fortificati, li hanno preparati a questa prova. Sono duri come piattole, avidi, implacabili. Vogliono la nostra roba, le nostre donne, il nostro domani. E non vogliono noi. Guardati da loro.”
Emilio lo ha scritto nel ’65. Ma non sembra formulato per l’oggi, a ridosso della drammatica situazione contemporanea in cui i sistemi sembrano sul punto di collassare all’unisono? Quanta presaga modernità… Vale la pena di richiamare le note di Vittorio Curtoni (Le frontiere dell’ignoto) al proposito:
“Alcune scene sono allucinanti: i travestiti che uccidono le donne e strappano loro le chiome per ornarsene; gli uomini ridotti a vermi che strisciano fra le macerie, scavano gallerie e covano la vendetta contro chi li polverizza col lanciafiamme. Un libro che si chiude con un delirante rito di cannibalismo (l’uomo mangia la donna dopo essersi identificato con lei attraverso un processo di degenerazione psichica) e che sceglie il cammino della disperazione assoluta. Di Milano restano solo le rovine; i morti non hanno più voce; e i sopravvissuti scompaiono, lentamente, sulla stessa onda che ha trascinato via gli altri.”
Non sono in grado di dire quanto impatto, a livello di mercato, ottiene H come Milano. Il dato di fatto è che a questo punto Emilio rallenta di molto la sua produzione narrativa perché, dall’evidenza delle note biografiche già enumerate, le collaborazioni giornalistiche e la saggistica prendono un deciso sopravvento. Del resto, nobile o meno, la parola è il suo mestiere. L’eclettismo la sua caratteristica; tanto da saltare da “Bella” a “Horror”. E negli anni settanta arrivano nuovi saggi, ma pure un nuovo romanzo. Si va dai volumi della monumentale opera edita da Rizzoli I grandi libri del cinema, affiancata da Il libro degli attori all’esaustivo saggio di criminologia Gli efferati — Dallo sventratore alla saponificatrice, stampato dalle gloriose edizioni Il Formichiere; e il romanzo è ancora caratterizzato da una cornice fantascientifica e da una visione distopica, pessimista e crudele.
Titolo, Lager dolce lager in cui, in un futuro alla Mad Max, un uomo finisce un giorno in un campo di punizione per una colpa da poco. Un luogo infernale che pare – allora — la versione futuristica di un campo di concentramento, chiuso per ogni lato dal filo spinato in luogo terrorizzante e popolato da mostri che si chiamano la Donna dei Paralumi, Seta, il Gasista e gli Angeli. Dove il protagonista sperimenta la tortura, la fame e il terrore puro, soprattutto per le cose abominevoli che escono di notte e di cui nessuno conosce nulla, oltre al loro nome leggendario. Cose chiamate la Macina, 1’Ascensore, il Telefono Amico, il Carro, il Bar, la Fossa, i Camini. Un vero incubo a occhi aperti dove si perdono i connotati del reale. E dove, poco alla volta, condizionato dalle infamie e dalla violenza, il prigioniero perde anche la sua libertà interiore e arriva l’istante in cui, fra lui e i carnefici, non esiste più alcuna diversità. L’istante in cui l’uomo cessa di essere una vittima per diventare boia e complice.
Ancora una volta un testo che testimonia una capacità fuori dal comune di cogliere “la musica che gira intorno” in quegli anni: una sensibilità senza dubbio derivata dall’intenso lavoro giornalistico accumulato sino a quel punto.
Ma nell’ultima fase della sua vita Emilio cambia ancora le carte in tavola. Di sicuro per motivazioni “alimentari”, ma trasferendo la sua abilità e la sua “mostruosa” cultura nell’ambito di una produzione letteraria. Inizia infatti a scrivere romanzi a puntate per settimanali femminili, storie romantiche quasi sempre intrise di mistero, occultismo e sense of wonder. E’ una fase intensissima, in cui l’uomo arriva a partorire nel giro di un quinquennio quasi una cinquantina di opere, sempre siglate con il solo cognome: fase testimoniata da tre uscite nella collana “Romantica” di Sonzogno — quella per intenderci che pubblicava le opere di Liala — che s’intitolano Strega alla moda, Concerto per una bambola e La donna di ghiaccio. Romanzi affascinanti che, pur “dentro” il genere sentimentale, ne deviano puntualmente verso quelle derive di contaminazione che l’uomo amava sopra ogni cosa. Leggere per credere La donna di ghiaccio, che profuma irresistibilmente di Daphne du Maurier…
Questo grande pioniere ci lascia nel 1985. Anzitempo e nell’ombra. Lui, nobile, con poteri da scrittore medianico, sempre elegante nel tratto e nel contenuto. Mi piace immaginarlo ancora vivo che si aggira nell’Aldiqua. Dopo avere sperimentato su se stesso quel Grande Segreto attorno al quale è ruotata tutta la sua immane opera. Lui ci credeva (nei vampiri) e descrive in questo libro persino alcune, curiose modalità per diventare Signori delle Tenebre. Chissà se…
Però un seme, ve lo garantisco ripetendomi, è germogliato.
Non mi capacito infatti di quanto la mia ricerca assomigli alla sua. Anch’io colleziono mostri. E, senza tema di plagiarlo, lo confesso: anch’io credo nei vampiri.