di Sandro Moiso

LottaContinua.jpgQui le parti precedenti.

Quarant’anni di salazarismo non avevano soffocato la classe operaia

Quarant’anni di salazarismo non avevano soffocato la classe operaia.
L’avevano repressa, ma allo stesso tempo anche foraggiato la sua combattività, così gli scioperi non cessarono mai del tutto.
Fin dalla prima repubblica, Lisbona, Setúbal e Porto erano stati i centri degli scioperi più importanti e numerosi.

Soltanto tra il 1970 e il 1973 il settore industriale portoghese si era espanso del 36%.
Dall’inizio del ‘900 i lavoratori della terra si erano dimezzati, mentre quelli dell’industria erano quasi raddoppiati.
Soprattutto nel corso del 1975 l’esuberanza delle fabbriche aveva incontrato a sud il malessere dei braccianti e a nord le paure dei piccoli proprietari.

Esuberanza e malessere che, dal 1941 al 1962, avevano visto più volte gli operai delle fabbriche e i braccianti dare vita a proteste di notevoli dimensioni e che, nel ’64, portarono alla conquista della giornata lavorativa di otto ore. Esuberanza e malessere che, tra il 1946 e il 1962, spinsero più volte membri delle forze armate a ribellarsi o a tentare di rovesciare il regime.
I fatti successivi al 25 aprile e del verão quente (1) confermarono quella tradizione.

Anche a Torino la rapida crescita industriale aveva portato alla formazione di una classe operaia generosa e combattiva.
La Barriera di Milano, il quartiere proletario da cui provenivo, già nel 1917 fu testimone di una battaglia, durata quasi una settimana, tra esercito e Guardie Rosse formate dai giovanissimi operai delle officine, i bòcia (2). L’anonimo corso Vercelli di oggi fu, all’epoca, scenario di cariche di cavalleria contro inamovibili barricate.

Ma fu soltanto il boom degli anni sessanta a riempire la città di operai, gran parte dei quali provenivano ormai dal sud o dal lavoro oltre frontiera.
Furono loro a portare un nuovo vento nella città severamente divisa tra fabbrica e dormitorio.
All’inizio degli anni settanta a Torino il giornale di fabbrica si intitolava I Centomila.
Quello era il numero degli operai impiegati negli stabilimenti FIAT, molti avevano la mia età.

Ebbero anche loro le barricate, in corso Traiano.
Diedero vita ai fazzoletti rossi, che percorrevano i reparti bloccando il lavoro e mettendo in fuga capi e cronometristi.
Ribaltarono le gerarchie e si imposero sul sindacato.
Diedero vita ad uno outono quente (autunno caldo) che travalicò i limiti delle stagioni.

Fu spesso l’età a unirci, prima ancora che la linea politica.
Ai cancelli ci incontravamo come compagni, ma anche come giovani.
Condividemmo discussioni, bevute e scampagnate.
I film, le piòle (3), i picchetti e i sabato sera.
Nell’ottanta la famiglia Agnelli si vendicò licenziandone molti.

Ai cancelli degli stabilimenti intorno a Lisbona ritrovavo gli stessi volti e gli stessi occhi.
Non era difficile intendersi, fu per questo che imparai in fretta la loro lingua.
Ma in fin dei conti parlammo sempre lingue altre, codici che solo a noi erano comprensibili.
Ricordo ancora i loro nomi e i loro volti. Hanno sempre vent’anni o poco più.
Anche la rivoluzione non può averne di più.

I cancelli delle fabbriche erano a volte delle specie di bazar

I cancelli delle fabbriche erano a volte delle specie di bazar.
Lì si vendeva di tutto.
Scarpe, frutta, radioline e sigarette.
Noi ci vendevamo i giornali.
I volantini, per fortuna degli operai, erano gratuiti.

Eravamo in tanti ad attenderli a ogni cambio turno.
Alla FIAT si trattava di andare a piazzare la propria merce alle sei, alle otto, alle quattordici e alle ventitre. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì.
Vi era gran concorrenza ideologica, soprattutto presso alcuni cancelli. Quelli dei reparti considerati più combattivi. Lì fioccavano le sigle: LC, AO, POTOP, QUARTA solo per citarne alcune.

Spiavamo con occhio vigile l’apparire dei rispettivi referenti di fabbrica e dei simpatizzanti.
Che spettacolo! Centinaia, forse migliaia di uomini e donne che entravano e uscivano.
Inghiottiti e risputati fuori da un Moloch i cui guardiani dovevano tutti, obbligatoriamente, aver prestato servizio nella benemerita.
Anche loro ci spiavano, annotandosi volti e targhe.

Ogni giorno si riceveva qualche notizia di proteste o di scioperi interni.
Di qualche richiamo o di qualche scontro con il sindacato.
Lo scambio di idee e di opinioni avveniva in fretta.
Poche parole e battute, poi via tutti a casa per riposare un po’.
Oppure per riparare l’auto con i pezzi trafugati in officina.

In quel settore qualcuno raggiunse livelli eccelsi.
Così ci fu chi, sotto l’eskimo, riuscì a portarsi a casa un’intera testa di motore.
Alla faccia dei guardioni e della Famiglia.
In fin dei conti vi era anche chi i pezzi li lasciava in fabbrica.
Del proprio corpo, specie alle presse.

Gaetanino, Papalla, Scarpantibus, Capoccione.
Per ogni soprannome una storia, un volto, una lotta.
E poi ancora Pupillo, Riccardo, Franco, Roby, Enzino.
Nomi che qualche volta sono rientrati nelle pagine di un’inchiesta, mai in quelle dei libri di storia.
Un capoclan sabaudo ne elencò sessantuno di cui volle il licenziamento.

Tutti insieme erano stati, per la Famiglia, la piaga peggiore.
La più ribalda e imprevedibile.
Quella del blocco improvviso delle linee e della produzione.
Quella della furia subitanea e della pernacchia irridente.
Per impedire che si ripresentasse dovette, alla fine, chiedere l’aiuto dei robot.

Così oggi a Torino gli operai bruciano in gruppo.
Con lacrime di coccodrillo, imprenditori e sindacati si chiedono il perché, mentre manifestazioni solitarie percorrono viali cittadini deserti.
Il lutto e la lotta non si addicono più a una città che è morta senza accorgersene.
Le fiamme della rivolta e la vita si sono spente insieme.

Ancora oggi qualcuno sostiene che non vi fu alcuna rivoluzione

Ancora oggi qualcuno sostiene che non vi fu alcuna rivoluzione.
Se si accettano come tali soltanto quelle che hanno vinto, allora in Portogallo la rivoluzione non fu.
E quelle che hanno vinto, purtroppo, sono poche e quasi sempre sono finite male.
Ma forse la rivoluzione è qualcosa che va oltre la mera vittoria.
Sostanzialmente è una promessa e, spesso, non importa che sia mantenuta.

Una rivoluzione vive mentre si compie.
Come una divinità è frutto delle speranze degli uomini.
Come una divinità invisibile si manifesta attraverso le loro azioni.
Come una religione sarà sistemata solo più tardi, a parole.
Come una religione può morire e scomparire per poi rinascere sotto altre spoglie.

Basterebbe aver vissuto ventiquattro ore un processo di trasformazione sociale come quello che percorse il Portogallo per comprenderne l’essenza.
O quello che più in generale percorse l’Occidente tra gli anni sessanta e settanta.
Le sigle, i leader arrivarono sempre un secondo dopo. Si appropriarono degli eventi, non li crearono. Le spiegazioni successive furono anche peggiori.

In Portogallo, soltanto nel 1974 furono 2.000 i comitati di lavoratori eletti nei luoghi di lavoro.
Contro le interferenze sindacali e politiche.
Nell’estate del 1975 erano 400 le fabbriche autogestite e 500 le cooperative di lavoro create.
Si formarono Comités Autónomos Revolucionários de Moradores (4) che esercitarono forme di autogestione dei servizi sociali e che arrivarono, in alcune zone, a rappresentare anche 150.000 residenti.

Molte furono le occupazioni di case sfitte a opera dei senza tetto.
Ancor di più quelle di terre appartenenti a latifondisti. Furono i braccianti a occupare la terra e la maggior parte di loro non pensò mai di appropriarsene individualmente. Quelle terre non dovevano essere divise, ma possedute e coltivate collettivamente.
Fu così che l’Alentejo e l’Algarve vissero la loro estate di fuoco.

Spesso furono le organizzazioni operaie a fornire autonomamente aiuti materiali agli occupanti delle terre. Si realizzò una solidarietà di classe vera.
Per non smentirsi il PCP fu in prima linea nel richiamare i lavoratori alla “ragionevolezza”.
Rifiutava “l’anarchia nell’economia” e diceva “no agli scioperi irresponsabili”.
Ma le occupazioni sarebbero finite soltanto a novembre col ritorno all’ordine costituito.

I braccianti, gli operai e i soldati portoghesi percorsero comunque la loro strada fino in fondo o, almeno, fin dove fu loro possibile.
Fu così che, durante l’estate, il Times uscì con un titolo che annunciava la morte del capitalismo in Portogallo. La pubblicazione di quell’articolo costituì, alla fine, la ricompensa per tutti coloro che si erano lanciati in quella avventura.

Non si presentò mai più l’occasione per leggere una simile notizia.

Scimmie filo-sovietiche

Scimmie filo-sovietiche.
Forse, in alcuni casi, lo fummo inconsapevolmente.
Eppure… eppure… Ci illudemmo di poter cavalcare quelle forze.
Apparve possibile, anche solo per brevi attimi, che il movimento generale potesse travolgere le rigidità politiche e le strategie delle organizzazioni politiche maggiori.
Fu il nostro errore più grande.

Prima del precipitare dell’autunno, fummo tra gli organizzatori a Lisbona di un grande meeting.
Al Campo Pequeno si incontrarono i rappresentanti dei comitati, dei soldati dei gruppi di estrema sinistra e del PCP. Quest’ultimo si trovava, alla fine di agosto, in gravi difficoltà e solo per questo sembrò accettare il dialogo con gli “estremisti”. Speravamo di influenzarlo nelle sue scelte.
Di fatto quella possibilità fu sempre e soltanto una chimera.

Nella grande arena, come in quella della storia, quelli come noi e i movimenti fecero solo e sempre la parte del toro.
Infuriato, coraggioso, talora feroce, ma destinato ogni volta a soccombere.
Gli altri, da esperti toreri, agitavano le muletas rosse, in attesa di macellarlo.
Tra il giubilo del pubblico pagante e benpensante.

Ma il gioco era quello.
Ognuno doveva assumersi le sue responsabilità e i propri rischi.
In quel circo non si usava la rete.
Eravamo nell’aria per esercizi a corpo libero.
E si poteva cadere e finire nel sangue o nel ridicolo.

Era iniziata la stagione delle false affinità poiché occorreva far di necessità virtù.
Ai primi di settembre il partito comunista portoghese si era già nuovamente allontanato dai consigli e dai gruppi estremi, tornando a teorizzare un fronte democratico con le forze moderate.
Al contrario, negli stessi giorni, cinquecento soldati della polizia militare erano sfilati per le vie manifestando il loro rifiuto di tornare in Angola per garantirne la sicurezza.

Un documento, pubblicato in agosto da 9 membri del consiglio della rivoluzione, prese le distanze dall’ala radicale del MFA.
Vasco Gonçalves (5) sarebbe stato sostituito a capo del governo il 29 agosto.
Il gruppo dei nove (6) si sarebbe poi liberato anche di Otelo per poter gridare al golpe.
Tutti avevano cominciato a scoprire e a giocare le proprie carte.

L’ammiraglio De Azevedo, che aveva preso il posto di Gonçalves come presidente del consiglio, il giorno dopo la costituzione del sesto governo provvisorio, dichiarerà ai giornali stranieri:
“Dobbiamo far presto. Se aspettiamo troppo la disciplina militare può rompersi del tutto.
Se si spezza l’esercito non avremo più forza, dunque né autorità né governo”.
Novembre si avvicinava e le gocce di rugiada stavano per trasformarsi in fango della strada.

Il fiore stava appassendo

Il fiore stava appassendo.
Nell’aria c’erano già i segnali dell’autunno incipiente.
Come al solito fu Amparo a comunicarci che le cose stavano cambiando.
Che, forse, avremmo dovuto armarci oppure partire poiché non era più possibile garantire la nostra sicurezza. Non ci furono discussioni e le decisioni, alla fine, furono tutte individuali.

Sandro e Giuseppe scesero verso sud, in compagnia di alcuni romani.
Decisero di vedere l’Algarve prima di lasciare il paese.
Forse ad attrarli erano anche gli occhi vivaci e i capelli riccioluti di Maya.
Tutti comunque sentimmo dentro di noi che una stagione era finita.
Ognuno si predispose alla partenza.

L’alta marea si stava portando via tutto.
Non so cosa fece e dove finì Camila.
Di tutti ebbi in qualche modo ancora notizie, ma di lei più nessuna.
Gli altri li rividi quasi tutti, nel novembre successivo, a Rimini.
Qualcuno lo rivedo oggi in TV, mentre condanna estremisti e rivoluzioni.

I controlli ai confini spagnoli si erano fatti più meticolosi.
Occorreva partire da soli o in piccoli gruppi.
Ebbi tra le mani un biglietto aereo per Roma.
Sopra c’era scritto un nome diverso dal mio.
All’aeroporto di Lisbona nessuno ci fece caso.

Partii il mattino di un giorno molto caldo.
A Roma faceva ancora più caldo.
Rifiutai l’invito a fermarmi per quella notte, e forse per altre, in città.
Sentivo che si stava abbassando una saracinesca, come mi capitò poi ancora molte altre volte.
A Termini cercai un treno per Torino.

Rimasi molte ore dentro il vagone di un treno incerto sull’orario di partenza.
C’era lo sciopero dei ferrovieri e bisognava attendere che finisse.
Portavo nei piedi un paio di stivali portoghesi e in tasca un pugno di escudos che nessuno voleva più cambiare. Lo zaino era quasi vuoto, ma la testa era piena.
Ricordi, volti, immagini e un amore lasciato in fretta.

Per la prima volta, nella calda attesa che il treno partisse, ebbi l’impressione che la gioventù stesse finendo. Avevo ventidue anni.

Dove sarà poi finito il caporale Amparo?

Dove sarà poi finito il caporale Amparo?
E dove sono finiti tutti gli altri giovani soldati allora conosciuti?
Dove sono finiti quei garofani e quei fazzoletti rossi?
Dove sono finite le loro speranze e le nostre?
Where are all the flowers gone?

Con la mimetica, la pistola sempre al fianco e l’aria da Che Guevara dinoccolato e con gli occhiali.
Di quale caserma era in realtà: RALIS, Genio, Polícia Militar?
Sono tornato tante volte a Lisbona. L’ho cercato con gli occhi. Non l’ho mai più ritrovato.
L’unico che gli assomigliava cantava il fado su un angolo del Rossio, ma lui non l’avrebbe mai fatto.

Non so quanti anni avesse.
Sicuramente non molti più dei miei.
Per noi fu una presenza costante e discreta.
Compariva e spariva all’improvviso, ma ci fidammo sempre di lui.
Qualcuno diceva che fosse tra le guardie del corpo di Otelo.

La carnagione chiara, i capelli, la barba e gli occhi scuri acuivano in lui l’aria da bel tenebroso.
Sicuramente faceva parte di quei sottufficiali e militari che salivano e scendevano le scale dei ministeri senza troppo rispetto per le gerarchie.
Non eravamo più a Lisbona nei giorni di novembre, ma mi piace ancora immaginare che sia stato lui a prendere la parola durante l’occupazione della televisione.

Era il tipo perfetto del guerrigliero e del cospiratore e il suo nome significava sostegno o appoggio.
La sua immagine rimarrà per sempre quella.
Donato seppe o inventò, poi, che il caporale era sfuggito agli arresti ed era latitante.
I rapporti di Donato con le vicende portoghesi successive alla nostra dipartita furono sempre misteriosi. Non riuscimmo mai a capire come facesse a inventare ancora storie così credibili.
Anche per noi che lo conoscevamo bene.

Le radio ricominciarono a trasmettere fado e canzoni tradizionali portoghesi

Le radio ricominciarono a trasmettere fado e canzoni tradizionali portoghesi.
Costituivano un repertorio scomparso da almeno un anno.
Questa fu la colonna sonora del ritorno alla normalità.
La tradizione tornava a trionfare.
Forse per questo non sono mai riuscito ad apprezzare il fado.

La stagione calda era giunta al termine.
L’ambigua situazione di doppio potere era finita.
I generali moderati avevano ripreso il controllo dell’esercito.
Nelle strade non ci fu festa.
E nemmeno ci furono le barricate.

Tutto si risolse in seno all’esercito.
A ottobre i metallurgici erano ancora riusciti a strappare concessioni al ministero del lavoro.
A metà novembre gli operai edili avevano assediato il palazzo di São Benito, sequestrando di fatto il governo e costringendo l’ammiraglio Pinheiro de Azevedo a concedere aumenti salariali del 44%.
Ma quella classe operaia non stava ancora cercando lo scontro aperto.

Sempre a ottobre un reggimento di Porto era stato sciolto per indisciplina.
Un’altra unità militare, nella stessa città, si era ammutinata.
Giorno dopo giorno il partito dell’ordine vedeva crescere una situazione pericolosa.
Sfuggita davvero alle mani di tutti.
Occorreva fermare il caos.

Il finale fu breve come la morte e si giocò tutto tra il 20 e il 28 di novembre.
Il 20 novembre il sesto governo, constata l’impossibilità di esercitare qualsiasi forma di autorità, chiese ai comandi militari di ristabilire l’ordine.
Il 21 Otelo de Carvalho venne destituito dal comando della regione militare di Lisbona e sostituito con il capitano Vasco Lourenço, uno dei moderati.

All’alba del 25 novembre i paracadutisti della base di Tancos occuparono, per protesta, il Comando della regione aerea di Monsanto e altre sei basi aeree.
Lo stato maggiore generale delle forze armate portoghesi minacciò un intervento contro le truppe ammutinate. I paracadutisti risposero dichiarando di aver destituito dall’incarico il capo di stato maggiore dell’aeronautica e il comandante della prima regione aerea.

Gli ufficiali del COPCON cercarono di coordinare le mosse delle truppe ribelli.
Lo stato d’emergenza venne decretato in tutta la regione di Lisbona.
Soltanto dopo i soldati della Scuola pratica di amministrazione militare, che avevano assunto il controllo della televisione, chiamarono il popolo alla mobilitazione e diedero la parola ai rappresentanti dei paracadutisti..

Nella serata i commandos di Amadora, da sempre fedeli agli ufficiali moderati, circondarono e rioccuparono la base aerea di Monsanto.
Venne anche ripreso il controllo, sempre a opera dei commandos, del quartier generale dell’aviazione.
Più tardi furono interrotte le trasmissioni televisive da Lisbona.

Sugli schermi apparvero prima le immagini degli studi di Porto, rimasti in mano al governo, e poi quelle di un film americano.
Radio Clube, vicina al COPCON, fu occupata e messa a tacere.
Le antenne di Radio Renascença erano state abbattute con l’esplosivo già nei giorni precedenti.
Alle 22 i ribelli che avevano occupato la base di Monsanto furono tratti in arresto.

Poco dopo mezzanotte il PCP prese le distanze dai ribelli, dichiarando in un comunicato di non voler precipitare il paese in una situazione favorevole solo alla reazione.
Un’ora e mezzo più tardi i commandos aprirono il fuoco per disperdere la folla che si era andata radunando davanti al palazzo presidenziale di Belem.
Nelle prime ore del mattino del 26 novembre i ribelli furono definiti controrivoluzionari.

Per finire il lavoro i commandos attaccarono la Polizia militare che aveva rifiutato di eseguire gli ordini ricevuti. Nello scontro che ne seguì vi furono diversi morti.
Nel primo pomeriggio una colonna di mezzi corazzati occupò RALIS e venne così ripreso il controllo del principale deposito d’armi della capitale.
Venerdì 28 novembre anche i paracadutisti di Tancos gettarono le armi.

I moderati parlarono di sconfitta del golpe rosso, ma il PCP rimase nel governo.
Tutto tornò alla normalità con la fine delle occupazioni di terre, di fabbriche e di case, la sospensione dei contratti ottenuti precedentemente, il congelamento dei salari e la ripresa su vasta scala dei licenziamenti.
Furono soltanto questi i titoli di coda della rivoluzione portoghese.

Da noi le cose andarono un po’ più per le lunghe.
Vi fu forse un po’ più di suspence, ma finale e titoli di coda rimasero gli stessi.

Iniziò così la stagione del desencanto

Iniziò così la stagione del desencanto.
In Portogallo, in Africa e in Italia.
La stagione della gioia era arrivata all’improvviso, altrettanto rapidamente era stata soppiantata da quella del dolore e della tristezza.
Chi aveva vissuto la prima conobbe il vero significato della saudade con la seconda, che ancora non è finita.

I militanti e i militari portoghesi furono disarmati e imprigionati.
Altri dovettero nascondersi in attesa di tempi migliori.
Altri diedero vita a organizzazioni clandestine.
Qui da noi alcuni tentarono ancora di riconquistare la felicità con le armi in pugno.
Ma non fu più la stessa cosa.

Qualcuno si suicidò.
Qualcun’altro cedette alla tentazione della droga soltanto per morire un po’ più tardi.
Certi misero il loro coraggio e la loro passione al servizio di cause lontane.
Qualcuno è sepolto in Nicaragua, altri chissà dove.
Altri si sono seppelliti da soli e li vediamo denunciare tutto ciò che può turbare l’ordine costituito.

Anche in Africa finì la gioia.
I mucéqués, i giovani proletari di Luanda, che nel 1961 avevano assaltato a mani nude le carceri dove erano detenuti i prigionieri politici e che avevano spinto il MPLA sulla via della lotta armata contro i portoghesi, si ritrovarono ancora una volta soli.
L’unico movimento autenticamente popolare dell’Angola dovette appoggiarsi poi all’URSS.

Migliaia di giovani cubani seguirono così le orme africane del Che.
Non più per portare la rivoluzione, ma per combattere una guerra per interposta persona.
Le ricchezze del continente nero e dell’Angola facevano gola a molti.
Loro combatterono per gli interessi sovietici, che non erano migliori degli altri.
Furono, i giovani neri di Cuba e di Luanda, eroici come sempre, ma fu un coraggio buttato al vento.

L’autunno da noi indicò subito quale sarebbe stato il futuro.
Durante un comizio, a Torino, il servizio d’ordine sindacale caricò chi fischiava.
Per la prima volta giovani militanti di gruppi diversi si trovarono fianco a fianco nel ricevere e rendere le mazzate, democratiche e di sinistra.
La resa dei conti con Lama, all’università di Roma, sarebbe giunta poco più di un anno dopo.

La nostra organizzazione bruciò le tappe.
Si era costituita in partito nel gennaio del 1975.
Aveva portato il proprio contributo di voti e di sangue al PCI nella primavera dello stesso anno.
Vacillò quando fu chiaro che il più grande partito comunista d’occidente non poteva più tollerare dei guastafeste a sinistra. E si sciolse al congresso di Rimini nel novembre del 1976.

La primavera del 1976 fu molto diversa da quella dell’anno prima.
Si era però nuovamente in campagna elettorale.
Adesso la sigla da difendere era tristissima: NSU, Nuova Sinistra Unita.
Ricordava soltanto la più brutta automobile mai uscita sul mercato.
Non ci credeva nessuno, tanto meno noi.
Era soltanto l’ennesima sigla che non significava nulla e che non rappresentava altro che un banale tentativo di gruppi in cerca di identità di darsene una, collettiva e contraddittoria.
Eppure anche per una ragione così meschina fummo mandati allo sbaraglio.
Chissà che ieri come oggi i morti non servano a ridare fiato a chi è in carenza di iniziative e di idee.

Faceva caldo a Torino quel giorno.
Almirante doveva parlare in un cinema di via Roma.
Era stata convocata una grande manifestazione antifascista “unitaria” in una piazza del centro.
Due nostre squadre erano state incaricate di tenersi lontane da quella piazza.
Per attaccare fascisti e forze dell’ordine a ogni costo.

Lo scontro iniziato da uno dei due gruppi avrebbe dovuto costituire il pretesto per scatenare la piazza e impedire il comizio missino.
Doveva essere una specie di trappola e noi avremmo inizialmente dovuto fare la parte delle caprette.
Le nostre armi erano ancora chiavi inglesi e spranghe.
A mani nude sarebbe stato lo stesso.

Essendo i più vicini al cinema, attaccammo per primi.
Un’auto con i megafoni che pubblicizzava l’imminente comizio.
Da quelle di scorta scesero numerosi poliziotti in borghese che aprirono immediatamente il fuoco.
I proiettili rimbalzavano a terra, spaccavano i parabrezza delle auto in sosta.
In un fracasso e tintinnio metallico infernale.
Ancora una volta, fu solo per caso che nessuno del nostro gruppo rimanesse ferito o ucciso.

Non ci rimase che ritirarci nelle vie strette del centro storico.
Avevano dato riparo ad anziane puttane per decenni, lo avrebbero dato anche a noi.
Ivano fu arrestato, cercammo di attirare la polizia dietro di noi.
In attesa che la piazza intervenisse.
Aspettammo e sperammo.

I compagni dell’altra squadra attaccarono in via Po.
Per loro vi fu soltanto una fuga precipitosa sotto le raffiche delle mitragliette dei carabinieri.
Noi non potevamo esser visti da coloro che erano sulla piazza, ma il secondo gruppo agì a circa cinquanta metri dalla stessa.
I nostri responsabili politici erano diventati ciechi e sordi.

Nessun’altro agì quel giorno.
Il nostro gruppo fu inseguito dalle forze dell’ordine fin fuori dal centro.
Pensavamo, nonostante tutto, di aver impegnato in modo utile una parte i reparti mobili.
Solo più tardi scoprimmo che nessuno si era mosso.
Che avevamo rischiato vita e carcere per nulla.

Ci raccontarono in una riunione serale che gli accordi erano cambiati sul campo.
Troppe forze dell’ordine e niente appoggio da parte del PCI e dell’ANPI.
Bella scoperta, ci saremmo stupiti del contrario.
Protestai vivacemente. Dissi che se si voleva il morto, per rilanciare le lotte, la parte del bersaglio l’avrebbe dovuta recitare qualche dirigente. Fui espulso, così su due piedi, dal responsabile della sede torinese. Per deviazione militarista.

Da lì in poi si iniziò a ridiscutere, in seno a quell’organizzazione, la violenza e il ruolo del servizio d’ordine.
E pensare che soltanto sei mesi prima, al ritorno dal Portogallo, mi era stato chiesto di andare a organizzare le strutture di autodifesa in una città del sud.
Proposta, per mia fortuna, caduta nei giorni successivi.

Nei mesi seguenti una barriera, tutt’altro che invisibile, si levò tra di noi.
Separava chi iniziava a prendere le distanze dalla propria gioventù da chi non intendeva affatto adeguarsi a nuovi, subdoli modelli di morte sociale.
Donato fu molto più che deluso. I suoi cristi e il suo sbuffare commentarono significativamente quegli avvenimenti. Comunque la mia espulsione non lo aveva convinto.

Durante i vari congressi locali che si tennero in attesa di quello di novembre, fui designato dai compagni di Mirafiori, e da altri ancora, come delegato a Rimini.
Fu il mio ultimo apporto a Lotta Continua.
Poi, nelle parole del leader maximo, un altro terremoto si portò via tutto e per sempre.
Il botto finale fu causato da un colpo di pistola, lasciata cadere accidentalmente, durante il congresso, da uno dei presenti.

In principio furono la passione istintiva e l’azione

In principio furono la passione istintiva e l’azione.
L’istinto ci guidò nel comprendere quello che accadeva.
L’azione che ne seguì fu inevitabile.
La rovina era compresa nel gioco, ma come disse Sofocle “la vita mortale non può avvicinarsi alla grandiosità senza l’àtē” (7).
In quella lunga stagione fummo tutti toccati dal divino.

Si diceva della nostra organizzazione che fosse “nell’aria”.
Era un’affermazione nata ironicamente tra gruppi concorrenti, più intellettualizzati.
A distanza di trent’anni mi sembra invece costituire il complimento più bello che si potesse e si possa ancora fare a chi corse allora, senza mai pensare a ciò che avrebbe potuto perdere o rischiare, per buttarsi a capofitto nel tumulto della vita.

Eravamo nel vento, eravamo nell’aria.
Giovani demoni che si aggiravano per l’Europa.
L’immateriale promessa di un mondo che non sarebbe mai esistito dopo e che non era mai esistito prima. Però come daímones (8) avevamo il dono di far paura.
I nostri avversari se la fecero letteralmente addosso per mesi e, talvolta, anni.

Le nostre risate riecheggiavano ovunque.
Apparati repressivi enormi si mobilitarono, ascoltandole.
Banchieri, finanzieri, industriali e possidenti sbiancarono udendole.
Ci videro anche dove non fummo mai.
Qualche apprendista stregone cercò di evocarci per i suoi miseri scopi.

Immaginarono potenze che non avevamo.
E che forse mai avremmo voluto possedere.
Spararono su ogni rumore che potesse manifestare la nostra presenza.
Inventarono esorcismi, formule, amuleti.
Qualcuno funzionò, altri no.

Risposero alla paura con il terrore.
Opposero alle visioni la morte.
Offrirono oro per richiamarci.
Droghe per distruggerci.
Prestigio e celebrità per distrarci.

Cercammo di sopravvivere con leggerezza.
In attesa di poter tornare a lottare.
O di tornare soltanto a narrare ciò che aveva dato un senso alla nostra primavera.
Per ridere o piangere o bestemmiare ancora.
E per essere ancora un po’indigesti.

Le nostre azioni, le nostre parole, i nostri pensieri avevano costituito un flusso continuo.
Non potevano essere arginati dalla prosa politica.
Quel che ne conseguì non poteva essere formalizzato in un algoritmo.
Poteva essere imbalsamato dai miseri interessi di parte o seppellito dagli avversari.
Per continuare a vivere poteva soltanto essere cantato.

La memoria è una macchina fotografica imperfetta

La memoria è una macchina fotografica imperfetta.
E la mente una camera oscura in cui i ricordi, sotto forma di immagini, tornano a galleggiare secondo procedimenti che ci rimangono soggettivamente ignoti.
Nel suo lavoro di selezione è pigra, spesso traditrice e quasi sempre mente.
Amplifica e riduce i fatti secondo logiche che spesso ci sfuggono.

Così si può dire che i ricordi non sono forse altro che album di fotografie inconsapevolmente truccate. Spesso magnifiche, ma comunque truccate.
Il risultato di un caleidoscopico lavorio che nella nostra mente non ha mai fine.
Che afferra e dipana fili variamente e strettamente intrecciati, facendo sì che ogni narrazione, alla fine, sia il risultato di ciò che rimane sedimentato tra oblio e rimozione.

La scrittura, invece, è frutto della possessione.
L’unica forma di conoscenza in grado di districarsi nei labirinti dell’illusione,
dell’incertezza e della verità.
La manifestazione di un demone di cui chi scrive è schiavo e consapevole servitore.
Quello delle storie che vogliono e devono essere narrate.

Alcuni personaggi sono esistiti.
Altri sono stati inventati.
Alcuni, se non fossero esistiti, sarebbe stato necessario inventarli.
Di altri si sarebbe potuto fare a meno. Soprattutto nella realtà.
Qualcuno è morto, mentre qualcun altro si è soltanto spento.
Per ora l’autore è sopravvissuto.

I nomi sono a volte quelli veri, altre volte no.
Alcuni non sono stati fatti perché non ne valeva la pena.
Certi non sono citati perché già fin troppo conosciuti oppure per riserbo.
Altri ci sono per forza.
Per i fatti narrati si può dire lo stesso.

Eravamo giovani treni lanciati in corsa,
inconsapevoli demoni e bricconi divini.
Abbiamo cavalcato onde di vino e di sangue,
di rabbia e di amore, di lacrime e riso.
Non importa in quali decenni siamo nati e vissuti.
Non ci hanno ancora uccisi tutti.

FINE DEL PRIMO “CANTO”

NOTE

1) Estate calda.
2) Giovani apprendisti operai.
3) Rivendite di vino popolari.
4) Consigli o comitati autonomi di quartiere.
5) Vasco Gonçalves. Presidente del consiglio del secondo (19 luglio 1974 — 30 settembre 1974), terzo (1 ottobre 1974 — 25 Marzo 1975), quarto (26 marzo 1975 — 7 agosto 1975) e quinto governo provvisorio (8 agosto 1975 —29 agosto 1975). Fu vicino alle posizioni del PCP, ma anche particolarmente sensibile alle istanze dell’ala radicale del MFA.
6) Il cosiddetto Gruppo dei Nove era formato dai generali Franco Charais e Pezarat Correia, il comandante Victor Crespo, i maggiori Melo Antunes, Vitor Alves, Costa Neves e Canto e Castro e i capitani Vasco Laurenço e Sousa e Castro. Tutti membri moderati del Consiglio della Rivoluzione.
7) L’infatuazione irresistibile di origine divina, la passione travolgente per gli antichi greci.
8) Tra gli antichi greci, in Omero per esempio, il termine daímones serviva indifferentemente a indicare sia gli dei che i demoni.

(6-CONTINUA)