di Dziga Cacace

0v61.jpg88-Le mépris di Jean-Luc Godard, Francia/Italia 1963

A distanza di tanti anni dalla visione della versione italiana, vedo finalmente l’originale babelico, in cui tutti i personaggi parlano la loro lingua originale (il che motiva la presenza continua di una segretaria traduttrice, che, nell’italica edizione ripeteva idiotamente ciò che avevamo appena sentito) e, anche se la memoria non mi aiuta più di tanto, posso subito notare alcune fondamentali differenze. Si parte con i titoli di testa recitati da Godard e la struggente musica di Delerue che subito imposta il senso tragico della vicenda (quando nella versione italiana c’è un cafonissimo jazz da piano-bar). Piccoli è Paul Laval, uno sceneggiatore diviso tra l’amore per Camille (la Bardot), l’impegno politico e artistico, la servitù intellettuale e le meschine aspirazioni materiali. Divago: la Bardot, dimenticatevi la vecchia bacucca lepenista o la pasionaria patetica che vuole salvare le foche. Qui è splendida e Godard non dimentica di farcelo notare. Torno sul pezzo: Camille si rende conto dell’ambivalente opportunismo del compagno e gli annuncia il suo disprezzo, dopo una lunga e intensa scena ambientata nel salotto della loro borghesissima casa romana, vero motivo dei compromessi artistici che lo sceneggiatore accetta. I poli tra cui oscilla Paul sono l’integrità morale di un vecchio regista (Lang, la figura più limpidamente positiva del film) e l’arroganza di Prokosch (il perfetto Palance), un produttore cinematografico americano che parla con frasi tratte dalla Bibbia e che vorrebbe stravolgere il film del cineasta tedesco.


La scena in interni di cui dicevo prima non è immediatamente digeribile, ma è assolutamente straordinaria. I dialoghi crescono impetuosamente e la presa di coscienza della fine del rapporto tra i due individui è, al contempo, poetica e credibile. “Più dubbi si hanno e più, con falsa lucidità, speriamo di chiarire ciò che il sentimento ha reso oscuro”. Una gita alla Villa Malaparte, a Capri, palesa ulteriormente la fine del rapporto: Camille abbandona Paul e se ne va assieme all’avido produttore americano. Mentre Paul legge l’amara lettera d’addio in cui è denunciata la sua ipocrisia, in montaggio parallelo, avviene l’incidente mortale che nell’edizione italiana chiudeva il film. Qui, si va ancora avanti. Il film di Lang procede, quasi a dimostrare l’ineluttabile destino dell’integrità artistica sull’ipocrisia. Giocando tra tantissime citazioni (Rossellini, , Renoir, Brecht, se stesso etc.), Godard si concede anche una cinematografia in perenne movimento e un montaggio esaltante. Subisce e gioca con il fascino sensuale della bella nudità della Bardot (le numerose “fotografie” del florido sederino) e non esita a infilare una bella bestemmia o provocatori riferimenti alla politica italiana (il protagonista s’è procurato una tessera del P.C.I.). Un film densissimo e impegnativo che, per quello che il mio cervellino mi ha permesso di cogliere, m’è sembrato splendido. (Vhs; 28/4/97)

89-Basic Instinct di Paul Verhoeven, USA 1992

Mettiamo da parte tutti i pregiudizi: abbiamo un prodotto dichiaratamente commerciale. Una sceneggiatura azzeccata, due indovinati attori e una regia professionale e sicura. E allora, una volta tanto, ecco un film che riesce a mantenere quello che promette: due ore di buon thrilling. E anche la carica erotica promessa, che in realtà è più suggerita che esplicitata, è palpabile e contagiosa. Uno dei giudizi critici più famosi del film è rimasto lo storico “Il film non è granché, ma ti viene una voglia di…”. E del resto, quale spettatore maschio, eterosessuale e sano di mente, non rischierebbe volentieri una trentina di punteruolate nel collo, pur di farsi la scopata del secolo con Sharon Stone? E in realtà, a parte la frazione di secondo in cui s’intravede la pelliccetta della protagonista, è più una questione d’atmosfera che di immagini nude e crude. Non so cos’avranno mai sforbiciato i censori U.S.A., ma nella versione italiana, unrestricted, non si supera certo la media di culi, tette e peli, normalmente e maschilisticamente tollerata nel cinema europeo (si pensi al maestro Antonioni, cui la caritatevole Fico asciugava la bava alla bocca durante le riprese di Al di là delle nuvole). Il giallo, a ogni modo, funziona e regge fino alla fine. Siam d’accordo che la San Francisco notturna, le cui mille luci si riflettono sull’asfalto bagnato, è un po’ risaputa, così come gli immancabili inseguimenti per le ripidissime strade della città californiana, ma in fondo sono peccatucci veniali. La trama non ve la racconto, ma v’assicuro, nella categoria dei film di genere, questo è uno dei migliori degli ultimi anni. (Vhs; 28/4/97)

90-La signora ammazzatutti di John Waters, Usa 1994

Torna il poeta dell’ascella della costa atlantica, Baltimora. Stavolta Waters costruisce il ritratto di una tremenda mamma americana, una cereal mom (come nel titolo originale) che nutre i suoi figlioli, a colazione, con i sanissimi cereali; ma anche una mamma “seriale”, fatta con lo stampino e uguale a milioni di altre madri, e ancora, e soprattutto, una serial mom, dove mom è sinonimo di killer. Abbiamo una famigliola che non desterebbe sospetti: buona borghesia, rispettabile e stimata. Sennonché la candida e amorevole madre, Beverly Suthpin (la brava Turner), ha una doppia vita. Contraltare del suo amore per gli uccellini, della sua cura nel gestire la casa, del crescere i figli sani e robusti e del non tollerare “parole marroni” (merda, p.es.), sono le incredibili telefonate minatorie a una vicina che ha osato fregarle il parcheggio al supermarket. Il crescendo d’insulti, che culmina in un leggendario pussy face (ehm, faccia di fica), potrebbe sembrare un’innocua debolezza. Ma il fatto che collezioni articoli sui serial killer e che Charles Manson sia un suo idolo destano qualche preoccupazione. Più avanti uccide un professore che ha dubbi sulla passione del figlio per i film dell’orrore, massacra una odiosa anziana che non riavvolge le videocassette e accoltella un tizio che non usa il filo interdentale, in un crescendo d’inarrestabile follia. Arrestata, affronta un processo in cui inchioda tutti i testimoni alle loro personali miserie, smontandoli e diventando – libera – idolo delle femministe. Il film procede a strattoni: ci sono impennate di pessimo gusto assolutamente godibili (lo scaracchio in faccia a un bambino, gli scambi d’insulti, etc.) e altri momenti, invece, anonimi. E, anche se la feroce satira di Waters sembra un po’ annacquata, il film si fa vedere abbastanza piacevolmente. (Diretta TV, 29/4/97)

91/92-L’età acerba di André Téchiné e Portrait d’une jeune fille de la fin des année 60, à Bruxelles di Chantal Akerman, Francia 1994 e 1993

Vessato da un principio d’influenza, rinuncio per l’ennesima volta ad andare in radio con Pier a parlare di cinema. In un sussulto d’orgoglio decido, però, di seguire Barbara e Raffa in sala. Mi portano a un cineclub dove, con qualche raggiro, sono l’unico a pagare la tessera per una rassegna intitolata Tous les garçon et les filles de leur âge. La rassegna è organizzata da un’associazione cinematografica chiamata Pandora. Tra gli organizzatori un’amica di Pier, “la” Giorgia, che non sta ferma un secondo e che quando cammina trascina i piedi, cosa che durante la visione m’irrita profondamente. La Pandora pubblica una bella newsletter (Rapporto confidenziale, gran titolo), curata e interessante e soprattutto scevra dei refusi tipografici che hanno piagato il fascicoletto che regaleremo agli spettatori della rassegna Paris nous appartient, organizzata da Hilda e me al Lumière. Spinto dall’invidia e dalla curiosità mi chiedo: dove cacchio prende i soldi questa benedetta Pandora tanto da permettersi la pubblicazione di una newsletter bimestrale da distribuire gratuitamente in un cinema desolatamente vuoto? Boh. Comunque prendiamo posto e si parte con L’età acerba di Téchiné, che già avevo perso l’anno scorso al Lumière e che era evidente dovessi, prima o poi, vedere. Siamo negli anni Sessanta, in Francia. Attraverso gli occhi di alcuni adolescenti, assistiamo al loro passaggio al mondo degli adulti. Si mescolano prese di coscienze sociali e sessuali, in un racconto ben gestito, delicato e intenso. Particolarmente azzeccata l’idea di non privilegiare un punto di vista specifico: tutti i personaggi sono, a turno, principali e di ognuno possiamo cogliere la differente crescita. Non è propriamente il cinema che m’appassiona, ma sarei poco sincero a non ammettere che il film m’è piaciuto. A fine proiezione sento la gola che arde, barcollo, mi dolgono gli arti e ho una leggera “imperlinatura fronte” di fantozziana memoria. Apprestandomi al ritorno a casa, vengo messo di fronte a un odioso diktat organizzato da Raffa: Barbara e lui rimangono a vedersi anche il secondo film. Non ritenendomi in grado di tornare a casa solingo, subisco. E, francamente, non ne vale la pena. Il secondo film è un mediometraggio che ci racconta la giornata di una studentessa belga durante il fatidico 1968. La politica, il sesso, la musica etc., etc. Brava la giovane attrice, ma troppo derivativa la regia. Nel voler omaggiare la Nouvelle Vague, la Akerman, si concede tante libertà (per esempio l’ambientazione negli anni Novanta), e il gioco diventa troppo sofisticato per non sembrare uno sterile esercizio. Dopo che mi hanno costretto a sorbettarmi ‘sto “ritratto della giovane ragazza bla, bla”, Raffa e Barbara provano timidamente a convincermi a seguire anche il terzo film della serata: un prodotto della Barbosa, il cui nome m’evoca la funesta visione di Le persone normali non hanno niente d’eccezionale. Hanno pietà di me e ce ne torniamo a casa. Accendo la radio e mi sintonizzo su Radio Onda d’urto per sentire le belinate di Pier. Lo colgo mentre ciangotta narcisisticamente con il compare Enrico. Rispetto alle trasmissioni dell’inverno scorso mi sembrano un po’ ingessati: non c’è più quel glorioso casino… non so, paiono ascoltarsi compiaciuti. Lo capto nell’etere, incredulo, mentre esalta Pane e fiore, un film iraniano, e mentre commenta il film che ha vinto il Pardo d’oro a Locarno. Non so, sarà la parola Pardo (che evoca visioni crudamente sessuali) in bocca a Pier, sarà che avrei voluto esserci anch’io in trasmissione, sarà che Pier di solito odia cordialmente i film iraniani… Boh, decido di non chiamarlo, spengo la radio e me ne vò a dormire. (Cineclub Pandora; 3/5/97)

93-Olympia, Fest der Schöneit’ di Leni Riefenstahl, Germania 1936

Seconda parte, a due anni dalla rivelatrice visione del Lumière. Ebbeh, siamo a livelli altissimi. Sia chiaro, qua e là c’è qualche pausa, talvolta il piglio puramente cronachistico prevale sull’invenzione cinematografica, le notazioni di folclore (il tifo, per esempio) abbondano, così come le premiazioni diventano presto ripetitive… Però bastano i quattro minuti dedicati alle gare di tuffi per rendersi conto che Olympia non è un semplice documentario che rende, più o meno bene, conto dell’avvenimento sportivo, oscillando tra cronaca e bellissime immagini. Le sequenze con i tuffatori che, leggerissimi, si librano nell’aria per poi ricadere nell’acqua senza sollevare uno schizzo, sono un autentico capolavoro di partecipazione cinematografica. E le ombre degli schermidori? Insomma, nelle tre ore e rotti complessive di Olympia, ci sono cronaca, documenti ma anche tantissima passione emotiva: c’è una regista che inventa un modo diverso e nuovo di fare cinema. Si può stare a discutere per dei secoli se la bellezza apollinea che la vecchia Riefenstahl indaga con occhio affamato sia un puro compiacimento estetico di matrice nazista o meno; rimane il fatto che, la marpiona, il bello lo riconosce e lo esalta con maestria. Gran film e grandissima regista. Un po’ nazista, certo. (Vhs; 4/5/97)

ov62.jpg94-Ecce bombo di Nanni Moretti, Italia 1978

Quando il Lumière propone roba che ho già visto o che non voglio vedere, come stasera (il ciclo su Kutz, regista polacco il cui nome evoca torture medievali), ecco che ho l’imbarazzo della scelta: che sia la volta buona per attaccare la pila di videocassette di Bergman che ho diligentemente registrato in una settimana di scarso sonno? No, non ho voglia di emozioni inedite: voglio rifugiarmi in un classico in cui trovare conferme. Voglio il piacere del risaputo. E allora, concorde mia sorella (che non può credere di aver scampato una sovietica mattonata), si opta per Ecce bombo del grande Nanni. Riassumervelo mi sembra una cacchiata e poi lo sappiamo tutti a memoria. O.K., però non posso cavarmela così a buon mercato. E allora beccatevi ‘sto impiegatizio elenco delle cose che (come in un tema delle scuole medie) hanno suscitato emozioni nel babbeo che scrive. Ecce bombo ci racconta i famosi “giovani”. Com’erano a metà degli anni Settanta, come vivevano la politica, l’amicizia e la sessualità (se Moretti leggesse queste belinate la sua reazione sarebbe molto umiliante). Ma l’angolazione da cui Moretti riprende il suo alter ego Michele Apicella e i suoi amici è assolutamente inedita per l’Italia e soprattutto per la cinematografia degli anni Settanta. I sovversivi dei fratelli Taviani, un po’ per l’esplicita citazione che ne viene fatta, un po’ per la simile vena surreale, può essere pensato come l’illustre progenitore del film, ma, qui, la satira “politica” è stemperata nella bella scrittura dell’intimità dei personaggi. Eh sí, perché in questo film si ride a crepapelle (e citare i tanti momenti sarebbe lungo e noioso, ma valga per tutti il generico cinematografico che cerca una parte e confida: “Little Tony è pazzo!”) ma si tocca anche il disagio della solitudine e dello spaesamento. Tutto il film, sostanzialmente, ci parla delle difficoltà comunicative di un gruppo di amici, alcuni tristi ma teatrali e vitali (come s’autodefinisce Michele), altri solo tristi squallidi, come l’amico che all’annuncio di propositi suicidi si becca un bell’applauso. Questo ritratto, come detto, sa essere leggero, stralunato, decisamente divertente: Moretti riesce a fare constatazioni amare senza essere né pedantemente palloso, né banalmente disimpegnato. E in più sa concedersi anche due intensi ritratti drammatici: le figure della madre di Michele e di Olga, l’amica malata e sola. I personaggi tentano disperatamente di comunicare il loro disagio: non ci riescono tra padri e figli, tra amici, tra ragazze e ragazzi (l’esilarante telefonata di Michele a Flaminia), tra studenti e professori; il disumano urlo di Vito scarica la rabbia repressa di una generazione che, proprio grazie a film come questo, iniziava a sottrarsi alla cappa ideologica che tutto sembrava aver coperto. Quello che poi verrà criticato come compiaciuto narcisismo è bilanciato da impietose considerazioni: “come sono fatto male, come mi disprezzo”; “mi faccio tristezza a me, figuriamoci agli altri”. Michele sente che fa parte di una generazione che ha aspettato il sole dalla parte sbagliata ed è ostile, intollerante, adorabilmente insopportabile come in tutti film a venire. La ricerca di nuovi rapporti interpersonali porta a riunioni di autocoscienza, alla ricerca di “aggregazione” negli eventi musicali (il disastroso festival “Riprendiamoci la vita”), alla vita in comunità, alla autogestione delle radio e delle tivù libere. Ma forse, come sottolinea il finale crepuscolare, basta la semplicità di un pallone in una notturna piazza vuota, per ritrovarsi. La scrittura è spezzettata in tante brevi scene e, anche se le riprese possono sembrare semplici, la regia regala alcuni momenti, per me, straordinari: il carrello all’indietro sulla spiaggia lacustre dove Michele parla con Silvia; quello circolare in un’assolata e deserta piazza romana o ancora la scena in cui Michele guarda la sorella e i suoi amici, guardato a sua volta dal padre. Non so, è un film stupendo. Mi rendo conto che sto scrivendo a vanvera, ma, come sempre, di fronte ai capolavori mi blocco. Anch’io, sotto il composto sguardo di Buster Keaton, mi pongo inquietanti dubbi: ma cosa cacchio è successo in Portogallo? Dove finiranno i soldi per la Gescal? “Quando i miei genitori smettono di mantenermi, io, che cazzo faccio?”. Beh, verrà il giorno in cui, secondo la bella citazione di Che Guevara (“…rivoluzionari tutti i giorni…”), smetteremo di “fare finta” e, finalmente, due alla meno uno farà trentuno. Ecce bombo: stupendo. (Vhs; 4/5/97)

95-Mars Attacks! di Tim Burton, USA 1996

Strano tipo, questo Burton. Non avendo ancora visto né il secondo Batman The Nightmare Before for Christmas (le sue cose migliori, secondo i critici) non posso fare alcuna dichiarazione in merito alle sue capacità, ma Beetlejuice mi aveva letteralmente fatto cagare mentre, obiettivamente, il primo Batman aveva mostrato un’insospettata ironia e delle bellissime scenografie. Apprezzato Ed Wood, sono stato conquistato anche da questo divertente Mars Attacks! Certo, siamo a livelli di puro intrattenimento, ma intelligente e ben costruito. Il film scorre bene e non si può provare che simpatia per gli ometti verdognoli che vogliono distruggere il nostro pianeta. La loro tentata conquista della terra va avanti a proclami di pace e inviti alla trattativa, mentre massacrano con macabro sollazzo tutto ciò che gli si para davanti. E in fondo anche il regista non nasconde il gusto compiaciuto con cui fa piazza pulita dei simboli del potere dell’umanità. Tra una citazione di Hazzard e de Il dottor Stranamore, si arriva all’immancabile lieto fine, ma la vittoria sugli alieni grazie a un melenso e atroce disco di country (con una lap-steel lancinante) la dice lunga. Ottimo lavoro, arguto e, soprattutto, non presuntuoso. Belli gli effetti speciali (Lucas: Light and Entertainment), le animazioni (sia con pupazzi che con computer graphics) e le inventive scenografie. Bravi attori e, soprattutto, per la terza volta in un anno, l’intrigante Natalie Portman, per cui prevedo una fulgida carriera. Mi sono divertito assai. (Cineclub Lumière; 5/5/96)

96/97-Nanuk l’eschimese e The Land di Robert J. Flaherty, USA 1922 e 1941

Ennesima meritoria iniziativa promossa dal Lumière: una bella rassegna sul maestro Flaherty. Chiaramente il pubblico genovese non sembra gradire più di tanto la proposta ma tant’è, bisogna insistere. Per quanto l’abbia visto da poco, son tornato a godermi le sventure del povero eschimese. La più consistente novità, rispetto alla versione che ho recensito ne Lo sguardo mutilo (n°262), è l’involontaria comicità delle didascalie a cura della Società Anonima Stefano Pittaluga. Si esordisce, dopo il titolo, con un’avvertenza: “Cinematografia realizzata a 56 gradi sotto zero”. Per il resto si accentua lo sguardo paternalistico nei confronti del buon selvaggio, sfottendolo quando non capisce come funziona un fonografo o definendolo “barbaro” per come finisce, dopo la cattura, gli animali che caccia. A parte questa nota di colore, il film risulta sempre molto evocativo e, con tutti i limiti imposti dalle condizioni tecniche e atmosferiche, realistico. La pellicola era rigorosamente muta e al secondo minuto della proiezione c’è stata un’allarmante defezione. Va detto che, a parte qualche cedimento per sonno, il pubblico (che poi non era così esiguo) ha retto bene fino in fondo. Tra i convenuti anche un curioso personaggio che, manco a farlo apposta, s’è seduto dietro di me: un anziano che ha palleggiato la dentiera tra le gote per un’oretta buona, producendo rumori abbastanza stomachevoli. Per fortuna è stato uno dei pochi che non s’è ciucciato anche il secondo film. Nonostante un inconsueto applauso del pubblico a fine proiezione, devo dire che The Land non m’ha impressionato per nulla. Il documentario (commissionato dal governo USA nel 1940 e distribuito solo a fine conflitto perché deprimente – e la decisione la dice lunga) inizia con un accorato appello alla salvaguardia del suolo nazionale impoverito e minacciato dall’erosione. Più avanti il tono cambia e si passa al problema della disoccupazione, incongruamente accostata all’esaltazione della meccanizzazione delle campagne che, probabilmente, di questa disoccupazione è corresponsabile. In una confezione francamente anonima (a parte qualche bel primo piano e alcune intense sequenze che ricordano Furore) il film giunge a conclusione senza smuovermi dall’indifferenza. (Cineclub Lumière; 6/5/97)

98-L’odio di Mathieu Kassovitz, Francia 1995

Parte finalmente la rassegna Paris nous appartient, la terza edizione del magico connubio Lumière/Facoltà di Architettura organizzato da Hilda e me. E, va detto, parte decisamente bene. Come nelle serate d’inaugurazione degli anni passati abbiamo avuto l’auspicato pienone, con la sala pienissima e almeno una trentina di persone sedute per terra. Chiaramente, come tradizione, sono arrivato davanti al cinema alle 20 e 20 per potermi gustare con trepidazione e in tempo reale il fallimento o il successo dell’iniziativa. Dopo i consueti due cannoli due, che ogni anno mi concedo nella pasticceria davanti al cinema, ho constatato l’arrivo dei primi spettatori: alle 20 e 40 c’erano già una ventina di persone. Poche o tante? Alle 21 in punto la consueta coda fuori dal cinema e l’agognato ritardo della programmazione che, immancabilmente, significa successo. Alle 21 e15 si parte. Prendo il microfono e bofonchio tre belinate in croce, non mancando di regalare alla folta platea qualche bel refuso mentale. Poi lascio la parola ad Antida, la prof. che deve presentare il film. Il suo intervento è straight to the point e piace, per quanto lei non se ne dica soddisfatta. Infine, ore 21 e 35, si parte. Per quanto avessi visto L’odio soltanto un anno e mezzo fa, ne avevo un ricordo abbastanza confuso: rimango folgorato dal notevole uso di Kassovitz della cinepresa. Il primo tempo è pressoché tutto girato con bellissimi movimenti di camera e con tante argute invenzioni narrative, al punto che affiora il sospetto dell’autocompiacimento. L’apparato tecnico è notevole e, anche se il ritmo è abbastanza blando o perlomeno non frenetico come si potrebbe supporre, il film scorre bene, intenso e coinvolgente. Certo, lo trovo molto meno imparziale della prima volta e tante considerazioni si potrebbero fare sulla confezione del prodotto, ma non mi va: il film m’è piaciuto, e tanto mi basta. Quella di Vinz, Said e Hubert sarebbe una delle tante giornate passate a ciondolare e scherzare, sennonché, la sera prima, i violenti scontri con la polizia hanno sconvolto la banlieue dove vivono. Un poliziotto ha perso la rivoltella e Vinz, che l’ha trovata, cova un forte sentimento di vendetta, tanto più che un loro amico, Abdel, è stato massacrato dai P.S. ed è ricoverato in ospedale in coma. La giornata passa tra mille incontri e scontri, ascoltando storie dolorose o divertenti, confrontandosi continuamente con i poliziotti, stordendosi grazie a un po’ di fumo, scoprendo una Parigi “altra” dove i poliziotti sono tanto educati da darti del lei e dove si può mangiare gratuitamente a un vernissage di astrusa arte moderna. Quando riescono a tornare nella banlieue dalla quale provengono, si consuma il dramma. L’odio chiama l’odio e la finzione cinematografica che ha unito per un’ora e mezzo un arabo, un ebreo e un africano e li ha fatti passare indenni tra le reti del nemico (gli integrati, i normali, i borghesi, quelli che si fanno trasportare dalle scale mobili) svanisce per sempre sotto gli occhi di Beaudelaire, al suono di un colpo di pistola. Impossibile essere freddo e obiettivo: bellissimo. (Cineclub Lumière; 7/5/97)

99-Society – The Horror di Brian Yuzna, USA 1989

Dopo che il cinema horror ha materializzato per anni i babau del nostro inconscio (arrivando, per consunzione, fino alla satira di se stesso, con Raimi e Jackson), non resta che rappresentare le angosce irrazionali dell’uomo nella società del duemila: l’identità di fronte al resto del mondo. Society gode di un’immensa fama, i blobbisti stravedono (e stracitano) il film, tutta una certa intellighentsia lo porta in palma di mano e invece… Bill Whitney è un solido ragazzotto di Beverly Hills. Si sente però stranamente fuori posto, ha visioni, sospetti, incubi. Ha timore della famiglia, del potere costituito, della sessualità e anche del suo analista che, in un certo modo, tenta di fargli vincere le sue ansie per reinserirlo in quella società di cui diffida e in cui vede i germi della corruzione morale e fisica. Tra fantasie d’incesto e di corpi deformi, Bill si rende conto che è stato ordito un complotto nei suoi confronti. In un finale orgiastico si consuma il rito antropofagico in cui membri della società si fondono in una marmellata di corpi, si mangiano, si penetrano in una delle sequenze più liricamente schifose di sempre. Ma l’interiorizzazione di Bill non arriva a termine: finale/non finale con fuga del personaggio principale. Alcune scene sono costruite abbastanza bene (l’orgia, appunto, con i valzer di Strauss stravolti) e gli effetti speciali son ben fatti (con la chicca del tizio precisamente rivoltato come un guanto), ma, francamente, non credo per niente all’intenzione sincera dell’autore. O, se volete, la metafora è talmente banale e prevedibile che attribuire altre valenze a questo filmaccio mi sembra proprio un esercizio retorico. E, tra l’altro, non è che il film sia girato con particolare maestria: per buona parte sembra un prodotto televisivo dal linguaggio senza qualità. La tensione è poco coinvolgente (dopo tre minuti abbiamo tutti capito la morale) e la recitazione è proprio scolastica. In più c’è una battuta emblematica che lascia interdetti: lei – “Tu come lo vuoi il tè? Col latte? Lo zucchero? O preferisci che ci pisci dentro?”; Lui – “Sei davvero una donna di classe”. Il tutto senza che una briciola d’ironia sfiori i volti degli attori o le voci dei doppiatori. E così è tutto il film, sospeso nel dubbio del misunderstanding. Ma io non ho dubbi. (Vhs; 8/5/97)

ov63.jpg100-When We Were Kings di Leon Gast, USA 1997

Cresciuto nel mito di Muhammad Ali, aspettavo questo film con trepidazione. Forse non è il film dell’anno, come auspicavo, ma è comunque un grandissimo esempio di cinema, un’esplosiva miscela di colori e suoni, di politica e sport. Un film che riesce a documentare l’incredibile orgoglio nero dei primi anni Settanta, un orgoglio che è andato via via trasformandosi e perdendosi, sino a stemperarsi al massimo in un’intolleranza razziale di segno opposto, funzionale a chi comanda. Lascio perdere, ché non vorrei essere frainteso. When We Were Kings racconta lo svolgimento dello storico match tenuto a Kinshasa tra Muhammad Ali e George Foreman per disputarsi il titolo mondiale dei pesi massimi. Il racconto si dipana attraverso interviste dell’epoca e commenti odierni e possiede un buon ritmo e una buona costruzione. Da obiettivo critico devo rilevare che si ha anche qualche squilibrio e, tra i difetti, è impossibile non notare che avremmo tutti preferito vedere più immagini dello storico match, piuttosto che sentircelo raccontare da Norman Mailer e da un altro suo collega inglese, entrambi testimoni dell’evento. E forse avremmo preferito ascoltare più musica di B.B. King e della Makeba (che però viene omaggiate tre volte con la stessa straordinaria sequenza: un intensissimo primo piano in cui sembra indemoniata). Comunque il coinvolgimento è notevole: si arriva a fine film con il match nelle ossa. Aspettiamo anche noi di gonfiare Foreman e l’incontro viene vissuto con autentica trepidazione, anche se sappiamo già come andrà a finire. Insomma, a essere pignoli c’è qualche difettuccio, ma, a essere sinceri, è un film bellissimo. Perché? Ma per Ali, che era un attore, un poeta, un ballerino, un politico e uno sportivo eccezionale. Per James Brown, il soul brother n°1, perché come muoveva le gambe lui sul palco, forse, le muoveva solo Ali sul ring; per B.B. King che strizza le corde della sua Lucille e la fa piangere, singhiozzare e ridere con passione e sofferenza; per la Makeba, che sembra posseduta; per la musica nera, per i bambini zairesi, per il popolo africano che balla e canta nelle strade. Insomma, mettiamo da parte il puntiglio ragionieristico del freddo recensore: When We Were Kings è quasi il film dell’anno, perché è un film che floats like a butterfly ‘n’ stings like a bee; è un film che commuove, emoziona, che ti fa sentire lo sforzo fisico del pugilato, che ti trasmette il dolore dei colpi dati e ricevuti. E soprattutto rende omaggio a un eroe del nostro secolo e al suo popolo, perché la vita di Ali è una straordinaria metafora della lotta dei neri per i diritti civili, prima, e per l’affermazione della loro cultura, dopo. Grandi, Ali e il film; pessimo, come al solito, il Ritz e il suo pubblico di stronzi. Tra gli altri, un gruppo di storditi che credeva di venire a vedere Kolya e s’è lamentato per tutta la proiezione. Altrettanto tediosa e non meno idiota, una vecchiaccia che continuava a ripetere “Com’è presuntuoso questo negro”. Ma diglielo di persona, a Muhammad, dài. (Cinema Ritz; 9/5/97)

(CONTINUA — 6)