Intervista ad Angelica Tintori e Franco Pezzini

di Danilo Arona

The Dark Screen.jpgAngelica Tintori e Franco Pezzini sono due creature deliziose. Va da sé che Angelica è molto più deliziosa, una bellezza solo all’apparenza quieta, ma la linfa vitale cui sto accennando qui si riferisce all’appagante nutrimento intellettuale al quale ti sottopone un libro unico e prezioso quale The Dark Screen, ovvero — come recita il sottotitolo — Il mito di Dracula sul grande e piccolo schermo. Edito ancora una volta da Gargoyle Books (che annuncia in tal modo un ingresso a dir poco clamoroso nella saggistica di genere), The Dark Screen non va confuso con qualche reference book sull’argomento più generalmente vampirico, costruito ad hoc con l’ausilio di Internet dall’appassionato di turno.

Questa è in realtà l’opera (forse, “della vita”) di due granitici e coltissimi studiosi che, restringendo il campo d’indagine al solo re dei vampiri per eccellenza (il transilvanico conte al quale ci sentiamo in modo sospetto legati sin dall’età più tenera), hanno di fatto amplificato il territorio di benefica scorreria culturale sino al punto da costruire un libro di per se stesso Archetipo. Oltre il quale, da oggi, non si potrà andare. Perché tutto quello che c’è da sapere e da apprendere sul conte è qui contenuto.
Si parla di quasi 700 pagine. Si parla di tutti i film prodotti dall’anno zero a oggi su Dracula, le sue filiazioni, le parentele, le maschere, i cross-over, i vamploitation e i poppismi, i cloni, le presenze richiamate solo nei titoli e le divagazioni più incredibili e sconosciute. E si parte da una base antropologica e folclorica abilmente spruzzata di letteratura, excursus redatto in modo così convincente da convincerti sin da subito che Dracula è veramente l’oscuro compagno — o, meglio, la somma dei tutti — in viaggio con te dal flash prenatale alla finale onda oscura. Con un valore, non da poco, aggiunto. Che questo libro-cult, all’apparenza destinato solo agli appassionati dell’argomento e ai cinefili maniaci, in realtà interessa chiunque. E Tintori & Pezzini ce lo dimostrano con tono divertito (e divertente), ricordandoci — mentre ci raccontano le peregrinazioni incredibili dell’archetipo sullo schermo — che oggi più che mai il mito del vampiro (che poi tanto mito non è) risuona di stretta e pertinente attualità. Al punto da richiamare qui l’indimenticato assioma di Emilio De Rossignoli, Io credo nei vampiri. Dichiarazione d’intenti e titolo di un indimenticabile opera del ’61 edita da Luciano Ferriani.

2) Che senso ha oggi, alla fine del 2008, “credere” nei vampiri? Un mare di senso. Fornito prima di tutto da decine di pellicole che, soprattutto negli ultimi anni, dal Nosferatu transilvanico traggono forma e sostanza: i vari Blade, il rinnovamento “giudaico” sponsorizzato da Wes Craven, i Vampires desertici di John Carpenter (e i loro epigoni nel sequel di Tommy Lee Wallace e in Desert Vampires di J.S. Cardone), L’ombra del vampiro di Elias Merhige, la saga russa dei Guardiani della Notte, e tanto altro ancora. Ma c’è di più e di ben più importante: intanto, che piaccia o meno, per caso o per complotto, la triste diffusione del virus dell’AIDS ha rimpinguato di metaforica linfa la parabola draculesca. Il sangue non è soltanto più veicolo di contagio erotico, ma anche portatore di un morbo, soprattutto sociale, dal quale non si esce. E il re dei vampiri continua a riferirci con perdurante popolarità — destinata a rinnovarsi anche per merito di numerose altre pellicole in lavorazione — della tragica situazione in cui giace sporofondata l’attuale società occidentale.
Da un lato parassitismo diffuso a tutti i livelli con tutti gli esempi di cui tutti i giorni leggiamo sui giornali (con l’apice raggiunto dal vampirismo economico di ventimila delinquenti che, per pura sete di guadagno facile e illegale, hanno messo in ginocchio le borse del mondo precipitando il pianeta in una crisi economica paragonabile a quella del ’29…), dall’altro una globale guerra per la sopravvivenza che concentra poteri e riccezze nelle mani di pochi ai danni del Terzo Mondo. A tutto ciò aggiungiamo il vampirismo psichico, quello dei “parassiti della mente”, predatori di energia che individualmente o in gruppo occupano posti di rilievo e di potere nelle contemporanee civiltà” mediatiche…, ma chiudiamola qui per non complicarvi troppo la vita, né soprattutto annoiarvi con analisi che alla fine poco c’entrano con il cinema gotico e horror. Però è un dato di fatto: i più recenti “figli” di Dracula — urbanizzati, tristi, solitari e intimanente “soli” – alla fine ci parlano proprio di questo, della quotidiana lotta dell’uomo per restare in vita ai danni degli altri. Una società vampirica, crudele, quasi dedita al cannibalismo (simbolico).

3) Come annotò a suo tempo il pionieristico Emilio De Rossignoli, la leggenda di Dracula è particolarmente sensibile nella zona transilvanica come in tutta la fascia medio-europea.
“La prima causa storica di tale fenomeno va ricercata nella divisione tra le due chiese cristiane, la cattolica e l’ortodossa, con le loro opposte concezioni sulla sopravvivenza dei corpi. La cattolica attribuisce ai corpi dei santi una conservazione che esclude la decomposizione. L’integrità del corpo dopo la morte diventa quindi un premio. Secondo gli ortodossi invece sono i corpi degli empi che non decadono, rimanendo integri per l’espiazione. Essi sono considerato tanto orribili che la terra rifiuta loro il giusto castigo”.
Questa dicotomia è la chiave interpretativa dell’ambiguità draculesca. L’immortalità, il corpo conservato oltre la morte, l’immobilizzazione di un’età presumibile in ogni caso ancora giovane: sono caratteristiche ben delimitate da paletti che, prima o poi (come quello concreto di frassino), precipitano il personaggio nell’annientamento e nello sfaldamento fisico. In un ciclo continuo di morte e rinascita e di disintegrazione/riatomizzazione, la duplicità di Dracula tra la luce e l’ombra si materializza nel suo doppio Van Helsing che in realtà, a ogni tappa (lui o un suo alter ego) si presenta come il vero demiurgo della riscrittura del mito.
Pezzini e Tintori con finezza e intelligenza non relegano infatti la figura di Van Helsing a quella del comprimario/ avversario che la macchina filmica prevede in funzione del consolatorio happy end in cui il Male morde la polvere della sconfitta. Ma ne seguono, al pari dei tantissimi Dracula che lo schermo ci ha sin qui proposto dall’anno zero della sua nascita, le complesse evoluzioni tra spiritualismo, tormento interiore e anelito scientista. Al punto che, nelle certosine e appassionanti riscritture dei plot più famosi, Van Helsing finalmente si propone come specchio mitico del mostro che non muore mai (ma che invece muore sempre per rinascere alla tappa successiva) e come Altro per eccellenza. Un ruolo di centralità che il blockbuster del 2004, Van Helsing, diretto da Stephen Sommers ha in parte riconsegnato alla mitologia originaria. Anche se Dracula avrebbe di sicuro gradito meno Wolverine e più discrezione vittoriana.

4) Nel 1975 uscì negli Stati Uniti la prima edizione del libro di Stephen King Salem’s Lot che in Italia avrebbe visto la luce solo quattro anni più tardi con l’edizione Sonzogno intitolata Le notti di Salem. I diritti furono subito acquistati dalla Warner che intendeva realizzarne una versione teatrale. King non venne neppure preso in considerazione per lo script e la Warner si concentrò così nella ricerca di qualche brillante autore in grado di “fluidificare” la trama — certo brillante ma quanto mai complicata per la sua struttura alla Peyton Place elevata al cubo — in modo tale da permetterne un più abbordabile assetto cinematografico. La ricerca dello sceneggiatore perfetto si trasformò ben presto in un tormentone. Personaggi come Stirling Silliphant (Una calda notte per l’ispettore Tibbs), Terry Getchell (Alice non abita più qui) e lo scrittore/regista Larry Cohen si cimentarono nell’impresa, ma tutti furono puntualmente liquidati dai papaveri della Warner.
Trascorsero altri mesi. Il nome di King cresceva in popolarità e Carrie di Brian De Palma era divenuto campione d’incassi. Ma la Warner scaricò il progetto sulla propria rete televisiva. E a questo punto si mise in gioco in prima persona il trentottenne Richard Kobritz, vicepresidente della Warner Bros Television, che aveva già dimostrato il suo fiuto ingaggiando John Carpenter per dirigere Someone Is Watching Me (“Pericolo in agguato”).
Kobritz capì subito che il problema di Salem’s Lot risiedeva nella lunghezza e nella complessità del libro, impossibile da comprimere nella struttura di un film normale. Optò quindi per la formula della miniserie di quattro ore, delegò Paul Monash (quello di Carrie) al nuovo script e ingaggiò Tobe Hooper alla regia. E intervenne in modo quasi prepotente, imponendo la sua “idea” di Mister Barlow, il vampiro che traforma Salem’s Lot in una città di mostri. Non il colto gentiluomo di lontana origine europea proposto da King, ma un demoniaco e orripilante ricalco, quasi un clone, del Nosferatu proposto da Murnau nel ’22, interpretato con il necessario phisique du rôle dal leggendario Reggie Nalder (il killer de L’uomo che sapeva troppo).
Così ebbe a giustificare la propria scelta Kobritz: “L’idea è quella di suggerire che il re dei vampiri in persona si sia trasferito dai Carpazi in America e in effetti le prime fattezze cinematografiche che abbiamo di Dracula sono proprio queste. Il vero archetipo del nobile succhiasangue si presenta al cinema nell’ossuta e impressionante versione di Max Schreck e, per quello che mi riguarda, questo è l’autentico Dracula. Gli altri dandy impomatati giunti in seguito sono una sovrastruttura filmica che appartiene ad altri campi dell’immaginario”.
Lungi dall’intenzione di attribuire nobiltà semantica alle dichiarazioni di Kobritz, ma in effetti l’uomo richiama l’attenzione su un aspetto estetico (che però è anche di sostanza) che non è affatto secondario. Perché, se non esistono tracce “visive” dei primi due “pseudo-Dracula” della storia (Drakula e Drakula halàla, 1920 e 1921), il “Dracula” di Murnau (per quanto ufficioso a causa di note questioni di diritti) è di fatto la prima consacrazione schermica della creatura di Stoker. E, sin da subito, la sua proteiformità s’impone. Al punto tale che, dal 1922 a oggi, abbiamo visto centinaia di Dracula nelle forme più diverse: giovane, vecchio, brutto, bellissimo, larva legnosa o ballerino alla John Badham. Partiamo da qui allora per una breve chiacchierata con i nostri due amici, Angelica e Franco.

La prima domanda… Dracula al cinema è tutt’altro che un “fermo immagine”. Piuttosto mi pare uno sfuggente ologramma sul quale ogni sceneggiatore e regista si è preso le più impensabili libertà (e Coppola forse ha messo ironicamente in luce tanta proteiformità). Che ne pensate? Siete d’accordo con questa impostazione? O ci sono altre ragioni?

(Angelica:) Le immagini di Dracula proposte dal grande e piccolo schermo e, quindi, le interpretazioni di sceneggiatori e registi che vi sono sottese mi pare possano rappresentare davvero tutto e il contrario di tutto. Questo immagino dipenda da tanti fattori: diverse epoche, diversi luoghi, diverse culture e diverse personalità coinvolte, tanto per cominciare. Mi sembra anche che tanta “proteiformità” — come dici giustamente tu — sia pure riconducibile alle caratteristiche della matrice originale ovvero il personaggio e il romanzo di Stoker nel suo complesso. A tale proposito è opportuno che io passi la parola a Franco: in fin dei conti, Stoker io l’ho letto soltanto due volte…

(Franco:) Sì, Stoker sarebbe stupito delle vorticose trasformazioni alla fisionomia del suo personaggio. D’altra parte il mito di Dracula è uno schermo in cui da oltre un secolo l’Occidente proietta con frequenza ossessiva inquietudini, angosce, desideri più o meno confessabili: e questi mutamenti e libertà di riscrittura appaiono estremamente rivelativi delle varietà di sogni e incubi fermentati nelle singole società. Il cadavere ambulante portatore in Murnau dei turbamenti del primo dopoguerra, il predatore Universal che conduce a compimento la Crisi dissanguatrice del ’29, il seduttore sciupafemmine Hammer che sfascia la morale familiare vittoriana col morso del sesso… e via discorrendo, comprese tutte le variazioni minori e sgarzoline. Dracula si rivela insomma una maschera di straordinaria efficacia e duttilità nell’esprimere le crisi del mondo moderno, sia a un livello interiore e psicologico che collettivo e sociale. E le letture ironiche non fanno che confermare la pervasività del suo mito. Se consideriamo che a combattere il Conte non è solo Van Helsing, ma anche — nel corso di una lunghissima storia su schermo — Batman, l’eroina erotica Emmanuelle e persino Topo Gigio ci rendiamo conto di quanto variegato sia lo spirito delle sue riproposizioni.
Certo registi e sceneggiatori hanno buon gioco: nel romanzo Dracula è un trasformista incallito.
Già nella prima apparizione lo troviamo travestito (da cocchiere), poi cambia costume — velocissimo, come Fregoli — per ammannire in seguito una serie vorticosa di mutazioni in bestia, in nebbia… Ma il vampiro è un attore, come ripete continuamente la tradizione letteraria ottocentesca; e perdipiù appartiene a una stirpe dai connotati folklorici piuttosto cangianti — almeno se consideriamo il panorama di creature affini in cui sfumano i connotati del vampiro “classico” del Settecento. D’altro canto l’identità di un personaggio che, nel romanzo, conosciamo solo dai diari dei suoi nemici (gente, per inciso, in perenne dubbio sulla propria sanità mentale) lascia spazio quasi di necessità a un sabba di interpretazioni. E trovo affascinante lo spunto di quel film Hammer poi sfortunatamente non prodotto, The Dracula Odissey, che doveva presentarsi — sembra — come collage di quattro storie sul Conte interpretato da attori differenti e da diversi punti di vista. Stoker meets Pirandello, insomma…
Se poi allarghiamo il campo ad altre figure vampiresche — pensiamo alle storie di Anne Rice, o al Twilight che adesso domina il botteghino — la varietà appare anche più marcata. Al punto da poter considerare oggi il vampiro come una supermetafora del fantastico, qualcosa che permette di giocare i temi della morte, del sesso e dell’indecidibilità esistenziale sui più diversi sfondi e motivi di genere: dal poliziesco al fantasy, dalla fantascienza alla commedia adolescenziale, dall’hardcore al musicarello. In qualche modo il vampiro — creatura intermedia tra vita e morte, umano e ferino, spettrale e corporeo — è icona di un’ambiguità che ha molto a che vedere con la nostra condizione (post)moderna.

Seconda domanda. Dracula oggi ha senza dubbio senso e significati da vendere. Qualcosa ho tentato di sottolinearlo anch’io all’inizio di queste note. Ma è possibile ipotizzare che “dal cinema al cinema” possano giungere nuovi stimoli? Insomma, il futuro vampirico, con particolare riferimento all’Archetipo, ci proporrà qualcosa di “novum” o si ripiegherà ancora su sé stesso, quasi a ragionarci su in senso metalinguistico?

(Franco:) Una domanda impegnativa. Che anzitutto deve fare i conti con una caratteristica abbastanza evidente nell’evoluzione del cinema di Dracula: l’alternarsi cioè di decenni in cui il tema vampiresco sollecita una produzione frenetica di pellicole, e di altri in cui invece viene trascurato fin quasi a scomparire. È il caso per esempio degli anni Cinquanta (fino al ’58) e degli anni Ottanta. Considerando la quantità impressionante di film vampireschi in arrivo, non si può escludere che questa fiammata preluda a un nuovo periodo di silenzio. E a quello subentrerà — con elementi forzatamente innovativi — una nuova fase, che potrebbe costituire il futuro vampirico di cui stiamo discutendo.
In effetti, sempre studiando il passato, sembra probabile che le due alternative da te richiamate evolvano insieme. Pensando per esempio proprio ai tuoi studi sulle leggende metropolitane e sul rapporto tra elementi arcaici dell’immaginario e nuove tecnologie, pare plausibile che i vampiri troveranno modo di annidarsi in questi spazi: dialogheranno attivamente con internet e la realtà virtuale come avevano fatto con la tecnologia dello schermo d’argento, trascinandola all’interno della stessa narrativa cartacea e trasformandola. Ma al contempo non sparirà il gotico in costume, che esplorerà a quel punto nuove dimensioni simboliche. Del resto la fiction di vampiri presenta elementi tradizionali troppo forti perché si possa pensare di abdicarvi.

(Angelica:) Corsi e ricorsi della storia e prospettive fantascientifiche di cyber-vampiri… Mi piace! Concordo con Franco: credo che il fenomeno abbia dimostrato una tale, intrinseca forza da poter sopravvivere inalterato in certe sue componenti; ma anche e, anzi, proprio di avere in sé i germi (germi, non vermi…) per continue evoluzioni. Più o meno appropriate, interessanti, affascinanti.

Terza, vagamente più frivola… Com’è lavorare “in due” a un saggio di tanto corpo e difficoltà? Io ho avuto un paio di esperienze in team lavorando a un romanzo e ho sfiorato il suicidio… Però comprendo anche il punto di vista di Franco (penso che lavorare fianco a fianco di Angelica sia bello, al di là di ogni asperità…)

(Angelica:) Io non lavorerei mai con la sottoscritta: mi annoierei a morte! La mia fatica è stata esclusivamente migliorare le competenze sul tema, che Franco, invece, conosce in maniera fine e profonda. Lavorare con lui, gentiluomo vittoriano con venature contemporanee (il tutto nell’accezione migliore dei termini e guai a chi fraintendesse!!) è stato facile: siamo sereni, ci coadiuviamo e stimoliamo a vicenda, ci parliamo e ci ascoltiamo. Insomma, indubbiamente funziona. L’alchimista è stato il nostro editore, Paolo De Crescenzo: di questa e di altre sue buone idee gli sono grata. Direi che ancor prima che sul piano professionale, l’esperienza si rivelata notevole su quello umano. Danilo, se adesso dovessi scoprire che Franco non ha sopportato un solo minuto… ti verrei a trapassare il cuore con un paletto di frassino!!!

(Franco:) Chiamato in causa confermo: molto bello. Angelica non ha solo competenze molto approfondite nel campo del cinema e della televisione, ma è stata molto paziente… e non mi ha mai inseguito sparando. Al di là degli scherzi, come ha sottolineato, il bilancio di un lavoro di questo tipo comprende un’importante dimensione umana, di soddisfazione nei rapporti: e Paolo De Crescenzo, proponendo questo tandem — peraltro con molta delicatezza — ha avuto buon intuito. Hai ragione, il tandem è un rischio. Ma con questa formula avevo già avuto un’esperienza felice in passato, e sono convinto che se il tutto funziona presenta alla fine un valore aggiunto: ha cioè una ricchezza che una voce sola non potrebbe recare. Tra i ringraziamenti finali non esplicitati per sobrietà, c’è dunque sicuramente un grazie personalissimo, profondo, verso la mia draksocia e le sue qualità professionali e umane — e non aggiungo altro per evitare la melassa.
Certo occorre elasticità. In un saggio, ogni volta che emerge un nuovo spunto (in questo caso un volume di critica, o la visione di un film su cui finalmente si son messe le mani) è necessario intervenire anche pesantemente su quanto è già scritto: niente è immutabile fino all’ultimo minuto, e i pezzi sono stati via via girati come calzini, squartati in capitoli diversi, farciti d’informazioni ulteriori… per fortuna esiste la funzione revisione. Gli ultimi ritocchi sono stati anzi portati in bozza impaginata: ed è stata preziosa la disponibilità di Tiziana Lo Porto (bravissima) che ha seguito progetto grafico e bozze, e ha permesso questo tipo di interventi anche in Zona Cesarini. Su una messe di materiale tanto strabordante credo non sarebbe stato possibile fare altrimenti. Spero però che siamo riusciti a ottenere da stili diversi una sola voce — come in certe canalizzazioni medianiche…

L’ultima. Che spazio c’è oggi in Italia per una saggistica come quella che proponete in Dark Screen? Specialistica a un livello direi universitario, ma divulgativa per il tema proposto e per il tono così amabile quanto divertito… Non è facile stare in equilibrio, soprattutto pensando al lettore finale?

(Franco:) Anzitutto grazie della tua valutazione. In realtà in Italia ci sono parecchi saggisti eccellenti che sanno muoversi sul crinale tra divulgazione e profondità (e uno ci sta intervistando, ma rischia di suonare una captatio benevolentiae e non insisto). Diciamo comunque che a questo tono siamo arrivati anche grazie a un dialogo costante con l’editore: e il punto è probabilmente questo.
Sul fantastico — anche e in particolare l’horror — ci sarebbe moltissimo da indagare in chiave saggistica, e probabilmente con una risposta positiva da parte dei lettori: ma il mondo editoriale resta spesso diffidente. Nei confronti dell’horror si è assistito per anni a un sordo pregiudizio, quasi si trattasse di un filone pericoloso o nocivo. Ogni tanto si assiste persino all’assurdità di opere o rassegne horror etichettate come noir o thriller — in riferimento a categorie più di moda, nobilissime ma oggettivamente diverse. La Gargoyle ha mostrato dunque un notevole coraggio, scendendo in campo come casa editrice votata all’horror; e il coraggio è stato anche maggiore proponendo ora un’opera saggistica. E di settecento pagine.

(Angelica:) All’inizio, Paolo era giustamente restio a impegnare Gargoyle su un progetto di saggistica: purtroppo è vero che sia facile fare un buco nell’acqua, anche se si trovano i toni giusti. Ci sono i pregiudizi indicati da Franco, c’è la generale difficoltà a leggere, insomma i motivi di apprensione non mancano. Se The Dark Screen “funziona”, come tu gentilmente sottolinei e come sembra dalle primissime reazioni di qualche addetto ai lavori e di qualche amico, noi siamo contenti per ovvi motivi, ma anche perché la formula che abbiamo cercato e che vedete non è risultata particolarmente innaturale. E chissà che non si possa utilizzare ancora…