di Anna Luisa SantinelliVento_contro.jpg

Il vento contro (Tropea, pp.190, € 13,00) è l’ultimo romanzo di Stefano Tassinari, dedicato alla figura del militante trotskista Pietro Tresso detto Blasco, espulso per deviazionismo da quello stesso Partito Comunista d’Italia che nel 1921 aveva contribuito a fondare. Il libro ripercorre gli ultimi giorni dell’esistenza di Tresso, tenuto prigioniero e poi giustiziato da partigiani di fede stalinista (autunno 1943) nei pressi di un campo/rifugio dell’Alta Loira. Una storia scomoda a lungo rimossa. Una vicenda dagli esiti tragici inserita nella lotta sanguinosa e fratricida che oppose stalinisti e trotskisti.

1) Come nasce il tuo interesse per Tresso? In che direzione si sono mosse le tue ricerche per raccontare la sua scomoda vicenda?

Il mio interesse per la figura di Pietro Tresso nasce a metà degli anni Ottanta, quando lessi di lui per la prima volta su una rivista della nuova sinistra.

Fin da allora mi sembrò un personaggio affascinante e drammatico nel contempo (quindi anche molto letterario), oltre a risultare emblematico di quel processo autodistruttivo iniziato dalla sinistra comunista alcuni decenni prima e destinato a portare, nel giro di poco tempo, alle conseguenze disastrose che ben conosciamo. A quei tempi, però, le informazioni su di lui erano troppo scarne per pensare di metterlo al centro di una narrazione, sebbene la sua storia mi stimolasse molto in tal senso. Dopo la pubblicazione di una sua biografia politica e di un saggio sugli assassinii compiuti nei maquis francesi (testi che cito in appendice al romanzo) ho pensato di avere a disposizione sufficiente materiale di base per provare a scrivere un lavoro letterario su Tresso e sulla sua compagna Barbara Seidenfeld. A quel punto mi sono recato in Francia, nell’Alta Loira, a cercare altri elementi e, soprattutto, a raccogliere spunti per ambientare il romanzo. Proprio in quella zona, infatti, un gruppo di stalinisti tenne prigionieri Tresso e altri tre militanti trotskisti, e fu nel campo partigiano di Raffy, a circa venti chilometri da Le-Puy en Velay, che i quattro furono visti vivi per l’ultima volta, verso la fine di ottobre del 1943.

2) Calunnie e menzogne create ad arte furono sistematicamente diffuse per sminuire e stravolgere l’operato di Tresso. Un’arma sottile e subdola. In che modo l’azione diffamatoria degli stalinisti screditò la sua immagine?

Tassinari_stefano.jpgDirei moltissimo, purtroppo. Tresso era stato uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia, nel 1921, e in quel partito aveva ricoperto incarichi delicati, tra cui quello di responsabile dell’attività clandestina. Tra l’altro, era uno dei compagni più vicini, anche sul piano personale, ad Antonio Gramsci, ma tutto questo non lo mise al riparo da attacchi violentissimi e campagne diffamatorie altrettanto violente, il tutto perché aveva osato contrastare Togliatti in merito alla sua assurda analisi della situazione italiana del 1929 (per Togliatti, e quindi per Stalin, l’Italia di allora viveva una fase pre-rivoluzionaria, mentre, com’era evidente, il fascismo godeva di un consenso enorme e i militanti comunisti in circolazione non arrivavano a un migliaio). Sulla scorta di quell’analisi, Togliatti obbligò tutti i dirigenti del PCd’I riparati all’estero (tranne se stesso…) a rientrare in Italia per “dirigere il processo rivoluzionario”, con la conseguenza, ampiamente prevista e denunciata da Tresso, di farli arrestare tutti dalla polizia del regime. Quando Tresso, Leonetti e Ravazzoli, durante una riunione dell’Ufficio Politico tenutasi l’anno successivo, chiesero conto a Togliatti di quanto era successo, lui rispose proponendo la loro espulsione, che fu approvata con un solo voto di margine, quello del giovane Pietro Secchia, il quale, però, non aveva diritto di voto… . Da quel momento cominciò, da parte dei vertici stalinisti del partito, una sistematica campagna di diffamazione e di odio nei confronti di Tresso, acuita dalla sua scelta successiva di aderire al movimento trotskista.

3) Combinando realtà e finzione ricostruisci la storia sentimentale tra la militante Barbara Seidenfeld e P.Tresso. La decisione assunta da Barbara di condividere – per affinità di pensiero – le scelte politiche del suo compagno, ha ripercussioni nell’ambito degli affetti: il rapporto con la sorella Serena (funzionaria del Comintern) risulterà compromesso.
La rottura tra le due donne come avvenne?

Partiamo da Barbara e dal suo rapporto con Pietro. I due si conoscono nel ’23, a Berlino, ed entrambi sono già dei rivoluzionari di professione, provenienti da ambienti diversissimi. Tresso, figlio di operai veneti poveri e molto cattolici, è stato costretto a interrompere gli studi a otto anni per andare a lavorare come apprendista sarto e ha alle spalle una vita molto dura, segnata anche dalla partecipazione alla prima guerra mondiale in un reparto punitivo, a causa delle sue battaglie pacifiste. Barbara, più giovane di lui di otto anni, è invece figlia di un diplomatico ungherese, ha la possibilità di crescere in una città piccola ma cosmopolita come Fiume e persino di frequentare il liceo classico e di iniziare l’università. Due storie opposte, che però s’intersecano e si fondono a causa della passione politica e della voglia di cambiare il mondo di entrambi, colpiti e affascinati dalla Rivoluzione d’Ottobre. Quando Tresso viene espulso dal partito Barbara lo segue, e lo fa perché ne condivide le stesse idee e non, come racconteranno gli stalinisti, perché è “l’amante” di Pietro. Quella scelta le costerà parecchio sul piano degli affetti personali, in particolare nel rapporto con Serena, la maggiore delle sue due sorelle (con l’altra, Gabriella, compagna di Ignazio Silone, il legame resterà molto forte). Serena, infatti, è una stalinista di ferro, a tal punto da trasferirsi a vivere in Unione Sovietica, dove resterà dal 1929 al 1955. Quando Serena verrà a sapere delle posizioni espresse da Barbara deciderà di cancellarla dalla propria vita e di non vederla mai più, chiedendo a Gabriella di comunicare tutto ciò alla sorella minore, in modo tale da non avere nemmeno quell’ultimo contatto. All’interno del romanzo questa rottura — così come altre — ha un peso notevole, perché ho voluto dare molto spazio al tema della lacerazione famigliare dovuta alle scelte politiche. Oltre all’episodio gravissimo della rottura tra Serena e Barbara, va sottolineato il fatto che nessuna delle tre sorelle rivedrà mai più il padre Morioz (che morirà durante la seconda guerra mondiale), così come Pietro non vedrà mai più l’amatissima madre, che gli sopravvivrà. Quegli anni sono stati tanto drammatici quanto straordinariamente intensi, e raccontandone alcuni protagonisti ho voluto anche sottolinearne da un lato la coerenza (oggi impensabile anche per il più rivoluzionario di tutti noi) e dall’altro lato la passione (potrei addirittura dire “passionalità”) di tanti giovani, come, ad esempio, Gaby Brausch o Rudolf Klement, disposti a mollare tutto per trasferirsi in un’isoletta turca ad aiutare Leone Trotsky. Molti di noi hanno fatto cose simili negli anni Settanta, ma correndo rischi di gran lunga inferiori.

4) Molte pagine sono riservate a Barbara Seidenfeld. La ritrai come un’attivista sicura delle proprie idee politiche, autonoma e non influenzabile. Cosa ti ha colpito di più della sua biografia?

Beh, in parte credo di averti già risposto. Aggiungerei che in lei mi hanno colpito due sentimenti: il coraggio e la dignità. Pensa che Barbara, in pieno fascismo, attraversava il confine tra Francia e Italia con nascosti sotto i vestiti i cliché per stampare l’Unità clandestina, li portava fino a Napoli e poi rientrava a Parigi. All’epoca aveva venticinque anni e, per l’appunto, molto coraggio. La dignità, invece, ha dimostrato di averla per tutta la vita, da quando rifiutò il corteggiamento politico di Togliatti (disposto a conferirle un incarico importante se si fosse dissociata da Pietro) fin quando, per circa trentacinque anni, continuò a cercare la verità sulla scomparsa di Pietro reagendo con durezza alle tante falsità diffuse dai dirigenti del PCI, Togliatti in testa. Insomma, Barbara fu davvero una donna notevole e una comunista da indicare come esempio, ancor più perché capace di essere “critica” in tempi in cui per un atteggiamento critico si rischiava la pelle, a maggior ragione se vivevi — come accadde a Barbara e Pietro — tra l’incudine del fascismo e il martello della stalinismo.

5) Nel libro descrivi con efficacia l’incontro tra il surrealista Pierre Naville e “Blasco” nella Parigi degli anni ’30: il racconto fatto dall’artista sulle problematiche sorte all’interno del movimento surrealista presenta, per certi aspetti, assonanze con la situazione vissuta da Tresso dentro il PCd’I. La figura di Pierre Naville che ruolo riveste nel romanzo?

Naville_pierre.jpgDirei un ruolo importante, anche sul piano simbolico, oltre che storico. Pierre Naville fu amico personale di Pietro (conosciuto in Francia come “Blasco” o come “Julien”) e fu anche il suo tramite con il movimento trotskista da un lato, e con un certo ambiente culturale dall’altro. Pietro, malgrado il suo scarno percorso scolastico, era un uomo di una certa cultura, appresa da autodidatta. Va da sé che l’esperienza dei surrealisti lo affascinava, anche per la loro carica trasgressiva (poco amata, invece, da Barbara) e per la loro capacità di mettere insieme la dimensione artistica e quella politica. Il parallelismo che hai colto è assolutamente reale, anche perché da una parte Naville abbandona i surrealisti perché ritiene che la fase storica imponga, almeno nell’immediato, di sacrificare l’arte a favore dell’impegno politico diretto, e dall’altra parte perché molti surrealisti — a parte l’ultra-ortodosso Aragon — furono trattati dai dirigenti del PCF allo stesso modo in cui Tresso e i suoi compagni furono trattati dai dirigenti del PCd’I, e cioè con l’espulsione dal partito e con durissime campagne diffamatorie. Pensa che Naville, ad esempio, venne cacciato dal Partito comunista francese perché era stato visto parlare con Trotsky durante un proprio soggiorno a Mosca. In sostanza, era stato visto chiacchierare con l’uomo che guidò realmente la Rivoluzione d’Ottobre (in quei giorni Lenin era nascosto nel quartiere operaio di Vyborg) e fu ministro degli esteri e della difesa, nonché capo dell’Armata Rossa (e con questo ruolo sconfisse i “bianchi” del generale Kornilov). Per queste ragioni Naville fu espulso dal Pcf… . Bizzarro, eh?

6) In occasioni differenti hai suggerito ciò che accomuna il tuo ultimo libro a quelli scritti in passato parlando di “memoria non condivisa di questo paese”. Puoi spiegare nel dettaglio cosa intendi?

Intendo, innanzi tutto, la memoria non condivisa della sinistra politica del nostro Paese. Nei miei ultimi cinque romanzi ho cercato di far emergere un po’ di contraddizioni in tal senso, relative a vicende degli anni Trenta/Quaranta, Settanta e del 2001, in particolare della vicenda genovese. Come dico da tempo, c’è una sinistra “perdente” che è stata letteralmente cancellata ma che, oggi, potrebbe rappresentare il punto di riferimento ideale e anche pratico per far ripartire un progetto politico in grado di farci uscire da una crisi terribile. Quando penso che ancora oggi c’è chi nega la persecuzione dei dissidenti comunisti da parte degli “ortodossi” comunisti, non posso che indignarmi, così come m’indigno quando penso che, quando si celebra giustamente la Resistenza, ci si dimentica sempre di commemorare chi è morto combattendo il nazifascismo da militante di formazioni trotskiste o semplicemente antistaliniste, come accadde ad oltre trecento partigiani del gruppo “Stella Rossa” di Roma, oltre cinquanta dei quali fucilati dai nazifascisti alle Fosse Ardeatine. Io penso che nel pensiero di quei compagni “perdenti” (da Rosa Luxemburg a Leone Trotsky, da Andreu Nin a Victor Serge fino a Ernesto “Che” Guevara) ci siano tutti gli elementi per ricostruire un pensiero critico in questo momento di omologazione totale.

7) Qualcuno ha scritto “Certi uomini sono quello che i tempi richiedono”. Alla luce di ciò che hai narrato su quel particolare momento storico, che tipo di uomo è stato, secondo te, Pietro Tresso?

Non so dirti se sia stato un uomo “che il tempo ha richiesto”, ma senza dubbio è stato un uomo che il suo tempo ha cercato di cambiarlo, pur con quella convinzione un po’ millenarista in base alla quale un’azione la si compie perché è giusto farlo, anche se le sue conseguenze positive si dovessero vedere tra mille anni. Comunque sia, Tresso è stato un uomo corretto, capace di assumersi sempre le proprie responsabilità e coerente con se stesso. Un uomo a cui la dignità è stata prima sottratta e poi calpestata. Con il mio romanzo ho cercato di restituirgliene almeno un po’.