di Dziga Cacace

SM11a.jpg321-Ritratto di signora di Jane Campion, Gran Bretagna/USA 1996

Premetto che non ho né letto il romanzo di James, da cui è tratto il film, né ho visto le precedenti opere dell’osannata regista australiana. Vado al cinema per capire: Lezioni di piano mi aveva istintivamente respinto (ma tra qualche giorno giuro che lo vedo) ma i pareri, completamente opposti, suscitati da quest’opera, hanno decisamente invogliato la visione, tanto più che volevo verificare se Hilda fosse una pazza isterica (lo è, lo è, ma non solo) e se il suo totale rifiuto del film in questione fosse un’uterina presa di posizione. Mio malgrado non ho sciolto i dubbi relativamente alla sua follia, ma, riguardo al film, mi sono trovato perfettamente d’accordo, reagendo, se possibile, in maniera ancor più scomposta. Ritratto di signora è un inconcludente e melenso pappone, lungo e presuntuoso; costantemente sfigurato da una fotografia ai limiti dello stomachevole (dominanti spurie che sfuggono da ogni parte, nessuna coerenza di luci e colori, controluce caffèlatte gestiti pessimamente), il limite più grosso del film è proprio nel “ritratto di signora” che non ci viene fornito: la psicologia del personaggio è tratteggiato con la finezza psicologica di un boscaiolo alle prese con una quercia secolare e il presunto rapporto con il marito è risolto esclusivamente dalla notevole presenza attoriale e recitativa dei due attori principali (i bravini Malkovich e Kidman).

Ma la buona recitazione dei due è un prerequisito. Il film si trascina con pesantezza a un finale tra i più orrendi che la storia del cinema (conosciuto da me, s’intende, cioè quello che conta) ricordi: un rallenti straziante. Come inasprimento della pena il film presenta inoltre: alcune riprese grandangolari che non c’entrano letteralmente un cazzo, un inserto in b/n che descrive sogni e viaggi della signora in una confusione stilistica (avanguardie e fantascienza di bassa lega) vomitoria, i “titoli” (di nuovo in b/n, che incongruamente presentano tante facce di ebeti ragazze), altri due rallenti (brevi ma assolutamente gratuiti) e un profluvio di dolly che calano dall’alto (va bene una, due volte, poi basta!). Le location, che avevano ulteriormente irritato Hilda, non mi sono parse neanche troppo banali in questo assoluto sfascio e, francamente, lo Spedale degli Innocenti dopo il mercato delle erbe, è una delle poche cose decenti di quest’opera orrenda. Or-ren-da. (Cinema Ariosto, dicembre ’96)

322-Frankenstein junior di Mel Brooks, USA 1974

Domanda: quante volte si può vedere un film comico e continuare a riderne in modo stolido come se fosse la prima volta? Risposta: se si è un po’ coglioni come me, infinite. Visto neanche sei mesi fa, rieccolo, consueto film natalizio di Italia1: non so resistere e me lo riscoppio con deciso godimento. La sceneggiatura (scritta da Brooks con Wilder, motivo per cui, secondo Barbara, il film è decisamente meglio delle altre porcate licenziate in seguito da Mel) fila come un treno e, a parte qualche scadimento nel pecoreccio in fondo inutile, si ride spesso (io sempre). I personaggi sono tratteggiati alla perfezione e gli attori sono notevoli (con un godibile cameo di Gene Hackman). Girato con gusto, secondo lo stile degli horror storici, è a suo modo un capolavoro. Lo so, Hilda perderà stima nei miei confronti, ma questo film mi fa godere. (Vhs)

323-I racconti del cuscino di Peter Greenaway, Gran Bretagna/Francia/Olanda 1995

Torna il maestro inglese dopo il criticatissimo The Baby of Macon. E il ritorno soddisfa fino all’entusiasmo: materia non leggera ma, se affrontata con lo spirito giusto, decisamente appagante. Radicale nella scelta dei temi e nella rappresentazione visiva, Greenaway sforna un’opera originale e inventiva dove il fascino della scrittura si fonde alla visionarietà del regista. La messa in scena è raffinatissima e, al solito, ricca di citazioni figurative. Proprio notevole. Ah: recensione valida per una percentuale irrisoria della popolazione. (Cinema Sempione, gennaio ’97)

324-Piccoli omicidi tra amici di Danny Boyle, Gran Bretagna 1994

Approccio l’opera prima del regista del momento con notevole diffidenza e con tutto il rancore accumulato per l’azzeccato mediocre Trainspotting, (che poi, in fondo in fondo, non m’è dispiaciuto, però…), pregustando una bella stroncatura, come a ribadire che avevo ragione e Boyle è un bluff e Dziga Cacace un genio, neanche troppo incompreso, via! E invece Piccoli omicidi tra amici, venduto come commedia, è in realtà un bel “nero” che man mano si incattivisce fino a un non imprevedibile, ma comunque convincente, finale. Le prime scene (proprio come in Trainspotting, dove però la solfa veniva portata avanti per un po’ troppo) sono piacione: Alex, David e Juliet convivono in un leccatissimo appartamentino di Glasgow (o Edimburgo, la location è vaga) e vagliano un possibile quarto coinquilino. Dopo la consueta rassegna (vedi The Commitments) scelgono un tipo ombroso e taciturno: dopo qualche giorno lo trovano stecchito con una valigia carica di milioni di sterline di contorno. Dubbio: denunciare tutto o provare a tenersi il bottino? L’idea seduce a poco a poco i tre compari e il cadavere, dopo orrende mutilazioni, viene occultato. L’esecutore materiale del lavoraccio (David, il commercialista, quello psicologicamente più debole) va in tilt e nella casetta si inizia a respirare un’aria pesantuccia. I complici dello scomparso vengono a pretendere il maltolto ma incorrono nell’irrefrenabile furia omicida del colletto bianco e anche loro vengono fatti scomparire. Ma ormai il pericolo, per Alex e Juliet, viene dall’ex amico, diventato completamente incontrollabile e schizofrenico. Mentre la Polizia inizia a farsi sotto, si consuma l’ingegnoso finale (che non racconto perché mi sono rotto) che, in tutti i sensi, è lieto (ma non posso spiegare il perché, magari alla seconda visione). La regia è molto attenta ai cromatismi e a essenziali ma ricercati movimenti di camera. I dialoghi, invece, sono un po’ deludenti e il film funziona meglio quando l’azione è muta. Ammettiamolo: non male e forse dovrei rivedere Trainspotting; passata la sbornia pubblicitaria e abituatomi a tutti gli asini stolidamente entusiasti “perché è forte” lo rivedrei con un altro spirito. Meno talebano, ecco. (Vhs)

325-Cresceranno i carciofi a Mimongo di Fulvio Ottaviano, Italia 1996

In ossequio al principio enunciato da Barbara che i piccoli film italiani vanno aiutati, decidiamo di rischiare con questo esordio accolto abbastanza bene dalla critica. Ma diciamocelo: ci si può fidare della critica italiana? Mica tanto, vedi le entusiastiche recensioni per Ritratto di signora… Comunque ci buttiamo e, per fortuna, non veniamo delusi. Il film non è niente di memorabile, ma è costruito abbastanza bene e il ritmo, nonostante la stanca parte finale, c’è. L’esile trama è retta dalla buona volontà degli attori (a parte l’insopportabile Francesca Schiavio) e spesso si ride. Curata la fotografia. Dunque, ne è valsa la pena. (Cinema Mexico, gennaio ’97)

326-Lezioni di piano di Jane Campion, Francia/Nuova Zelanda 1993

Dopo il devastante primo incontro con la Campion mi dedico alla scoperta delle sue opere precedenti. In rigoroso ordine contro-cronologico tocca al successone di tre anni fa, quando tutti, critici esigentissimi e poveri di spirito, urlarono al miracolo per quest’opera. Acquisita un po’ di distanza critica è finalmente possibile vedere il film con calma e… eh sí, m’è piaciuto, decisamente. Sposata per procura a un contadino della Nuova Zelanda, Ada e la figlia lo raggiungono dall’Inghilterra e tra i bagagli della signora figura un immenso pianoforte. Ada è muta e il pianoforte è lo strumento più potente che possiede per esprimersi, ma il marito non sembra intenzionato a trasportarlo nella foresta fino alla loro casa. Ci penserà Baines (secondo alcuni un maori, a me sembra più un inglese che vive lì da più anni degli altri e s’è quindi integrato con gli indigeni), interpretato da uno stupefacente Keitel, a recuperare il prezioso strumento e a farlo accordare. Diventatone praticamente proprietario (anche in virtù di un accordo con il marito di Ada) Baines chiede ad Ada di insegnargli a suonare, ma ha ben altri progetti. Lei accetta, pur di poter suonare, e accetta anche il singolare peep show che vede lo scambio di tasti del pianoforte con carezze e nudità. In un crescendo di partecipazione emotiva e fisica, Ada e Baines vengono travolti dalla passione finché il cornuto non ne viene a conoscenza. La situazione precipita e, previa amputazione di un dito, Ada è lasciata al suo amore. Detto così fa schifo e il confine tra kitsch e poesia sembra labilissimo. In realtà il film è pervaso da una sensibilità rara. Tutto il film è giocato sulla tattilità, con insistenti primissimi piani sulle dita dei protagonisti, sui contatti tra le mani e il pianoforte, le stoffe, le piante. Il rapporto, inizialmente diffidente e poi sensualmente liberatorio, tra Ada e Baines passa attraverso una comunicazione tattile e visiva assolutamente magica, dal primo travolgente carrello in avanti sulla nuca della protagonista che sfocia in un abbraccio e bacio sino al close up del dito di Keitel che si insinua in un buco della calze di Ada (scena in cui vedo una prepotente metafora sessuale, cosa che peraltro mi accade anche quando lei gli rende un fallico tasto del pianoforte, oscenamente lungo, ah, ah). Quanto è sensuale nella sua rozza fisicità Keitel (evviva gli uomini con il pancione!) e quanto è algido, invece, il più distinto Sam Neill, stretto nelle convenzioni del tempo. Tecnicamente sono già presenti molti elementi presenti anche nel terrificante Ritratto di signora (le insistenti riprese dall’alto, i carrelli circolari intorno ai personaggi, la fotografia livida) ma qui nulla è lezioso o gratuito, tutto concorre funzionalmente a una narrazione soffusa che sa raccontare il calore dei gesti e la profondità degli sguardi, una narrazione partecipe emotivamente ma capace di non scivolare nel melò. Insomma, veramente bello. (Vhs)

SM11b.jpg327-Ninna nanna di Dziga Vertov, URSS 1937

Ore 01:17 di lunedì notte: l’occhio (proprio come in Celovek s Kinoapparatom) si sta chiudendo come una serranda, ma devo resistere per registrare, su RaiUno, Angeli con la faccia sporca. Per puro scrupolo professionale controllo che a Fuori Orario non ci sia nulla d’interessante. Niente. Sui programmi TV: niente. O.K.: canale sintonizzato, pronti, via. Parte la registrazione e sono finalmente libero di andare a dormire. Ah, Un momento! Diamo un’occhiatina ancora a RaiTre, ché non si sa mai… E infatti vedo qualcosa di familiare, un tocco inconfondibile… è chiaro, è Vertov, porca Eva! Leninisticamente: che fare? Logico e spietato: non potendo registrarlo lo devo vedere in diretta perché l’occasione è unica. E così non crollo solo grazie al bel montaggio del Maestro. Il film appartiene al periodo “normalizzato” della carriera di Vertov ed è strutturato come una ninna nanna che racconta al piccolo bimbo sovietico quale futuro lo attende, quali possibilità gli offre il regime dopo anni e anni di povertà e ignoranza. La prima parte, per quanto retorica, è molto poetica; nella seconda parte la figura di Stalin incombe ovunque, miriadi di bambini baciano e abbracciano questo pacioccone con il viso da contadino che dispensa sorrisi e benevolenza e il messaggio è un po’ più inquietante: dopo la didascalia che annuncia che “la libertà non si conquista a mani nude” seguono scene belliche e sfilate militari, a presagire un futuro di guerra non troppo lontano. Una bambina viene chiamata Dolores in onore della Pasionaria Ibarruri e scorrono alcune immagini della guerra civile spagnola (dove Stalin si stava premurando di chiunque deviasse dalla linea di condotta del Partito Comunista). Il film si conclude con retoriche immagini di speranza per il sol dell’avvenire che sta sorgendo. Il materiale originale, cioè girato da Vertov apposta per il film, non sembra molto ed è comunque sovrastato dalle immagini di manifestazioni ufficiali, poco stimolanti formalmente. Comunque l’opera, nonostante l’ora tarda, si fa godere ed è un’interessante testimonianza. (Diretta TV; 6/1/97)

328-Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin, USA 1985

Fuorviato da una delirante entusiastica recensione del Mereghetti e da un misunderstanding con Hilda (non ho afferrato l’ironia di un suo commento) mi vedo questo leccatissimo thriller del regista de Il braccio violento della legge e de L’esorcista. Fotografia dai colori accesi (Müller, mica l’ultimo dei fessi) e musiche datate (Wang Chung, non lo sentivo dai profondi anni Ottanta) per un film dal finale abbastanza a sorpresa (il buono riceve una pallottola dirompente in mezzo agli occhi) ma anche con tanti tempi morti, nonostante il Mereghetti proclami che in confronto Il braccio violento appaia come roba da bambini. Certo, qui la violenza è esplicitata in modo crudo ma se vogliamo fare paragoni, obiettivamente, vengono in mente centinaia di film ancora più cattivi. Tutta la costruzione psicologica dei personaggi che caratterizzava Il braccio violento manca completamente e Petersen è poco credibile con quella faccia da bamboccione, i jeans attillati e i camperos da tamarro. Ben altra stoffa aveva l’amaro Papa Doyle interpretato da Hackman. E anche gli inseguimenti sembrano una copia sbiadita di quelli che fecero vincere, in allora, un premio Oscar per il montaggio. Sconcerto e delusione: bella cagata. (Vhs)

329-Sole ingannatore di Nikita Michalkov, Russia/Francia 1994

Michalkov procede, in questo pluripremiato filmone antistalinista, al racconto dell’ultimo giorno di libertà del Colonnello Kotov (che interpreta), arrestato da una vecchia conoscenza: un precedente amante della moglie, combattente per i bianchi durante la guerra civile e ora al servizio della polizia politica. Se la condanna dello stalinismo è ferma, ma anche un po’ generica, è a senso unico anche la figura immacolata del Colonnello rivoluzionario. Sarebbe utile ricordare ogni tanto che furono i sinceri comunisti le più frequenti vittime dello stalinismo, ma lo schematismo nuoce alle migliori intenzioni e il film soffre anche dell’ambiguità tra spettacolarità e impegno. A tratti divertente (la prima scena, le esercitazioni, la partita a pallone) e intenso (la lite, l’inseguimento e la scena d’amore tra Kotov e la moglie o il dolce rapporto con la figlia), talvolta noioso e verboso, Sole ingannatore è un prodotto che lascia interdetti; salomonicamente direi discreto. (Vhs)

330-Le notti di Cabiria di Federico Fellini, Italia 1957

Visione notturna in diretta TV per un classico che m’era sino a oggi sfuggito. Cabiria, interpretata da una Masina perfettamente nella parte, è una prostituta romana che accetta ingenuamente il suo destino di sfruttata. Un inizio pasoliniano (P.P.P. era collaboratore alla sceneggiatura) precede una serie d’incontri che Cabiria ha durante le sue notti di vita e i suoi giorni di presunta rispettabilità: l’incontro con un gigione divo cinematografico e la sua vita lussuosa e annoiata, uno scettico pellegrinaggio a un santuario della Vergine Maria che sfocia in un’accorata richiesta di grazia per una vita migliore, l’illusione del matrimonio con un disonesto che la deruba dei suoi averi. Nonostante il finale sia tragico, Cabiria, con rinnovata speranza e nuova fede, si rialza e si rimette orgogliosamente in cammino. Il soggetto è molto amaro ma Fellini lo sa trattare con la consueta bonarietà: a momenti intensamente drammatici si alternano gustosi momenti visionari (le prostitute caciarone sotto i monumenti romani, la folla di disperati, tra cui il lenone paralitico, che invocano la grazia) e il film scorre piacevolmente. Precursore di opere più definite, mi ha comunque soddisfatto. Curiosità: all’inquietante premonizione “non è una combinazione che mi chiami Oscar?”, recitata dal mascalzone che illude Cabiria, seguì un Oscar vero e proprio, come miglior film straniero. (Diretta TV; 8/1/97)

331-Butterfly Kiss di Michael Winterbottom, Gran Bretagna 1994

Eunice (una brava Amanda Plummer dal viso tipo Keith Richards metà anni Settanta) vaga per l’Inghilterra alla ricerca di una fantomatica Judith. La sua squilibrata ricerca è costellata di omicidi nonostante conosca Miriam, una povera di spirito e cervello che, innamoratasi di lei, tenta di redimerla. Ma, come dice Eunice, sarà lei a far diventare cattiva Miriam, prima che Miriam riesca a farla diventare buona. Gli assassinii continuano, finché anche Miriam si rende colpevole di un’uccisione. Eunice, secondo un lucido e folle disegno, si fa uccidere da Miriam dopo averle rivelato il suo lato oscuro. Abbastanza agghiacciante e girato molto bene, Butterfly Kiss è un road movie lesbo-sado-maso spiazzante e disperato, assolutamente non piacione e volutamente respingente, che ben descrive la follia di questi tempi (ma quante belle banalità…). Anche se non proprio rilassante, mi sembra abbastanza riuscito. (Cineclub Lumière; 9/1/97)

332-Nodo alla gola di Alfred Hithcock, USA 1948

Brandon, convinto assertore della sua superiore intelligenza al di là del bene e del male, trascina l’amico Philip (che subisce un morboso rapporto di sudditanza) a strozzare la comune conoscenza David con un pezzo di corda (da cui il titolo originale, Rope), quasi a sfidare gli invitati che riceveranno a casa poco più tardi. Tutti notano la mancanza di David ma solo il lucido Rupert (uno Stewart, per me, inedito) capisce l’inghippo. Nodo alla gola è un “nero” da camera, girato come se tutto accadesse in tempo reale (anche se i settanta minuti del film non sono credibili) grazie a sette/otto (non li ho contati, sorry) lunghissimi piani-sequenza. L’esperimento è interessante e la tensione è ben sostenuta dalla recitazione e dai misurati e intelligenti movimenti di camera. Carino. (Vhs)

333-Il capitano di Jan Troell, Svezia 1991

Parte la rassegna del Lumière dedicata al cinema svedese degli anni Novanta. L’esordio, visti i commenti degli spettatori della primissima visione, sembrava pesante e invece, sorpresa, è un film normalissimo. Jari è un ribelle senza causa dal passato turbolento; conosciuta Minna, una tranquilla studentessa, la trascina in un vagabondaggio sempre più a rischio. Jari, dopo alcuni furti, arriva all’omicidio: la fuga diventa sempre più disordinata, fino all’inevitabile arresto e processo di cui però non sappiamo l’esito. La regia sceglie un registro molto neutro e affida la descrizione dei personaggi al racconto delle loro azioni. Molti, all’uscita, si sono lamentati dello scarso approfondimento psicologico dei due sbandati: credo che il silenzio e il vuoto che li circondano siano molto più eloquenti dello stereotipato didascalismo con cui solitamente si descrivono questi personaggi (anche se quel cazzone di Sid Vicious che canta My Way era sinceramente evitabile); finalmente né ribelli accattivanti, né cattivi monocromatici. Ben scritto, recitato, fotografato e anche con qualche momento decisamente esaltante (la fuga nella palude). Insomma: soddisfacente, ma, chissà perché, erano tutti incacchiati. Boh. (Cineclub Lumière; 14/1/97)

334-L’albero di Antonia di Marleen Gorris, Olanda/Belgio/Gran Bretagna 1995

Antonia sente che sta per morire e raduna tutti i suoi familiari, un’immensa congrega di straordinari (nel senso letterale del termine) personaggi. Sottolineata dalla voce della bisnipote, rivediamo le tappe fondamentali della vita di Antonia, una vita anticonformista a dispetto del bigottismo imperante, in un piccolo paese fiammingo. Il tono è fiabesco e tutto il racconto è pervaso da un alone di magia; chiaramente ciò non aiuta a creare personaggi credibili e tutte le istanze libertarie pseudofemministe sono annacquate. Se ci si accontenta di un bel racconto senza tante pretese il film può soddisfare. Se si è di cattivo umore, come mi è capitato ce soir, allora si rimane un po’ delusi. Film da Oscar. (Vhs)

335-Il tartufo di Friedrich Wilhelm Murnau, Germania 1925

Altro Murnau, altro capolavoro. Da non crederci. Tralasciando i consueti meriti del regista (composizione formale, allestimento, recitazione, scrittura etc., etc.) va anche riconosciuta la straordinaria modernità con cui Murnau sceglie di narrare il Tartufo di Moliere. Infatti la commedia è un film nel film che serve a un nipote, prossimo diseredato, a far capire al nonno di quale raggiro lo stia rendendo vittima un’odiosa e ipocrita governante. Il discorso metacinematografico è condotto a più livelli: il film nel film è didattico nei confronti del vecchio nonno, ma il film vero e proprio vuole essere sottilmente didattico anche nei confronti dello spettatore (la didascalia finale avverte lo spettatore che un ipocrita può essere seduto al suo fianco; al cinema, naturalmente), spettatore cui, peraltro, lo stesso nipote si rivolge con uno straniante sguardo, avvertendolo di quale lezione darà all’orgogliosa governante. Elmire è regista dell’incontro con Tartufo, con Orgon come segreto spettatore (ma non troppo, giacché Tartufo lo vede nel riflesso di una brocca) così come il nipote è regista della visione che deve aprire gli occhi al nonno. E l’ammiccamento di cui si diceva, questo insistito sguardo in macchina, non è, come il buon Fusero equivoca, un retaggio dell’eredità teatrale nell’incertezza dell’inedito e inesplorato linguaggio cinematografico ma, semmai, il contrario. Lo schermo non è più un fondale piatto dove la narrazione avviene secondo tradizione; lo schermo è il profondo contenitore del punto di vista del regista al quale lo spettatore è forzato e il dialogo è ormai talmente fitto e consapevole che l’attore può permettersi di parlargli. Gli sguardi, la sensualità di Lil Dagover (che fa vedere spalle e caviglie autenticamente erotiche), la governante che “schiuma” le orecchie del nonno e lo rende sordo ai richiami del nipote, le plastiche linee barocche del palazzo di Orgon, sono tutti momenti altissimi di un film che mescola registri narrativi e attoriali diversi, supportati anche dalle notevoli qualità degli attori, sullo sfondo di una morbida scenografia (i bravissimi Herlth e Rorhig), dove il gioco tra realtà e finzione è condotto abilmente. Insomma, un ennesimo entusiasmante capolavoro. (Vhs)

336-Dolly’s Restaurant di James Mangold, USA 1995

Sulla scorta del successo di Io ballo da sola i distributori tirano fuori i film recitati da Liv (modestamente posso permettermi una certa confidenza) e così al Lumière approda questo bel film di un esordiente. Stupiscono il notevole livello tecnico e soprattutto la maturità del soggetto trattato; siamo lontani anni luce dai consueti esordi giovanilistici che costellano il Sundance Film Festival. Non il solito filmetto autoreferenziale girato in stile finto povero, ma un’opera coraggiosa che racconta, in modo minimale ma appropriato, i destini di gente comune della provincia americana. A parte la poco credibile presentazione di Liv (“non so cosa fare della mia vita”, con quella faccia lì? Ma va’!), tutti i personaggi sono ben tratteggiati nella loro quotidiana solitudine e nel fardello di dolori e rancori che devono sopportare. Trama: nel ristorante di Dolly viene assunta Callie (la bellissima Liv) e la sua presenza provoca un turbinoso sconvolgimento ormonale in Victor, l’obeso e problematico figlio di Dolly. All’improvvisa morte della madre, Victor è incapace di comunicarne la notizia a Callie e Delores (Debbie Harry/Blondie!) e vive solitariamente il suo dolore, unitamente al sogno di un amore impossibile con Callie. Ma la morte della madre rappresenta per Victor anche il viatico a una libertà che gli è sempre stata probabilmente negata. Si giunge a una parziale risoluzione dei problemi dei personaggi e il film si conclude con un po’ di speranza. Forse il finale è un po’ schematico ma, in fondo, non stona. Un bel film per il quale il Lumière, nel suo programma bimestrale, si appropria delle parole del Mereghetti, aggiungendo un proditorio “da non perdere” assolutamente arbitrario. Al di là della perdonabile astuzia chiedo un po’ di coerenza: Mereghetti è da prendere o lasciare e non si possono utilizzare sistematicamente le sue recensioni (nove nell’ultimo programma) senza pubblicamente ammettere che, come il Mereghetti entusiasticamente proclama, Io ballo da sola sia un autentico capolavoro. Eh. (Cineclub Lumière; 16/1/97)

337-Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, Italia 1953

Essendo finalmente diventato possessore di una stampante, posso apprestarmi alla richiestissima pubblicazione delle mie preziose e argute recensioni. Però, non so come dire: l’opera va completata; le mie lacune in campo cinematografico sono paurose, e come pubblicare questo borioso volume di commenti senza aver mai visto Viaggio in Italia? Dunque, cari lettori, ancora qualche giorno di pazienza, anche perché, tra capo e collo, RaiTre mi regala una personale su Barnet e, nuovamente, come aspettare altri 6 mesi (perché, come per il Mereghetti, del Cacace uscirà presto l’aggiornamento) per commentarne le opere? Comunque, dopo queste considerazioni sarà mica il caso di fare un commentino al film di Rossellini? Sí, e non sarò io a ribaltare i giudizi dei Cahiers. Viaggio in Italia è commovente e bellissimo e, soprattutto, molto moderno. Sono stupende le scene di vita riprese dalla macchina (anche se lo snodo della cinepresa non doveva essere oliato, visti i tellurici sommovimenti) o le sequenze girate nei musei, alle pendici del Vesuvio o a Pompei; meno gradevoli (anzi, proprio brutte) alcune riprese con gli sfondi finti o altre con luci assolutamente innaturali. Ma non importa. Rossellini racconta perfettamente il difficile rapporto che si instaura in una coppia di turisti inglesi che, giunta in Italia, s’è resa conto del fallimento del loro matrimonio. L’amara presa di coscienza è costruita senza scivolare in un artificioso melodramma ma facendo ricorso a una regia intensamente aderente al dramma dei due personaggi, in un crescendo credibile e realistico. E gli si perdona anche il dialogo conseguente all’abbraccio finale (questo sí retorico e artificioso). Veramente bello. (Vhs)

338-Ludwig di Luchino Visconti, Italia/Repubblica Federale Tedesca/Francia 1973

Diventato re appena diciottenne, Ludwig rifugge l’attività politica e amministrativa e si rinchiude in un suo ideale mondo di bellezza. Ma la progressiva misantropia e l’insofferenza al mestiere politico si accompagnano a una discesa nella follia e nella paranoia: malato, isolato dal mondo e con la sola orgiastica compagnia di una servitù maschile, Ludwig viene detronizzato per morire più tardi in circostanze mai chiarite. Visconti costruisce un ritratto assolutamente larger than life (la mia copia, considerata ufficiale, dura 3 ore e 45) di un uomo e di un’epoca e ancora una volta indaga la crisi del mondo della nobiltà. A parte qualche doloroso zoom (ma pochi in confronto al bombardamento presente ne La caduta degli dei) il film è formalmente ricchissimo e convincente. Impressionano soprattutto lo sfarzoso allestimento (i bellissimi interni dei castelli), la direzione degli attori e la fotografia, progressivamente sempre più buia. Certo, forse la lunghezza è un po’ eccessiva e il maestro indulge in più di un’occasione, ma del resto questa è la cifra stilistica che lo contraddistingue. Impegnativo. (Vhs)

339-Cabiria di Giovanni Pastrone, Italia 1914

Reperite alcune rare pellicole nel ricco Fondo Ghiara, mi sono corredato di vestaglione di flanella, babbucce, sigaro Avana da ruffiano, bottiglione di Coca gelata e comodissima poltrona, per schiopparmi, papale papale, un sabato sera da supergiovane. Cabiria ha 82 anni e li dimostra, ma è veramente bello. La storia, commentata da auliche didascalie di D’Annunzio, è un polpettone che mescola fatti storici (la seconda guerra punica) al destino di Cabiria, giovane rapita durante l’infanzia dai fenici e infine liberata. Il film s’impantana, soprattutto nel terzo tempo; le ricostruzioni scenografiche e i costumi sono assolutamente inattendibili e la recitazione, stilizzata e carica, è leggermente datata ma chissenefrega! Pastrone, accusato d’essere un piccoloborghese con deliri d’onnipotenza, è invece un genietto che costruisce il suo film con molta più ironia di quanto credano i critici (la recitazione, perlopiù teatralmente esagerata – vedi la scena della morte di Sofonisba – talvolta prorompe in schietta e divertita mediterranea gestualità, come nei duetti tra il polpacciuto Fausto Axilla e il suo liberto, il roccioso Maciste). Le invenzioni scenografiche, immaginifiche e kitsch, sono comunque interessantissime (il tempio di Moloch) e i movimenti di camera (i primi della storia del cinema, giacché il carrello lo ha inventato proprio Pastrone) sono essenziali ma coinvolgenti. Insomma, bello. (Vhs; 18/1/97)

340-L’uomo di Aran di Robert J. Flaherty, Gran Bretagna 1934

In attesa del Fuori Orario dedicato a Boris Barnet, vedo, su RaiUno, il capolavoro di Flaherty. Ovviamente non lo registro perché dovrebbe sovrapporsi ai programmi di RaiTre (chi cura il palinsesto Rai è un genio); ovviamente sbaglio perché, anche se L’uomo di Aran parte in ritardo di trenta minuti, a Fuori Orario hanno deciso di iniziare la serata per Barnet con Hollywood Party e tutti gli orari preannunciati dai giornali sono saltati. E vabbeh. L’uomo di Aran racconta la difficile vita dei pescatori irlandesi che abitano queste bellissime ma inospitali isole dell’Atlantico. La convivenza con la natura è difficile: il terreno è roccia incoltivabile e il mare dà sostentamento ma anche dolore e morte. Flaherty, rispetto a Nanuk, adotta soluzioni di montaggio molto più moderne (scene riprese con diverse ottiche e poi montate concitatamente) e dedica molta attenzione alla fotografia e alle suggestioni cromatiche (la schiuma del mare che s’infrange sulle rocce nere). Documentario recitato, drammatico e coinvolgente: bellissimo. (Diretta TV; 18/1/97)

341-Aparajito di Satyajit Ray, India 1957

Aaaah, che soddisfazione! Finalmente ho recuperato il film più famoso di Ray e potrò tacciare Pier Paolo, chiedendogli: “Ma tu hai visto Aparajito? Nooo?!? E allora che parli a fare?”. A parte queste bieche soddisfazioni da collezionista ottuso devo dire che il film è molto bello e toccante. Il padre di Apu (pronunciato “Opu”, mi raccomando), è un prete induista che, siamo a Benares, ogni giorno compie le sue abluzioni nell’acqua del Gange. Alla spontanea domanda dello spettatore (“ma è possibile che bere quell’acqua lì non arrechi nessun fastidio gastrico?”) giunge subitanea risposta: il prete infatti è stroncato da una febbre micidiale. Apu e la madre si trasferiscono allora nell’odierno Bangladesh, in campagna. Qui Apu scopre il piacere dello studio e si dimostra molto meritevole. Il dolce rapporto con la madre viene a tendersi quando Apu, ambizioso e capace, vuole andare a Calcutta a studiare all’Università. La madre prima gli nega il permesso, poi, con una velata tristezza dissimulata dall’orgoglio e nella consapevolezza di perderlo, decide di lasciarlo partire. Il loro rapporto diventerà sempre più sporadico fino al triste epilogo: la madre cade malata e Apu rimanda la partenza per visitarla. Quando finalmente si deciderà, la troverà morta. Molti hanno letto la vicenda come una parabola sull’egoismo individuale ma non mi sembra la chiave più giusta (o l’unica). È molto moderna la descrizione del rapporto che lega madre e figlio ed è interessante l’assunto per cui all’affetto si sovrappongono sentimenti meno nobili, causati soprattutto dall’urgenza di vivere (so di essere criptico, ma ho oggettive difficoltà a esprimere questo complesso concetto). Come previsto, un gran bel film. (Vhs; 20/1/97)

342-Crocevia per l’inferno di John McNaughton, USA 1996

Dal regista dell’orrendo e inspiegabilmente osannato Henry, pioggia di sangue arriva quest’altro film, anch’esso accolto benevolmente dalla critica cinematografica. Chris è un ombroso agente di polizia; la sua squallida vita, divisa tra il poligono di tiro e un frustrante lavoro, subisce una scossa quando conosce Pam, una ragazza sola e inquietante. Si sposano ma presto emergono problemi. Il lavoro li divide, i debiti crescono e la reciproca insofferenza, nell’impossibilità di coronare tutti i loro desideri edonistici, cresce. A questo punto Chris, silurato dalla Polizia, decide di intraprendere la lucrosa attività di rapinatore. Il rapporto si ricompone grazie all’insperata ricchezza che investe la coppia ma l’impossibilità di Pam di acquietarsi porterà a un tragico epilogo. Ben costruito e recitato, il film è molto freddo nell’analizzare le perverse dinamiche della coppia: se Chris aspira a una vita tranquilla e agiata (il negozio, la bella casa etc.) e le rapine sono la strada più veloce per raggiungere questa rispettabilità, per Pam, quello che per Chris è un semplice mezzo, diventa un fine, quasi a dare un senso a una vita disordinata e poco appagante. Film scontroso. (Vhs; 21/1/97)

343-L’eroe di Agneta Fagerström, Svezia 1990

Secondo film della rassegna svedese del Lumière: stavolta una parziale delusione. L’eroe racconta l’educazione sentimentale di una giovane svedese durante gli anni Sessanta. La descrizione dell’epoca, i rapporti sociali, la scoperta del sesso e il complesso rapporto che lega Rita, la protagonista principale, all’amato padre, sono narrati talvolta in modo convincente, talvolta semplicistico e alla fine si rimane insoddisfatti. Sarà uno dei film che, grazie all’abbonamento, considererò di aver visto gratis. Vabbeh. (Cineclub Lumière; 21/1/97)

SM11d3.jpg344-La febbre degli scacchi di Vsevolod I. Pudovkin, URSS 1925

Neanche due mesi fa Barbara ha visto un oscuro film muto sovietico su Arte e, premettendo di non averlo registrato, me ne ha dato giulivamente notizia. Dalla breve descrizione ho scoperto che la fedifraga aveva avuto per le mani il primo film di Vsevelod Ilarionovic Pudovkin: aaah! Stridore di denti! Grazie a Dio quell’asinaccio di Ghezzi lo ha recentemente trasmesso su RaiTre consentendomene la deliziosa visione: Mosca ospita il campionato mondiale di scacchi e tutta la cittadinanza è preda di una furibonda passione per la scacchiera. In questo clima allucinato e surreale si svolge la vicenda di due fidanzati che, prossimi al matrimonio, sono divisi proprio dall’infernale gioco. Dopo una serie di divertenti peripezie la coppia si riunirà ma, diversamente da quello che lo spettatore si aspetta, lo farà nella condivisione della “febbre” che prima li divideva. Leggero e stralunato, La febbre degli scacchi è un cortometraggio pervaso da uno humour intelligente e il ricorso alle gag tipiche delle comiche americane è convincente e risolto formalmente in modo innovativo. Insomma: una goduria. (Vhs)

345-Fuori Orario di Martin Scorsese, USA 1985

Curioso film di Scorsese che rivedo dopo tanti anni. Un solitario informatico si avventura dopo mezzanotte per le strade di Soho, N.Y., e passa un’autentica notte d’inferno, tra sbalorditive coincidenze, incontri inquietanti (donne che vogliono sessualmente vampirizzarlo) e pericoli inusitati (lo credono tutti un ladro e gli danno la caccia). L’iterazione in un quartiere inospitale (una moderna foresta dalle mille insidie) è un tema abbastanza abusato ma è qui risolto in maniera originale e divertente. Scorsese ha abituato a ben altre cose ma questo è un piccolo, gradevole film. (Vhs)

346-The Killer di John Woo, Hong Kong 1989

L’ultima passione della critica cinematografica mondiale è rappresentata dal cinema di Hong Kong. Per capire i motivi di questa mattana decido di vedere il più osannato e famoso film di Woo, il maestro riconosciuto del genere. Avete presente quelle epocali scazzottate che vedevano Bruce Lee annientare centinaia di avversari, saltellando e squittendo tra di loro e menando fendenti a destra e manca? Bene, aggiornate gli interni, sostituite fucili e pistole alle mani nude e arriverete a qualcosa che s’avvicina al cinema di John Woo. In più, però, la cinepresa non sta mai ferma e danza letteralmente anch’essa all’interno delle complicate coreografie delle lunghissime sparatorie. Devo dire che mi sono molto divertito ma, sinceramente, scambiare questo film per un capolavoro è, per me, un abbaglio bello e buono. Jeffrey è un killer che per errore acceca un’innocente. Preso dai rimorsi, decide d’aiutarla e se ne innamora. I suoi buoni propositi sono però ostacolati da un boss locale, che ha deciso d’eliminarlo, e da un poliziotto, che è sulle sue tracce. Ovviamente il killer e il poliziotto si troveranno, momentaneamente alleati, a combattere il cattivone (con imbarazzanti tirate sull’amicizia impossibile tra due persone che la pensano allo stesso modo ma che, perché questa è la vita, si trovano su fronti opposti). Estremamente divertente e girato con uno spiccato gusto cinematico, il film soddisfa se non si hanno grandi pretese da parte dei dialoghi e dell’analisi psicologica e se si tollerano alcune scelte tecniche che ricordano i nostri serial televisivi (rallenti, fermo immagine, lente dissolvenze e zoom). Però, godibile. (Vhs)

347-L’occhio di vetro di Lily Brik, URSS 1928

L’occhio di vetro è un insperato regalo di Fuori Orario; una specie di Uomo con la macchina da presa (lo precede di un anno) che illustra in modo molto didascalico ma divertente l’utilizzo e l’utilità dell’“occhio di vetro”, cioè della cinepresa. Il cinema può far conoscere popoli e paesi lontani (i masai, i tropici, gli eschimesi e San’a, quarant’anni prima di Pasolini), può documentare avvenimenti storici (l’incoronazione dello Zar) o illustrare un’operazione chirurgica (impressionante! Viene integralmente proposto l’intervento su un carcerato che s’è ingoiato una lima). Il cinema, soprattutto, documenta la verità dei fatti e ciò avviene soltanto nel paese del socialismo reale perché negli stati dove comanda il Capitale la produzione si rivolge solo all’intrattenimento. In realtà, per dimostrare le sue tesi, anche L’occhio di vetro indulge a raccontarci una breve storia, spiegandoci sia come si gira, si recita e si costruisce un film sia facendoci vedere il risultato finale. Le cose più interessanti sono gli spezzoni dedicati alle città. Sono presentate Mosca (con immagini, tratte da Mosca di Michail Kaufmann, che fotografano il Mercato Sucharev di Melnikov e una torre di ferro di Schuchev), Londra (il funzionamento del London Bridge), Berlino (con immagini scippate a Ruttman e non dichiarate), Parigi (classici carrelli in elevazione dalla Torre Eiffel, simili a quelli del coevo La tour di Clair ma meglio fotografati) e New York. Insomma: il film è storicamente importante, contiene immagini straordinarie ed è assolutamente ignoto (Lily — o Lilja — Brik era l’amante di Majakovskij!). Ghezzi è ormai impazzito, ma un regalo così gli fa perdonare tante follie. Fantastico! (Vhs)

(11 — CONTINUA)