di Francesco Lo Duca

Femministe77TanoDAmico.jpg[Nell’ottobre dello scorso anno, Carmilla ha pubblicato il primo capitolo di “Guai a chi ci tocca”, romanzo inedito sul ’77 a Bologna. Speravamo che il valore anche storico del testo, unico a ricostruire con precisione entomologica linguaggio, valori e punti di vista dei “ribelli di marzo”, attirasse l’attenzione di qualche editore. Così non è stato, e quindi proseguiamo col capitolo 2, ringraziando l’amico “Franz” per la concessione.] (V.E.)

“Sta nel fondo dei tuoi occhi
sulla punta delle labbra
sta nel corpo risvegliato
nella fine del peccato
nella curva dei tuoi fianchi
nel calore del tuo seno
nel profondo del tuo ventre
nell’attendere il mattino…”

La circolare esterna 32 è stracarica di gente, come tutti i giorni. E come tutti i giorni Carlotta ha solo voglia di vomitare, compressa tra quella massa lavoratrice e studentesca che promana sudore, aglio e vino rimasti incollati dalla cena della sera precedente e zaffate di profumo scadente per sopperire al poco tempo dedicato all’igiene mattutina.

Carlotta ha sonno e non ha proprio nessuna voglia di andare a scuola. Quasi come tutti i giorni.
Vede il riflesso della sua immagine sul vetro sporco dell’autobus che arranca lentamente sui viali intasati di traffico, e si chiede come facciano i maschi, porci e maniaci, a trovarla bella. I capelli lunghi e biondi di tre sfumature diverse da sembrare mesciati, gli occhi verdi, il corpo sottile e flessuoso e un culo da urlo non le sembrano argomenti da prendere neanche in considerazione, in tempi di femminismo.
Scende a Porta Zamboni, come sempre imbocca a piedi il ponte di San Donato in direzione Via Regnoli, Liceo Scientifico Copernico. Accende la prima MS della giornata e impreca lungo la salita perché, come ogni giorno in quel punto preciso, le viene in mente il motivo per cui da Via Delle Rose, dove abita, è costretta da ormai cinque anni ad andare a scuola in culo al mondo.
La madre si era semplicemente dimenticata d’iscriverla al Righi, distante uno sputo da casa. Proprio così, i termini erano scaduti, quindi, in fretta e in furia, aveva dovuto piazzare Carlotta nell’unico Liceo ancora disposto ad accettarla.
Da quando aveva memoria a casa sua era sempre stata la stessa storia; tutto sommato banale e meschina. I genitori, entrambi professionisti della buona borghesia illuminata, scatenavano la rissa un giorno sì e l’altro pure e, finché erano stati piccoli, lei e suo fratello si erano rifugiati nello stesso letto, stretti l’una all’altro per illudersi di sfuggire a quella violenza.
– Sssh, tappati le orecchie e canta. Un giorno finirà, vedrai. Non durerà per sempre. Un giorno finirà. Carlotta consolava il fratellino terrorizzato, mentre i due si scannavano.
Ma si può proteggere e consolare qualcuno a otto anni? E chi consolava e proteggeva Carlotta?
Come troppo spesso avviene i genitori usavano i figli come armi di ricatto nelle loro liti.
Il padre, chiamato da tutti “l’Ingegnere”, aveva sempre avuto un debole per Carlotta, bella, intelligente, solare, brava a scuola e sempre in buona salute. La madre allora, per ritorsione, aveva preso a difendere a spada tratta Valentino, il piccolo, che al contrario era bruttino, ottuso, lamentoso, bestia a scuola e sempre pieno di scarabaccini.
Poi le cose erano cambiate, in peggio, quando Carlotta aveva compiuto tredici anni.
Il padre aveva ottenuto un incarico importante all’Università di Siena, città originaria della “nobile” casata Zandoli Oldeschi e si era trasferito, armi e bagagli, nella vecchia villa di famiglia mollando a Bologna moglie e figli.
Certo, da quel giorno il clima in casa era migliorato perché le liti si limitavano al fine settimana, quando l’Ingegnere faceva ritorno al focolare domestico, ma tutto il resto del tempo era scandito dalle due belve coalizzate, madre e figlio minore, che non perdevano occasione per mettere Carlotta in cattiva luce o bersagliarla di carognate. Una vita di merda.
Oltretutto Carlotta deve ingoiare il rospo delle critiche più o meno velate dei compagni di scuola o di collettivo che la considerano una ricca borghese impegnata politicamente per moda.
Inutile ogni tentativo di spiegare che il padre, facoltoso possidente e barone universitario, è ossessivamente dedito alla parsimonia estrema, integralista e ultraortodossa e non caccia una lira neanche sotto tortura; quindi lei, se vuole comprarsi un paio di jeans o perfino i libri di scuola, deve andare a lavorare, magari raccogliendo frutta nei poderi aviti.
All’entrata di scuola Carlotta trova un paio di compagni di Lotta Continua, a cui anche lei fa riferimento, che distribuisce volantini per la manifestazione nazionale di Roma. Clima tranquillo, Spillo e Betty litigano ferocemente con “i Fantastici Quattro”, appellativo spregiativo e sarcastico affibbiato al gruppo “dirigente” dei figiccini, reperti archeologici di una sinistra che fu. C’è in realtà una certa corrispondenza somatica tra il quartetto di comunisti italiani giovanilmente federati e i mitici eroi Marvel. Righetti Palmiro (nome appioppatogli dalla sciagurata famiglia in onore indovinate di chi) è il tipico bisteccone di lontane matrici longobarde; grande e grasso, rubizzo in faccia. E’ stato ribattezzato La Pietra per le dimensioni che lo accomunano con Ben La Cosa – L’uomo pietra, ma soprattutto perché il nomignolo allude perfidamente alla consistenza granitica del suo cervello, ciecamente programmato sulle tesi del segretario del partito. Per lui l’universo mondo è racchiuso nei documenti ufficiali del comitato centrale e nelle tesi del compagno Berlinguer.
C’è poi Aldrovandi Antonio ( in onore del fondatore del PCI) che a 19 anni ha l’aspetto tipico del funzionario di partito cinquantenne. Stempiato, spalle cadute, miope, faccia da culo col labbro inferiore pendulo e la parlata pacata e acquosa dell’apprendista burocrate paraculo. Sembra la caricatura del capo dei fantastici quattro, quello che si allunga come Tiramolla.
Poluzzi Dolores (nome sfigato marchiatole addosso per ricordare la Pasionaria) è sempre stata la meno presa in mezzo per via dell’andatura claudicante che la sottrae allo squadristico sarcasmo degli estremisti del Liceo. In comune con l’eroina della Marvel ha solo i capelli biondi e una discreta capacità di rendersi invisibile alla bisogna.
La chioma color rosso fiamma di Buldrini Giuseppe (sembra un nome santo, biblico, ma quei paidofagi comunisti dei genitori gliel’hanno imposto, in spregio all’umanità libera, per l’onore imperituro di Baffone in persona) giustifica il soprannome di Johnny, come La Torcia Umana.
In ultimo L’Uomo Ghiaccio ha suggerito il nomignolo Ice-cream affibbiato a Serrazanetti Luca (l’unico che sembra non essere venuto al mondo per onorare qualche pezzo grosso del passato) perché suda sempre come un maiale, anche in pieno inverno quando il freddo tosa le orecchie, e sembra sempre sul punto di squagliarsi, proprio come un gelato flaccido.
Spillo, proveniente dalle fila di Potere Operaio, è la copia sputata dello Zanardi di Paz, anche nella bastardaggine, quando serve. Lui non litiga, non sbraita nell’ennesima rissa verbale scatenata dagli italiani comunisti federalmente giovanili, lui sibila.
Di solito sibila minacce tremende camuffandole dialetticamente da analisi politiche radicali, ma sempre in un quadro di confronto democratico. Al contrario Betty è inviperita. Sputa veleno e insulti come un carrettiere contro quei “quattro stronzi revisionisti, social-traditori e servi sciocchi del regime scudo-crociato che a diciott’anni sembrano già nonni della bocciofila”.
Materia del contendere, ancora una volta, la cacciata di Lama dall’Università di Roma a febbraio. Momento magico, epica vittoria da scolpire nel marmo della storia per la schiuma dei sette mari dell’estremismo di sinistra ad ogni latitudine d’Italia.
Provocazione squadrista, trauma e onta insuperabili per l’arrogante apparato politico/sindacale della sinistra istituzionale.
Che palle” pensa Carlotta mentre attraversa l’atrio. Respira la noia immodificabile della giornata, da consumare tra classe, cesso e corridoi per tentare di schivare il più possibile le stronzate propinate dalla “scuola dei padroni”. Per fortuna oggi ha un permesso di uscita anticipata per accudire la vecchia convalescente, quindi oggi lo strazio quotidiano finirà alle undici.
Terza ora, fisica. Il top dell’appallamento. Ai cessi, di corsa prima che entri “Spellex”, l’arpia anoressica sadicamente fiera di ammorbare di incubi e succubi le notti dei suoi adorati allievi.
Il cesso è ideale non tanto per fumare, visto che lo si potrebbe fare tranquillamente in classe, quanto per snebbiare un po’ la mente da quelle formule mefitiche e inutili.
A che cazzo serviranno per andare a marcire trent’anni in una banca, se va di lusso, o a fare gli schiavi in qualche fabbrichetta, magari in nero?
Nei bagni Carlotta incappa nelle lacrime d’amore di Roberta, mollata per l’ennesima volta dal fidanzato.
– E basta. Che palle Roby! Allora sei scema tu se continui a stare male per quello stronzo maschio sciovinista di merda, che ti molla ogni volta che trova una da scopare. Mandalo a cagare e scopati un paio di tipi, divertiti e ripetiti che i maschi sono pezzi di merda comunque, a prescindere – Carlotta sbuffa nervosamente una nuvola di fumo mentre tenta per la centesima volta di convincere l’amica a troncare quella storia assurda con un fighetto fascista e maschilista.
– Si, è facile per te che hai sempre fidanzati che non osano fiatare…- Si asciuga gli occhioni azzurri da Barbi incorniciati dalla chioma bionda da Barbi e si stropiccia il vestitino azzurro da Barbi che piace tanto a Maxi, il suo “Lui”, un fighetto di Zanarini con i Ray Ban, le fanghe di Cavazza e il maggiolone cabrio.
Carlotta si volta di scatto e la inchioda con lo sguardo – Senti Roby, io mi faccio un culo così per farmi rispettare e pretendo di decidere e di fare quel cazzo che mi pare. Se ai maschi non va bene, fuori dai coglioni. E’ chiaro? Entiendes? Non è difficile –
Le due si conoscono dalle elementari. Sono sempre state compagne di scuola e amiche del cuore; almeno fino a due anni fa. Come cambiano le cose, i rapporti, le amicizie che l’adolescenza fa credere eterni, immutabili, “per sempre”.
Com’è possibile che fino a ieri non credevano di potere stare un giorno senza vedersi o telefonarsi, tanto da iscriversi allo stesso liceo in culo al mondo per entrambe, e ora fanno fatica a scambiare più di quattro battute, acide, nel cesso della scuola?
Ma così erano andate le cose, senza che nessuna delle due se ne accorgesse. Giorno dopo giorno avevano iniziato a frequentare gente diversa, a pensare in modo diverso, a sognare mondi diversi. Mentre Roberta continuava a vagheggiare di grandi amori, impieghi sicuri, figli e amenità del genere, Carlotta, di indole ribelle e temprata da anni di risse familiari, aveva da subito abbracciato con entusiasmo le lotte studentesche, le rivendicazioni femministe e il movimento.
– Sono quasi le undici, vado a casa dalla vecchia, ti saluto – Infastidita dalla solita scena da “bella figa mollata” di Roberta, Carlotta spegne la cicca sul muro e saluta la martire agonizzante.
E’ passato da poco mezzogiorno quando la radio interrompe di colpo la lettura di poesie mao-dadaiste.
Carlotta si scuote dallo stato ipnotico in cui è stata precipitata dalla notizia appena diffusa dal Diavolo che trasmette in FM. Un pensiero le rimbomba ossessivo dentro la testa “Quei fascisti di merda hanno ammazzato un compagno. E io che cazzo sto a fare ancora qui?”.
Comincia a girare intorno nervosamente, accende una MS, si chiede cosa deve raccontare a sua madre per giustificare l’urgenza di uscire. “Che si faccia assistere una volta nella vita da quell’ essere inutile che mi tocca come fratello… fanculo.
Inutile telefonare a Marta o Roberta per decidere insieme che fare; sono ancora a scuola. Chissà, forse Antonio che oggi faceva fughino… ma non è sicuramente a casa a quest’ora. Alex! No, ovviamente è in Comune, al lavoro.
Fanculo. L’unica è andare dritto in Piazza Verdi.
Milioni di pensieri confusi si contorcono creando uno stato caotico irreversibile tra i neuroni traumatizzati, mentre si dirige a passo svelto verso l’Università.
Percorrendo Via Broccaindosso sotto il portico passa davanti alle Albini, le Magistrali, nei cui pressi stazionano alcuni studenti agitati che discutono animatamente dell’accaduto.
Il tam-tam del movimento ha iniziato a fare rullare i suoi tamburi.
E’ indecisa se fermarsi per chiedere, per sapere qualcosa di più ma non ce la fa, è sicura di non essere in grado di articolare una sola parola. Attraversa Via San Vitale, ne percorre i portici per alcune decine di metri poi svolta in Via Dell’Unione, dove inizia il quartiere universitario. Arriva infine in Piazza Verdi dopo avere percorso Via dei Bibiena, di fianco alla mensa da cui proviene un fracasso infernale. Rumori di vetri infranti, suppellettili trascinate, mobili schiantati che vengono trasportati da silenziosi operai non salariati, che oggi daranno il loro contributo all’ elaborazione collettiva di un nuovo concetto di urbanistica.
Si guarda intorno e la visione grandangolare della piazza la rapisce e la pietrifica.
Tutte le precarie connessioni del suo cervello di colpo s’inchiodano smettendo di fare contorcere i pensieri, in quel modo tanto imbarazzante da rendere impossibile qualsiasi ragionamento. E’ come quando nel jukebox il disco si incanta e devi mollargli un cartone per farlo ripartire.
Il silenzio che riempie la piazza è insostenibile, un urlo di dolore insopportabile. Il rumore della materia che geme e si spezza, che sfrega, sbatte e striscia non riesce a scalfire l’angoscia opprimente che ammutolisce gli studenti, i pochi cittadini solidali e la gente semplice, gli sparuti operai tante volte invocati, idolatrati, rimpianti come padri troppo severi e distratti che hanno risposto all’appello della propria coscienza prima ancora che alla disperata chiamata generale lanciata via etere.
Carlotta sente che vorrebbe piangere, ma l’imposizione che si è data, in tanti anni di scenate familiari, di non versare lacrime è più forte. Cerca qualche volto conosciuto tra la piccola folla laboriosa poi si dirige spedita verso l’ex bar Goliardo, sulla cui entrata vede gran movimento. Appena entrata nella sede occupata delle femministe viene investita da un vociare caotico, fatto di bisbigli, di singhiozzi frammezzati da imprecazioni e qualche accenno d’isteria. Sul fondo del locale, verso destra nella parte più buia, intravede un piccolo capannello, appartato rispetto alla massa di donne che in maniera più o meno confusa si agita. Scalpiccii di zoccoli di legno e lunghe sottane fiorate s’intersecano con i tipici biechi blu delle militanti dell’Autonomia e qualche rara Keffiah, in quello spazio tutto sommato ristretto, che alimenta ed accresce un incredibile accumulo di energia pulsante, esplosiva, carica di quella vitalità incontenibile che solo le donne, biologicamente destinate a dare la vita, possono esprimere di fronte a chi la vita la distrugge, per scelta e per mestiere.
Carlotta si fa strada per raggiungere il gruppetto tra cui riconosce la fisionomia di Silvana, la leader del suo gruppo di donne.
Non particolarmente alta, capelli lunghi, nerissimi, Silvana fa guizzare i suoi grandi occhi scuri e penetranti tra i visi duri delle ragazze del gruppo, che ascoltano senza isterismi quanto la più dura tra loro ha da dire.
L’arrivo di Carlotta non viene salutato dal consueto caldo affetto che le donne hanno imparato a manifestare tra loro, al pari dell’odio profondo che sanno esternare nei confronti dei maschi in genere e di tutte quelle belle fighe, comprese certe altre femministe, che strepitano durissime contro il maschilismo in pubblico e poi si fanno trattare da pezze da piedi dai loro compagni nel chiuso delle mura domestiche.
Non è giornata di effusioni e quelle non sono nemmeno le femministe più avvezze alle smancerie.
Carlotta, come un flash, rivede le tante discussioni e le risse con le altre donne, in particolare sul rapporto delle donne con la violenza.
La maggior parte dei gruppi, anche quelli ideologicamente più estremisti, sostiene che l’uso della violenza sia una prerogativa storicamente maschile e che le donne, in quanto creatrici di vita, non possono e non devono equipararsi ai maschi utilizzandone gli strumenti di potere, peraltro a loro del tutto estranei.
Una minoranza, tra cui le compagne di Carlotta, sostiene al contrario che l’uso della forza non ha nulla a che fare con la natura delle donne, ma che i rapporti di forza nel corso dei secoli hanno saldamente mantenuto nelle mani degli uomini anche gli strumenti di coercizione, quali veicoli di mantenimento e riproduzione del potere. Il problema non è di “violentare” la natura femminile imponendole la logica della violenza (ci si riferisce ovviamente alla violenza praticata e non a quella subìta), ma di riappropriarsi di un qualcosa, schifoso e deprecabile per principio, espropriato alle donne fino dai tempi della clava, ma indispensabile per difendersi senza restare sempre ingabbiate tra l’alternativa di subìre e basta o di dovere chiedere aiuto proprio a quei maschi (di merda e bastardi) dispensatori storici di violenza e oppressione.
– …E allora tutte le donne che hanno combattuto con le armi in pugno sulle barricate di Barcellona o sui monti dell’Italia fascista? Le donne non hanno solo opposto i loro corpi al potere e all’arroganza dei padroni come le mondine del vercellese della canzone… C’è anche chi ha sparato in bocca a quei porci!! Ed è ora che anche noi diventiamo autonome e capaci di difendere noi stesse, o di passare all’attacco se lo vogliamo e lo decidiamo.
Quelle parole, pronunciate da Silvana in versione Giovanna D’Arco durante una delle tante assemblee di donne finite in rissa, per un attimo riecheggiano nella mente di Carlotta.
E’ ancora Silvana, con piglio barricadiero, ad arringare le donne tra cui Carlotta è la militante più giovane. Il suo forte accento sardo conferisce una maggiore durezza alle sue parole.
– Allora compagne, oggi è successo qualcosa che direttamente non abbiamo mai vissuto sulla nostra pelle. Oggi è un giorno diverso. Tutti quanti, anche noi donne, siamo stati uccisi meno di due ore fa in via Mascarella, non solo Lorusso, militante maschio del servizio d’ordine di Lotta Continua. Abbiamo impiegato mesi per imparare a fabbricare e a tirare molotov e per allenarci a sparare, facendoci forza e costringendoci a fare qualcosa che ci sembrava contro il nostro DNA, e che altri gruppi di donne si ostinano a ritenere appannaggio esclusivo dei maschi. Abbiamo deciso che non era così e che noi saremmo state capaci di ribellarci contro questa logica che ci vuole sempre docili, sottomesse e inoffensive. Le donne oggi non possono scendere in piazza per giocare il solito ruolo delle madri che piangono i figli guerrieri uccisi in battaglia. Tutte noi dobbiamo andare là e fargliela pagare. Anche per noi donne oggi lo slogan può essere solo GUAI A CHI CI TOCCA.