di Valerio Evangelisti
(da “2009, un anno in rosso”, suppl. a il manifesto, dicembre 2008)

Penisola.jpgL’anno 2009 fu decisivo per l’Italia. Un ministro fantasioso, Giulio Tremonti, escogitò il modo per sottrarre l’economia italiana alla crisi che attanagliava il mondo. Una soluzione semplice e originale: fare del paese, per sua natura incline all’esibizione e alla vena farsesca, uno spettacolo. Un reality show. Grazie ai satelliti, gli spettatori del mondo intero avrebbero potuto osservare ciò che accadeva nella penisola, zoomando a piacimento da un quadretto familiare all’arena politica. Il prezzo dell’abbonamento avrebbe rimpinguato le casse esauste del Tesoro.
Fu un successo immediato. Da tutto il mondo, tramite appositi decoder distribuiti da Mediaset su scala internazionale, ci si collegò alla Rete per seguire ciò che avveniva in Italia.

Col telecomando apposite freccine, alla maniera di Google Maps, permisero di ingrandire un quartiere, un isolato, una via. Si vedeva quel che faceva una singola famiglia: i Zanella di Treviso, mezzo morti di fame dopo la chiusura della fabbrichetta a cui si erano consacrati per generazioni; i Pasquali di Napoli, che riscuotevano il contributo dei negozianti a favore della Camorra; i Callegari di Bologna, ridotti sul lastrico dopo che un’ordinanza del sindaco aveva imposto di chiudere il loro pub, in via del Pratello, alle 22. E così via, fino alla brillante ascesa di un tipo grasso e inanellato che, proprietario di un locale alla moda, padrone di scuderie di auto da corsa, partner di varie fotomodelle, aspirava a sottrarre a Silvio Berlusconi, suo vecchio compare, la direzione del partito quasi unico: il Popolo Democratico delle Libertà.
Calcolo errato. Quando, al primo televoto, il canuto ciccione e Berlusconi si trovarono a confronto, il primo fu espulso senza pietà. Non fu questione di telegenia. Il premier appariva decisamente orribile. Capelli dipinti sulla testa pelata, occhi ridotti a fessura dai ripetuti interventi antirughe (a stento riusciva a tenerli aperti), movenze alla Frankenstein. Il rivale poteva vantare riccioli a cavatappi mossi dal vento dei suoi yacht, e pelle ancora fresca.
Non ci fu verso. Il mondo amava Berlusconi, fonte di irrefrenabili risate. L’Italia adorava Silvio, sua proiezione internazionale. Si sostava col telecomando sui Zanella, sui Pasquali, sui Callegari e su tanti altri sfigati della stessa risma, ma inevitabilmente si tornava sul premier, per coglierne le goffaggini. E non si era mai delusi. Fece il giro del mondo, nel marzo 2009, la scorreggia fragorosissima che Berlusconi mollò durante il suo intervento al secondo, inutile G20, tenuto a Roma. Per non parlare di quando, nel corso dello stesso vertice, si cimentò con Sarkozy nello “schiaffo del soldato”, ai danni del presidente della Commissione europea Barroso. L’immagine dei due pierini con l’indice alzato e lo sguardo vacuo fece ridere fino alle lacrime le platee di ogni continente. Non sapevano che Sarkozy e Berlusconi, in apparenza tanto simili, si odiavano tra loro. Questione di dimensioni. Berlusconi era un poco più alto (di statura), Sarkozy era un poco più grande (quanto a credibilità). Di notte si rubavano a vicenda le scarpe dai tacchi altissimi, ma a quell’ora, dato il buio, le telecamere satellitari, pur attrezzate a oltrepassare le pareti, potevano cogliere solo ombre fugaci, in corsa nei corridoi dell’Hilton.
Il fulcro dello spettacolo erano le eliminazioni, decise dal pubblico e dai concorrenti. Berlusconi fece eliminare subito alcune centinaia di magistrati, l’intera Corte Costituzionale, la redazione de il manifesto (salvò invece, chissà perché, Liberazione) e vari presentatori televisivi. La platea mondiale, dopo essersi divertita per la fame che attanagliava le famiglie Esposito di Sorrento (sei figli, tutti precari), Brunelli di Roma (coppia di licenziati, in età troppo avanzata per trovare un altro lavoro), De Michelis di Venezia (marito e moglie giovanissimi con contratto di formazione), Ronchi di Firenze (altri due giovani impiegati in un call center), nonché insegnanti vittime della riforma della scuola, operai sbattuti in strada per la “ristrutturazione” della loro azienda, colletti bianchi congedati per lo stesso motivo, ecc., prese a eliminarli in blocco, a colpi di televoto. La massa, annoiata, voleva le star, quelli che mangiavano bene, i palestrati, i belli, i reduci da infiniti interventi di chirurgia plastica, i sessualmente attivi o attivissimi.
Naturalmente, il meccanismo dell’eliminazione toccò tra i primi lo stesso presidente della Repubblica italiana. Conservato in un ampio frigorifero, ne usciva occasionalmente per dire frasi del tipo: “Superiamo le divisioni”, “Occorre una larga collaborazione tra maggioranza e opposizione”, “Vedete di andare d’accordo”, “Statemi tutti bene”, “Lasciatemi dormire”, “Viva l’Italia”. La noia era troppa, e il mondo lo soppresse con il televoto fin dai primi di giugno.
Ma che conseguenze avevano le eliminazioni? Ancora non si sa. Gli interessati sparivano dai teleschermi e, apparentemente, anche dalle zone in cui abitavano. Non è che fossero uccisi, questo no (non se ne ha la certezza). Forse venivano trasferiti in altre isole o penisole, in zone paludose, in località sperdute. Vi fu chi individuò gruppi di italiani aggirarsi smarriti in regioni dell’Africa e del Medio Oriente squassate da incomprensibili guerre civili, oppure nel nord del Messico, tra colonne di clandestini che cercavano di passare la frontiera o nel fuoco incrociato di sparatorie fra narcotrafficanti. Erano gli “eliminati”? Nessuno saprebbe dirlo. Di sicuro la sorte di chi lasciava il gioco non era felice. Prova ne sia il ritrovamento, in giugno, del presidente della Repubblica congelato dentro un iceberg dell’Artide, molto meno confortevole della ghiacciaia abituale. Appena liberato dal gelido sacello esclamò: “E’ necessario che tutti collaborino a trovare un’intesa”. Poi si riaddormentò, si suppone per sempre. La sua mancanza passò inavvertita, come lo era stata la sua presenza.
In autunno il gioco raggiunse la sua punta massima d’ascolto. Rimanevano in lizza ovviamente Berlusconi — mossa vincente fu quando mise un “cuscino rumoroso” sotto il sedere del segretario dell’ONU — e pochi altri. Bernardo Provenzano, liberato dal carcere grazie all’amnistia per i colpevoli di reati economicamente produttivi (non esistevano dubbi sulla produttività della mafia e sul suo sostegno a un certo numero di famiglie). Valter Veltroni, che si era attirato le simpatie mondiali per la sua perfetta imitazione di un oppositore ragionevole, tanto che molti lo scambiavano per Berlusconi stesso. Simona Ventura, all’origine di tutto ciò. Sandro Bondi, candidato al Nobel per la poesia. La famiglia napoletana dei Pasquali, che intanto si era arricchita col pizzo, e rappresentava un esempio di successo economico in tempo di crisi. Elena Marcegaglia, entrata nel Guinness dei Primati per la quantità di incidenti sul lavoro nelle sue aziende. Sergio Cofferati, che, prima di lasciare l’incarico di sindaco di Bologna a un suo simile, aveva imposto il coprifuoco alle 21, tra gli applausi dei benpensanti. E poi Aida Yespica, Massimo D’Alema, Carmen Di Pietro, Antonio Di Pietro, Alda D’Eusanio e altre soubrettes.
Il voto finale fu nel dicembre 2009. Nella passerella conclusiva i candidati sgomitavano trepidanti. Unico impassibile, perché certo di vincere, era Silvio Berlusconi. Nessuna esuberanza, a parte il pizzicotto di rito alla Yespica e un breve concerto di triccheballacche, col socio musicale Apicella, che lo accompagnava con la fisarmonica. Nessuno aveva mai visto il cavaliere tanto composto e serio. Fungeva da notaio Giulio Tremonti, che si fregava le mani al pensiero delle entrate che la trasmissione stava fruttando.
Arrivarono i risultati del televoto. Tremonti, che li vide per primo, svenne e cadde dalla sedia. Toccò a Giovanni Floris (poteva mancare Giovanni Floris?) enunciarli, sorridendo a vuoto come sempre. Aveva vinto Bernardo Provenzano. Il vecchio mafioso, commosso, baciò il crocefisso che aveva al collo e, già che c’era, baciò anche Silvio Berlusconi, sulla bocca. Il cavaliere non gradì e si pulì le labbra in un fazzolettino ricamato. Era irritato, ormai sperava in un secondo posto.
Fu deluso. Seconda risultò Aida Yespica, vestita del bikini più striminzito che la storia ricordi. La donna, felicissima, inneggiò a Hugo Chávez, baciò a sua volta Provenzano e tentò di fare lo stesso con Berlusconi. Questi si sottrasse. Confidava nel terzo posto.
Fu deluso ancora. Vinse la famiglia Pasquali. Nata nella miseria, la riscossione del pizzo per conto della Camorra (lavoro durissimo e faticoso, per chi non lo conosce) l’aveva portata a un buon livello di benessere, familiare, sociale e politico. Nel comune, nella regione e in Parlamento aveva chi la rappresentava. Alvaro Pasquali era stato brevemente in prigione, però ne era uscito con la legge che premiava i detenuti che avessero agito con finalità imprenditoriali. Nel suo caso ciò era indiscutibile. Le sue discariche di rifiuti sospetti producevano reddito e impiego. I caseggiati da lui costruiti crollavano presto, e così procuravano lavoro ai muratori.
Berlusconi, a qual punto, abbandonò l’aplomb inconsueto cui si era costretto. Prese a raccontare freneticamente barzellette sugli ebrei, per cercare di indurre i televotanti a un ripensamento. Parlò a raffica di figa e di comunisti, i due temi in cui era più ferrato. Citò argomenti accattivanti come l’abolizione totale delle tasse e la clonazione di Padre Pio a partire dalle cellule della sua salma. Arrivò a promettere di abbattere il Colosseo per fare dell’area un quartiere residenziale, e di affossare Venezia per costruire, al suo posto, un lago artificiale destinato alla pesca di trote da allevamento.
Fu un grave errore. Quelle tematiche potevano sedurre gli italiani, non un pubblico mondiale. Inoltre la famiglia Pasquali poteva fare più o meno le stesse cose senza inutili lungaggini legislative. Berlusconi fu inesorabilmente eliminato. Era il 20 dicembre 2009. Il giorno dopo Liberazione titolava a tutta pagina: “La sinistra ha vinto! A Provenzano e ai Pasquali la Penisola dei Famosi!”. Una colonnina di Gino Sansonetti, a lato, celebrava il trionfo, e commentava sarcasticamente l’ultima frase pronunciata da Berlusconi prima di sparire. Si trattava di una proposta di accordo con l’opposizione per gestire la crisi. Veltroni era stato pronto ad accettarla.
La vera sorpresa fu però il 31 dicembre 2009, quando Berlusconi riapparve, tutto pimpante, con gli occhi ridotti a due punte di spillo che sprizzavano allegria. Attorno aveva la famiglia Pasquali al completo, entrata nel governo con l’ultimo rimpasto. Nel frattempo Veltroni scontava l’avere cercato di somigliargli troppo. Assieme a un piccolo drappello di eliminati, percorreva su un dromedario il Darfur, cercando di sfuggire alle pallottole.