di Dziga Cacace

Ov81.jpg113-Tiburzi di Un Sincero Rompipalle, Italia 1996

Il record stagionale di non presenze al Lumière lo stabilisce questo sconosciuto film di tale Paolo Benvenuti. In quattro serate (sette proiezioni) totalizza la bellezza di un’ottantina di spettatori, polverizzando qualsiasi altro insuccesso della stagione. E perché mai? Sarà perché di questo film nessuno ne aveva mai sentito parlare? O è colpa della stampa, della mancata pubblicità e della distribuzione? O della qualità del film? Sarò una carogna, ma sincera: Tiburzi è angosciante. È un film civile, senza nessuna concessione, fino all’autolesionismo. Intorno a me uno spettatore rantolava, un altro russava come un orso in letargo. Io ho temuto a lungo di uscire dal cinema con le due palle su una carriola. Non dico di dare artificialmente un po’ di movimento alla vicenda, ma la scelta di lavorare poco di montaggio e di non smuovere di un millimetro la cinepresa da quel fottuto treppiede risulta, alla fine, mortale. Ora, padronissimo il Benvenuti di perseguire una poetica dell’immobilità — narrativa e visiva — però poi non stupiamoci se il film risulta pesante come un capitello corinzio. Sui genitali, però.


E la trama potrebbe anche essere intrigante: si racconta dell’uccisione del brigante ottocentesco Domenico Tiburzi, che tanti anni spadroneggiò in Maremma. Il prologo vede Silvana Pampanini cantarci le gesta del brigante. Primo brivido: qui sono cazzi. Agli occhi del popolo Tiburzi è un eroe senza macchia che amministra la giustizia meglio di quanto faccia il neonato Stato italiano. Dopo quest’esordio (con l’aiuto di alcuni quadri naïf), passiamo all’azione: un capitano dei carabinieri vuole incastrare il brigante che è tornato a farsi sentire, dopo una tranquilla latitanza. La trama si dipana seguendo l’inchiesta ma il ritmo, Dio, il ritmo! Certo che mi piace l’Ave Maria di Schubert – diceva Chuck Berry – ma c’è una battuta ogni venti secondi! E anche qui non si scherza. E poi, gli attori, cazzo! Marmorei! Ma da dove saltano fuori? Insomma il film magari si sopporta, ma ci si chiede perché la gente dovrebbe venirlo a vedere. E siamo d’accordo con i pochi soldi; e siamo d’accordo sulla legittimità delle scelte stilistiche di cui si diceva sopra; e vabbeh per gli attori… insomma a furia di dire vabbeh, d’accordo, etc. risulta che però il film è una rottura di coglioni mo-nu-men-ta-le e allora dico: ha ragione il fottutissimo pubblico! Non conosco assolutamente le condizioni di partenza per la realizzazione di questo film, ma se sono mancati i denari, cacchio, fate un corto! Se non altro lo vedrà più gente, sarà più fruibile, che ne so! Se poi vogliamo fare gli artisti che fanno i film per i loro tre quattro amici e se ne fottono di tutto (mercato, incassi, visibilità, sopportabilità), beh, allora andate tutti a cagare. Chiaramente adesso mi pento: il film ha delle scelte fotografiche interessanti (i bei paesaggi e le particolari ambientazioni) ed è coraggioso… ma… no, no: applauso di stima, caro Benvenuti, ma non mi freghi più. (Cineclub Lumière; 26/5/97)

114-Macbeth di Orson Welles, USA 1948

Grazie a una preziosa videocassetta di Pier, aggiungo alla mia collezione di Welles anche questa particolare rilettura del dramma shakespeariano. Welles, per vari motivi d’ordine economico e produttivo, gira il tutto in studio, ma l’estrema povertà in cui si deve muovere sembrano ispirarlo moltissimo: ecco inventivi costumi sospesi tra reminiscenze vikinghe e tartare e addolciti da qualche tartan, giusto per ricordare che siamo in una Scozia barbarica e persa nei tempi. Le scenografie sono visibilmente costruite con abbondante utilizzo di cartapesta ma, unitamente a luci secche e violente, contribuiscono a creare un clima allucinato e irreale molto espressionista. Il tutto è poi amalgamato dall’uso di un inglese (o scozzese, boh) arcaico e aspro, dalle erre arrotate e dalle consonanti gutturali e dure: “Macbeth, thou shalt sleep no morrr!”. Insomma, l’atmosfera c’è. In più il copione permette a Orson di interpretare un personaggio ricchissimo di sfumature. Macbeth sale sul trono di Scozia dopo aver massacrato i diversi aventi diritto. Ma il rimorso e il terrore di essere spodestato lo divorano. Insieme alla moglie istigatrice, viene assalito dalla follia: ha visioni, allucinazioni, incubi e s’interroga, fuggendo se stesso, nei sotterranei di un castello che sembrano i meandri di una mente devastata. In termini tecnici, è fuori come un poggiolo e i cortigiani intuiscono le sue malefatte, tanto che quando McDuff, legittimo pretendente al trono, si appropinquerà al castello dove Macbeth attende il suo destino, tutti si arrenderanno. Il “buono” McDuff, civile, leale e a capo di un esercito cristianizzato, avrà ragione dell’usurpatore in un ultimo duello. Macbeth scorre bene anche se il ritmo non è sempre sostenuto, ma alle stasi narrative in cui il protagonista s’interroga sul suo fato, seguono magnifiche scene di più ampio respiro come l’iniziale esecuzione di Duncan o il banchetto in cui Macbeth rivela la sua pazzia ai diversi commensali o ancora le scene preparatorie della battaglia finale. Tutte sequenze grandiose che ricordano da vicino alcuni brani di cinema ejzenštejniano (Ivan il terribile ma soprattutto Alexander Nevski). Decisamente bello. Ma si sapeva. (Vhs; 26/5/97)

115-Tarda primavera di Yasujiro Ozu, Giappone 1949

Prima o poi dovevo per forza incocciare in un film di Ozu. Idolo dell’idolo Bernardo, richiesto a chiare lettere sul librone coi commenti degli spettatori del Lumière, sempre esaltato dalla stampa specializzata, era lì, ad aspettarmi in una videocassetta registrata qualche mese fa, in una delle solite nottate di Fuori Orario. Confesso l’iniziale reticenza. Ozu… un nome che già incute paura: sarà un severissimo nipponico? Provocherà immediate tentazioni di seppuku davanti al video? Crollerò come ubriacato da una damigiana di sakè? NO! Bellissimo! Dolce, tenero e narrato con una leggerezza e una partecipazione commoventi. Siamo nel Giappone del primo dopoguerra; il paese, dove i segni dell’occupazione militare, merceologica e culturale americana sono suggeriti con controllato intento polemico, si sta rialzando in piedi, segnato dalla sconfitta ma già pronto alla rinascita, tra modernità e tradizione. La giovane Noriko accudisce il padre, un quieto scrittore. La loro vita quotidiana è trasferita sullo schermo con una dolcezza meravigliosa, tanto che una scena come quella in cui il padre si taglia le unghie dei piedi è mostrata con pudore poetico, giuro! (Ne Il ragazzo di campagna di Castellano e Pipolo – i Bokassa della cinematografia italiana – Pozzetto procedeva alla pédicure con una accetta). Noriko è generosa e affezionata al padre, il quale sente però l’esigenza che la figlia si crei una vita sua e vada in sposa a un pretendente. Il convincimento è lungo e deve scontrarsi con l’ostinazione di Noriko. Alla fine, non senza rimpianti dalle due parti, si accetta il cambiamento, doloroso ma necessario. Noriko, in ossequio alla tradizione, andrà in sposa a un giovane professionista che sembra “la copia giapponese di Gary Cooper” e che la regia ci lascia immaginare, ma mai ci mostra. La conclusione è malinconica ma densa di poesia, sottolineata da una regia mai intrusiva, che fotografa i rapporti intergenerazionali con obiettività, posizionando sempre la cinepresa ad altezza tatami. Veramente bello. (Vhs; 27/5/97)

Ov82.jpg116-Scarface di Howard Hawks, USA 1932

Bella gangster-story. C’è per tutti una prima volta e Scarface m’è proprio piaciuto, scritto, costruito e girato benissimo. Dopo una festa, in un lungo piano-sequenza, vediamo l’uccisione di Costello, il boss che controlla la parte sud della città. Inizia una guerra tra le bande che controllano il racket dell’alcol (sono gli anni del proibizionismo). Emerge un nuovo boss, il cauteloso Johnny Lovo. Il suo braccio destro, però, Tony Camonte, ha ben altre idee e aspirazioni ed emerge a vero e nuovo capo mafioso, eliminando tutti quelli che si parano sulla sua strada, compreso il suo principale. Ma il racconto dell’ascesa e della caduta di Scarface (perché sfregiato) è accompagnato dal torbido legame che lo unisce alla sorella, un legame fortemente venato d’incestuosità, come conferma l’emblematico finale. Scritto molto bene da Ben Hecht e recitato con convinzione da una bella serie di icone cinematografiche (l’eccessivo Muni, Raft, Karloff etc.), il film ha superbi movimenti di camera e una felicissima scelta fotografica venata d’espressionismo. Sotto l’illusoria scritta pubblicitaria che promette che “il mondo, un giorno, sarà vostro” si dipana la tragedia: la vicenda, con il contrappunto visivo delle numerose ed emblematiche croci, ricalca ben noti fatti di cronaca (le vicende di Al Capone) ma riesce a evitare qualunque didascalicità grazie al forte impianto drammatico. L’unico sfregio all’opera è apportato dai curatori dell’edizione italiana che, sostituendo la prima pagina di un giornale con titolo inglese, hanno la bella idea di utilizzare un quotidiano che annuncia, ben visibile, “Bob Dylan explains it all in Blood On the Tracks”. Per la cronaca Blood On the Tracks è uscito nel 1975. Vabbeh, giusto per fare i pignoli. (Vhs; 27/5/97)

117-Angeli con la faccia sporca di Michael Curtiz, USA 1938

La serata dedicata alle gangster-story prosegue con quest’altro film che avevo visto nella notte dei tempi e che ricordavo con molta approssimazione. Rocky Sullivan (un grintoso e manierato James Cagney) è un ragazzetto di quartiere che viene condannato a tre anni di riformatorio per un piccolo furto: la sua vita è segnata e, d’allora ai trent’anni, sarà un continuo entrare e uscire dal carcere. Dopo aver scontato l’ultima pena, ritorna sulla piazza deciso a riprendersi i soldi che un viscido avvocato (Bogey, in un ruolo antidivistico) aveva assicurato di tenergli da parte durante la detenzione. Ci sono complicazioni, parallelamente al rinnovato rapporto che Rocky instaura con un vecchio compagno di scorribande, oggi prete e impegnato a evitare che i ragazzi del quartiere diventino anch’essi malviventi. Rocky gode di grande stima da parte dei giovani teppistelli e quando sarà condannato alla pena capitale, nel concitato finale, il vecchio amico gli chiederà una prova di vigliaccheria, per distruggere il suo mito negativo che tanta ammirazione produce nelle nuove generazioni. La conclusione è un po’ banalotta (ma chi ci dice che Rocky non si caghi veramente addosso, davanti alla sedia elettrica?) ed edificante, ma il film ha un ottimo ritmo e la narrazione è fluida e coinvolgente. (Vhs; 27/5/97)

118-Cresceranno i carciofi a Mimongo di Fulvio Ottaviano, Italia 1996

A neanche cinque mesi dalla prima visione, il Lumière mi dà l’occasione di rivedere il David di Donatello 1997 quale migliore opera prima. A Natale m’aveva abbastanza divertito e, tutto sommato, m’era sembrato un prodotto riuscito. Sarà che stavolta manca la sorpresa, le battute sono ancora impresse nella memoria, la sala del Lumière conferisce più severità… boh, non ricordo cosa avessi scritto su Lo sguardo mutilo, ma il giudizio andrebbe rivisto con un po’ di cattiveria. Innanzitutto: se questo è il miglior esordio del cinema italiano del 1997, figuriamoci le altre opere prime. Seconda considerazione, più personale e decisamente molto più allarmante: ricordo pochi altri film italiani, quest’anno, a questo livello. E cioè, con tutti i difetti che si possono rilevare in questo filmetto, in ogni caso rimane veramente uno dei migliori prodotti italiani della stagione. E questo non è cattivo segno, è pessimo. Diciamoci tutto: Cresceranno i carciofi a Mimongo è un’opera ammiccante, sospesa tra la commedia e qualche tentazione autoriale (la bella fotografia). Ma la storia, semplice ai limiti della povertà, va avanti un po’ a tentoni, aggiungendo gag e situazioni per arrivare al traguardo della decenza degli almeno novanta minuti. E si sente. Il film ha molte pause e alcuni episodi sembrano appiccicati giusto per fare polpa. C’è qualche sputtanamento romantico (senza alcuna ironia, in un film che d’ironia per lo più, invece, vive) e il finale (ma il titolo, senza punto interrogativo, lo rivelava anticipatamente) è scanzonatamente lieto e se la cava giusto perché tutto si tramuta in fiaba. Vabbeh. Va però fatta una considerazione: il Lumière era vuoto in maniera desolante (causa Juventus, che andava a perdersi la Coppa Campioni a Monaco) e la proiezione non era, pertanto, accompagnata dalle continue salve di risate del pubblico, com’era avvenuto al Mexico di Milano a dicembre. Embeh? È che se la gente ride e schiamazza, anche tu, volente o nolente, ti accodi e inizi a belare nel gregge. Stavolta era come se tutte le scene durassero una ventina di secondi di troppo, mancando questa sghignazzata generale che, evidentemente, alla mia prima visione, aveva coperto tutti i momenti morti del film (l’astruso concetto è formalizzabile sotto lo storicheggiante nome di teorema di Ottaviano). In ogni caso, Sergio è un agronomo in cerca di lavoro: per trovare l’agognato posto di lavoro s’affida a un manuale i cui consigli vengono scanditi dalla voce di Piero Chiambretti. Aiutato dal fraterno e indolente amico Enzo (un simpatico Mastandrea), Sergio arriva infine a un colloquio di lavoro. Nel calderone c’è anche il ritorno di fiamma con Rita, che lo ha abbandonato per sposarsi con un altro, e i tanti amorazzi di Enzo. Gudizio finale? Massì, il film si fa vedere e, se il valore proprio non è particolarmente elevato, il valore relativo, nello squallido panorama italiano, è invece soddisfacente. Quasi. (Cineclub Lumière; 28/5/97)

119-L’albero, il sindaco e la mediateca di Un Matusa Rimbambito, Francia 1993

Strano film di Rohmer che alterna momenti irritanti o soporiferi ad altri più convincenti. Dunque: il sindaco socialista di un paese della Vandea decide di far costruire una mediateca, scelta che comporta il sacrificio di un secolare albero malato. La questione suscita diverse reazioni. Il maestro della scuola locale si oppone al progetto: il suo rifiuto diventa emblematico grazie all’intervento di una giornalista. L’affaire si risolve solo quando il progetto decade per mancanza di fondi, non prima, però, che la figlia del maestro non abbia instillato, con la sua logica solare e spiazzante, il dubbio nel sindaco. Rohmer vuole parlare un po’ di tutto: dei socialisti, degli architetti, del giornalismo, del consenso, della campagne abbandonate e quant’altro. Talvolta le osservazioni sono interessanti, talvolta sembrano le rifritture di argomenti trattati alla noia. I temi sono indubbiamente stimolanti ma il loro convulso affastellarsi nuoce alla chiarezza delle tesi esposte: spesso si cade in banalizzazioni deprimenti. La mimesi architettonica è giusta o no? Si vive meglio in città o in campagna? I socialisti sono di sinistra o reazionari? Le due cose si contraddicono? (Me lo chiedo io, non Rohmer). Non so, francamente si è più spesso sul versante della chiacchiera da salotto che su quello delle belle intuizioni. In ogni caso, poi, il film è girato con due lire e la regia gioca al documentario (lunghe focali, interviste ai protagonisti, sguardi in macchina etc.). L’idea che ho del cinema è un po’ diversa, eccheccazzo. Mah, sarà un caso, ma non becco mai l’opera giusta di Rohmer per comprenderne la profondità poetica e bla, bla. Vabbeh, il maestro ha settantasette anni, forse perde colpi. (Vhs; 29/5/97)

120-Cowgirl – Il nuovo sesso di Un Sopravvalutato, USA 1993

Sconclusionato apologo sulla diversità, che passa dal femminismo alla New Age, dall’amore lesbico a quello per la natura, in un pasticcio che vorrebbe invitare al viaggio fisico e psichico e che, invece, invita a spegnere il video con un principio di orchite. Van Sant sembra rincoglionito: il film procede a tentoni, abborracciato e insignificante. Sissy è una bambina dai pollici enormi: la sua vita sarà segnata da queste due immense protuberanze falliche. Inevitabilmente diventa la più irresistibile autostoppista degli U.S.A. Al suo esplicito richiamo digitale rispondono automobilisti, camionisti e anche aviatori: la bella Uma Thurman viaggia e conosce, finché non arriva in una fattoria dove vivono le cowgirl, sorta di nuovo sesso: vaccare femministe e mascoline. Finale tra il retorico e l’inconcludente. Peccato, ma Cowgirl non riesce a decollare e delude: una vaccata. (Diretta TV; 1/6/97)

Ov83.jpg121-Nashville di Robert Altman, USA 1975

In due parole: tre giorni a Nashville, capitale della musica country, mentre un indipendente candidato populista organizza un concerto per lanciare la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Quelle che oggi sembrano accettate convenzioni di linguaggio e di scrittura (e che all’epoca dovettero sembrare scelte molto sovversive) appaiono ancora fresche, innovative e convincenti. Le diverse vicende che s’intrecciano sono ben gestite e possiedono, nella loro frammentarietà, una notevole forza. Pensate all’algida figura di Carradine o a quella intensa della cantante di gospel che di lui s’invaghisce, dopo un lungo quanto ipocrita corteggiamento. E poi tutto il resto: la galleria di personaggi è fantastica; gli eventi, come al solito, sono grotteschi ma reali, realissimi e credibili, eppure narrati con leggerezza, con un distaccato e cinico humour che ne trasmette l’assurdità. Altman è censore delle manie, dei vizi, dello squallore dell’american way of life ma – mi sembra, perlomeno rispetto a opere recenti molto più acide – è un censore bonario: rappresenta la sua terra e i suoi abitanti senza cattiveria. Oddio, non vorrei essere frainteso: Altman è molto cattivo, ma più nel constatare che nell’inventarsi inediti bozzetti satirici. Le figure che costruisce sono talmente credibili e tragiche nel loro vissuto quotidiano che, quasi, il film potrebbe sembrare una candid camera che riprende di nascosto i suoi protagonisti. Tecnicamente sono fondamentali il bel montaggio, la varietà di obbiettivi e l’interessante utilizzo del sonoro (con l’incessante propaganda politica). L’original soundtrack è zeppa di canzoni country – molte composte dagli stessi attori/esecutori – genere per il quale non nutro particolare ammirazione, ma I’m Easy è stupenda. M’è piaciuto proprio. (Vhs; 3/6/97)

122-Briganti di Uno Impegnativo, Francia/Russia/Svizzera/Italia 1996

Un gruppo di grassi personaggi entra in una sala privata per assistere alla proiezione di un film. Il proiezionista è un paonazzo ubriacone che, per errore, proietta l’ultima bobina della pellicola e ci anticipa uno sconcertante finale. Compreso l’errore si riparte: titoli di testa (gli stessi appena visti) e siamo subito calati in un immaginifico medioevo. Ma le vicende del re, che combatte per l’occidente contro infedeli barbari invasori e ha in sposa una principessa zoccola, sono soltanto i sogni di un barbone che trascorre le sue giornate attaccato alla bottiglia, passando, incurante, tra gli avversi fuochi che dilaniano la sua terra. Siamo in una non meglio precisata porzione dell’ex impero sovietico. Non sappiamo chi combatte e per cosa, e, nella sostanziale indifferenza a quanto accade, vive anche il personaggio principale. Tra una sbevazzatta e l’altra (cioè ininterrottamente: dalla colazione alla cena la vodka è l’unica costante), il barbone sogna un glorioso passato dove è lui a vestire i panni del tirannico re, un passato lontano ma attualissimo quanto a crudeltà e prepotenza. Parallelamente a questo sogno cresce e si sviluppa un ulteriore piano narrativo: seguiamo, durante gli anni Venti e presumibilmente nelle stesse terre, l’ascesa al potere dei “comunisti”, l’occupazione sistematica del potere, l’utilizzo, e l’insegnamento alle giovani generazioni, della menzogna e della delazione. Infine il barbone, al presente, ruba un tappeto durante un’azione di sciacallaggio e decide di partire per la Francia. Qui continua a vivere sulla strada, incrociando la sua esistenza con quelle di altri mafiosi della sua terra d’origine che, invece, in Francia sono emigrati per rifarsi una vita e godersi i soldi dei loro traffici illeciti. Il film si conclude con la scena che avevamo già visto all’inizio della proiezione. I briganti, dunque, sono tra noi. Imperversavano durante il medioevo, sono proliferati durante la dittatura comunista e oggi, ancora una volta, la fanno franca. Non è certo la rivolta contro i padri che fermerà la spirale di violenza innescata dal brigantaggio operato su così vasta scala: questa è semplicemente risultante dall’esercizio secolare di una sopraffazione che ormai è entrata nel codice genetico. Opera originale, caustica e violenta, Briganti è un amaro ritratto, non localizzabile geograficamente ma emblematico, della crisi morale e politica che è seguita alla dissoluzione dell’impero sovietico ma che, in realtà, ha radici molto più lontane. Annebbiati da un alcol che è flagello sociale ma anche metafora di una schiavitù millenaria, i “civili” sono schiacciati da briganti che, una volta arrivati al potere, passano al raffinato culto dei vini, accettabile forma d’intossicazione e riconoscibile segno d’elevazione sociale. Otar Iosseliani adotta uno stile molto composto: la parola è quasi assente, parlano esplicitamente le situazioni; la reiterazione della violenza avviene, sempre uguale, in scenari diversi ma con stessi attori (in tutti i sensi). L’ironia è distillata con amarezza e, a tutt’oggi, non ricordo un film così spietatamente accusatorio nei confronti del potere comunista. Prima visione assoluta per Genova che, ponzandoci bene, è notevole. (Cineclub Lumière; 4/6/97)

123-Kansas City di Robert Altman, USA/Francia 1996

Dopo i brillanti acuti de I protagonisti e America oggi, il buon vecchio Altman sembra avere perso un po’ di smalto. Ho accuratamente evitato Prêt-à-portèr di cui ho sentito giudizi caustici, ma per Kansas City, un po’ per il soggetto – che mi sembrava interessante – e un po’ perché un film al Lumière è sempre gratis, ho preferito correre il rischio. Il film è, diciamo, tra il sei e il sette, ma è lontanissimo dalle cose migliori del polemico regista americano. La storia è abbastanza incasinata e la voglia di riassumerla è pari a zero; in ogni caso, come consuetudine, abbiamo diverse vicende personali che come tanti rivoli, confluiscono in un unico fiume narrativo, aiutate da un discreto montaggio e da un bell’uso del flashback (nelle prime scene). Chi mi ha proprio irritato è Jennifer Jason Leigh che, evidentemente, è regredita a una recitazione che sarebbe parsa stucchevole anche negli anni in cui il film è ambientato. Tutta una gamma di smorfie e tic falsissimi. Logico che salterà fuori in qualche intervista che s’è impegnata allo spasimo proprio per ottenere questi deprecabili risultati. A parte questa personale idiosincrasia, il film, per quanto un po’ lento, scorre abbastanza bene anche perché la musica fornisce un ottimo legante tra le varie parti. Semplicemente straordinaria poi una jam session con botta e risposta a colpi di saxofono (uno dei due duellanti è Joshua Redman, se non erro). Insomma, decente: begli attori (a parte quella faccia da stronza di cui ho già detto), un’ottima veste produttiva, una buona ricostruzione di Kansas City degli anni Trenta (“Ma tu, c’eri?”) e una fantastica colonna sonora. Per cui, tutto sommato, n’è valsa la pena. (Cineclub Lumière; 6/6/97)

Ov84.jpg124-Nuvole in viaggio di Aki Kaurismäki, Finlandia 1996

Torna il gelido umorismo dell’idolo della critica e di certe frange estreme dei famigerati finto-punk. Come si può evidentemente intuire, non amo in particolar modo le opere di questo regista finlandese. A essere sincero non mi dispiacciono neppure, ma sicuramente non trovo che siano capolavori, così come vengono spesso definiti dalla stampa specializzata. Nuvole in viaggio viene presentato, nei trailer, con due lapidari giudizi, a firma Kezich e Bignardi. Va da sé che possa nutrire, quindi, qualche dubbio. E invece il film è carino. Un po’ come in Ho affittato un killer, abbiamo l’accumularsi di tutte le sfighe possibili, per poi arrivare a un finale redentore che ci regala un bel sorriso. La narrazione è scandita con il solito ritmo e, sarà stata la mia strepitosa forma o il fatto che un caffettone mi stesse tenendo sveglio, però non ho assolutamente sofferto della nota sindrome di Kaurismäki, quella strana patologia per cui, seduti in poltrona, si cambia postura ogni 20 secondi tentando di rimanere svegli. Nei casi più gravi (vedi alcune parti del pur carino La fiammiferaia) pur di tenere gli occhi aperti alcuni arrivano a infliggersi anche qualche punizione corporale, dal classico pizzicotto, fino alle dita nel sedile reclinabile. Stavolta no. Un leggerissimo tedio verso la fine del secondo tempo l’ho pur provato, ma il film è scivolato bene e il classico stile minimalista del regista non m’ha minimamente irritato. Marito e moglie (dai nomi ugro-finnici, già belli e dimenticati) sono in bolletta e, nel giro di pochi giorni, diventano contemporaneamente disoccupati. Disperata ricerca, disavventure, umilianti proposte etc., fino a un lieto fine prevedibile ma soddisfacente, con i due personaggi e il loro cagnolino a guardare le nuvole che finalmente lasciano spazio al sereno. Ci sono i consueti interni (dalle pareti spoglie, ma colorate a tinte bluastre), i personaggi fanno a gara a chi parla di meno e l’umorismo algido del regista è distillato con parsimonia. Il tutto è accompagnato da sconosciuta musica pop finlandese, con l’eccezione della splendida prima scena, quando entriamo nel ristorante Dubrovnik e conosciamo la protagonista accompagnati da una struggente blues ballad (Lonesome Traveller) accarezzata sui tasti del pianoforte. Ripeto, Nuvole in viaggio m’è piaciuto e m’è addirittura venuta voglia di scoppiettarmi anche gli altri film che non conosco di questo pazzoide finnico. Chissà. E magari li vedo con Ferro che, tre anni fa, non sapendone niente, alla visione dei titoli di testa di Ho affittato un killer esclamò, alla didascalia “regia di Aki Kaurismäki”: “Aaah! Un film giapponese, dunque!”. (Cineclub Lumière; 7/6/97)

125-Figurine di Giovanni Robbiano, Italia 1997

Il sacrificio di dodicimila lire tonde può sembrare una follia – proprio adesso che tento d’entrare in Europa – ma talvolta bisogna tirare la cinghia: un esordio italiano, anzi genovese, che racconta dell’infanzia albarina di un bambino della fine degli anni Sessanta. Come rinunciarvi? E poi i giudizi raccolti tra amici e conoscenti (per quanto viziati dal fatto che, di alcuni, il regista è stato insegnante di sceneggiatura) erano abbastanza favorevoli, per cui… Rischio! È una domenica d’inizio giugno e l’estate è alle porte: meglio il fresco di una sala cinematografica che l’angosciosa radiocronaca del Genoa che tenta a Ravenna un’improbabile promozione in serie A. Il cinema è il disprezzato Ritz (e non è un caso: uno dei proprietari della sala è cosceneggiatore del film) dove quest’anno ho visto ottime cose (Le onde del destino e When We Were Kings) ma ho anche avuto qualche travaso di bile, visto l’orrendo pubblico che frequenta la sala: un pubblico omologo a quello degli abbonati a teatro, classiche oche da pathé che s’ingoiano tutto. S’inizia con un corto, di nuovo genovese. Dove, di Lorenzo Vignolo, è un sentito omaggio al cinema; l’idea è carina, la realizzazione appena decente (comprensibile, tuttavia, vista la produzione di Zerobudget) e i titoli di coda durano quasi come le venti inquadrature del corto. Mah! Ed ecco Figurine. Alberto Donelli frequenta la quarta elementare in una scuola di Albaro. È tifoso genoano (è l’anno della retrocessione in C) e sta cercando disperatamente una figurina per completare la raccolta dei calciatori. I suoi affetti sono divisi tra il vecchio nonno comunista e la bella madre, mentre il padre è una figura meschina che gli è estranea. Gli vieta l’innocente hobby delle figurine (coperto, in segreto, dalla madre) e lo vorrebbe a sua immagine e somiglianza: triste e squallido funzionario della Finanza che subisce la tentazione pubblicitaria del Cynarone. Un giorno la maestra di Alberto è rimossa dall’incarico per isteria manifesta: arriva il supplente Fossa, un giovane maestro libertario e sinistroide. Mentre la ricerca della figurina del vicentino Bertazzoli assorbe le energia di Alberto e del suo amico Ghio – e li porta a una simbolica scoperta del mondo (le figurine vengono cercate nel Centro Storico o a Ponente, affrontando veri e propri viaggi) – la madre diventa l’amante del supplente e il suo rapporto con il marito si logora. Tutto finisce più o meno bene, ma le didascalie finali, in realtà, ci trasmettono il senso tragico degli anni che sarebbero venuti: la vicenda si conclude il 12 dicembre 1969, quando una bomba fascista diede inizio agli anni Settanta. Beh… A parte qualche caduta veniale (Jannacci che fa Jannacci, Scarpati che è Scarpati, le didascalie finali, il pesto in tutti i piatti) il film regge molto bene, sia a livello di scrittura che dal punto di vista tecnico. Genova si vede poco, ma mai in maniera banale e la fotografia sa ritagliare i luoghi che in trent’anni sono rimasti immutati (le acciaierie di Cornigliano). I personaggi sono ben tratteggiati, la vicenda ha un certo respiro e la cinepresa si concede anche qualche bel movimento senza sembrare leziosa. Un film convincente e carino, in cui l’omaggio a Truffaut (Donelli = Doinel) o l’ipotizzabile autobiografismo non pesano. Vedremo in futuro, ma per adesso va bene. (Cinema Ritz; 8/6/97)

(Continua – 8)