di Girolamo De Michele

bagnasco.jpg«Colpirne uno per dissuadere tutti i collegi dei docenti italiani dal discutere qualsiasi questione che riguardi l’ora di Religione», secondo il coordinatore dei Cobas Piero Bernocchi. Che denuncia la diffusione di un “modello-parrocchia” nella scuola italiana. Di cosa si tratta?
Ecco i fatti.
Nel giro di pochi mesi, due docenti sono stati oggetto di pesanti sanzioni disciplinari. In entrambi i casi, il comportamento sanzionato metteva in discussione le modalità di applicazione del Concordato, ossia la presenza della religione cattolica nella didattica e nell’arredo della scuola pubblica italiana.

A febbraio Franco Coppoli, docente di Italiano e Storia presso l’Istituto Professionale Casagrande di Terni, è stato sospeso per un mese dall’insegnamento e dallo stipendio per aver staccato il crocifisso dalla parete dell’aula durante le proprie lezioni (peraltro riappendendolo prima di uscire dall’aula).croce_fisso.jpg
Il 20 maggio scorso Alberto Marani, docente di Matematica e Fisica del Liceo Scientifico Righi di Cesena è stato sospeso dall’insegnamento e dallo stipendio per due mesi per «una molteplice serie di comportamenti concernenti i doveri di ufficio e la dimensione relazionale e cooperativa, che costituisce un valore irrinunciabile per la scuola» (così recita una nota dell’Ufficio Scolastico Regionale). Tra questi comportamenti, «avere affisso nelle bacheche della scuola, durante il bombardamento di Gaza, 5 immagini di Handala (il bambino palestinese scalzo e sofferente) dopo aver usato “addirittura” la stampante della scuola» (Comunicato dei Cobas), aver messo pochi voti nel primo mese di servizio, e (soprattutto?) aver prodotto e distribuito un questionario sull’insegnamento della religione cattolica, dal quale emergeva la volontà degli studenti (quasi il 90%) di frequentare un insegnamento alternativo alla religione, se ne avessero avuto la possibilità. E in effetti il Collegio Docenti del Liceo ha, su proposta dello stesso prof. Marani, deliberato l’istituzione di tale insegnamento.
Sono solo casi isolati, o il nervo scoperto dell’insegnamento della religione cattolica comincia a vibrare? E se questa seconda ipotesi è fondata, perché?

religione-a-scuola-no-grazie.gifQuesti interrogativi si rafforzano alla luce di altri episodi, che non sembrano aver trovato altrettanta risonanza. Si tratta della pretesa, avanzata dagli Uffici Diocesani in almeno due regioni (Sicilia ed Emilia-Romagna), che l’idoneità all’insegnamento della religione cattolica sia subordinata alla frequenza di corsi dottrinari di durata triennale, e al possesso di «una dichiarazione (preferibilmente redatta da un parroco) sulla testimonianza di vita cristiana del richiedente»: così recitano le “Indicazioni per la disponibilità degli insegnanti su posto comune all’insegnamento della religione cattolica” redatte dall’Ufficio Catechistico Diocesano — Settore Scuola dell’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio in data 26 marzo 2009. Che concludono: «Per il mantenimento dell’idoneità è opportuno che, soprattutto in caso di variazioni o modifiche dei programmi ministeriali, gli insegnanti si mantengano aggiornati, e si impegnino a frequentare ogni cinque almeno un corso di aggiornamento».
Questa nota, va detto subito, non è nuova: già in passato si sono registrati tentativi analoghi di sovradeterminare con prerequisiti ad hoc l’idoneità all’insegnamento della religione: due precedenti sono qui e qui.

Ma proprio nella regione Sicilia, attraverso la Direzione Scolastica Regionale, è stata emanata una nota, in data 29 aprile 2009 [che può essere letta qui]; il Direttore Generale Di Stefano, intervenendo nel merito, premette che «viene segnalato da più parti che alcuni Uffici Diocesani imporrebbero la frequenza di corsi di aggiornamento, per rilascio dell’idoneità, a docenti della scuola dell’infanzia o primaria», e ribadisce che «tale imposizione, se realmente fatta, non sarebbe conforme a norma dato il carattere permanente dell’idoneità per il personale che insegnava religione cattolica nell’a.s. 1985/1986». E sottolinea, citando l’Avvocatura Generale dello Stato, che i requisiti di retta dottrina, testimonianza cristiana e abilità pedagogica possono essere oggetto, in caso di grave e accertata mancanza, della revoca dell’idoneità. E non, come sembra trapelare dalla nota diocesana citata, di una dichiarazione preliminare redatta ad un parroco, sulla testimonianza di vita cristiana.

Si dirà: fondata o meno la richiesta delle diocesi, essa non riguarda unicamente l’insegnamento della religione cattolica?
In apparenza, si: nei fatti, riguarda l’intera scuola pubblica italiana.
In primo luogo, perché se accolta si introdurrebbero elementi dottrinari e confessionali come prerequisiti all’esercizio della professione di insegnante.
E qui vale la pena di ricordare che, in assenza di docenti idonei o disponibili, l’insegnamento della religione cattolica (che è materia scolastica) può essere affidato a uomini di Chiesa nominati dalla Curia, anche privi dei necessari requisiti didattici (abilitazione all’insegnamento, superamento di un pubblico concorso, ecc.).
Ma soprattutto, non si tratta del solo insegnamento della religione cattolica. Perché la regolamentazione dell’insegnamento della religione cattolica ha formalmente riconosciuto all’insegnante che venisse privato dell’idoneità di non perdere il posto di lavoro, ma di essere spostato sull’insegnamento di “materie affini”. In altri termini, un insegnante i cui titoli di studio si riducono alla frequenza di corsi diocesani di aggiornamento e di una attestazione di vita cristiana da parte di un parroco potrebbe, attraverso questa procedura, by-passare concorsi, graduatorie e quant’altro e insediarsi, sopravanzando i precari che ne hanno titolo, su una materia. E nella scuola primaria tutte le materie sono “affini” alla religione cattolica.

Il Direttore Generale della Direzione Scolastica Regionale siciliana conclude la sua comunicazione con un diplomatico «Nella certezza della infondatezza delle notizie riferite».
Piacerebbe potergli dare ragione.