di Filippo Casaccia

AR02.jpgI vagoni piombati di Pavia

Entro nello scompartimento e, quando sto per sedermi, è già troppo tardi. Mi vedo dall’esterno: ci sono io, rigido come un baccalà, con una di quelle maschere antigas tipo prima guerra mondiale. Davanti a me, infatti, c’è – nella realtà, non nelle mie fantasie cinematografiche, purtroppo — una specie di lolita truccata come Mortisia e in possesso di due ascelle parecchio vissute. Dorme in posizione fetale e fetente, strizzata da un body che nulla lascia all’immaginazione e che evidenzia due ributtanti aloni di sudore sotto le braccia. I pantaloni di pelle sono alla Iggy Pop versione Stooges (probabilmente non lavati dallo stesso periodo) e al braccio esibisce un monile di rame che la stringe come una coppa piacentina. Alla mia destra sta una quieta signora che sta leggendo le gesta di Padre Pio in quell’interessante pubblicazione di nome Oggi. Evidentemente l’odore di santità le impedisce di sniffarne altri.
Entrano poi nello scompartimento due anziani il cui dialetto mi risulta assolutamente incomprensibile tra borborigmi ed interiezioni gutturali: potrebbe essere una parlata delle valli bergamasche o dell’Aspromonte, boh. Lui sbuffa come una locomotiva a vapore. Ad un certo punto s’infila il mignolo nell’orecchio ed inizia un lento ma pervicace movimento rotatorio. Sembra che si dia la carica. Quando finalmente smette m’aspetto che inizi a suonare un tamburo, chessò, o a muovere la testa e le braccia come un automa. Niente di tutto ciò: dopo uno sbadiglio che mi ragguaglia sulle sue condizioni tonsillari, s’assopisce, mentre la moglie continua a parlargli per un quarto d’ora buono, senza rendersi conto che lui dorme beato.
Di fianco a me, ultimo passeggero di questo singolare caravanserraglio che è il nostro scompartimento, un giovinotto tarchiato e panzuto, vestito tutto di jeans denim e con degli stivaletti appuntiti come un kriss malese. Maneggia un libro contenente i quiz per il concorso di vice sovrintendente di Polizia. Lo sfoglia, sceglie la domanda, s’appunta la risposta con la matita, va a vedere le soluzione e poi impreca sottovoce. Del resto ha gli occhi così vicini che, se non fosse per la presenza del naso, potrebbe avere i bulbi oculari tangenti…
Alle sette di sera il sole è un disco di rame all’orizzonte. I raggi hanno trasformato lo scompartimento in un forno a microonde e mi bruciano la faccia. Allora esco e credo di avere una visione: c’è un tizio precisamente in ciabatte. Dal momento che è un mio incubo ricorrente trovarmi in ciabatte nelle situazioni più disparate e imbarazzanti, vacillo un attimo. A Pavia sale la consueta ciurma di sfaticati che ritiene di frequentare un’università. Sopporto il consueto vociare di finto punk e dark ladies; mi dà gioia solo sapere che il Compagno G non parla manco a morire e il record di avvisi di garanzia è saldamente in mano a Severino Citaristi.
Rogoredo, quella tremenda stazione aerospaziale conficcata come un pugnale nel costato di Milano, beh, Rogoredo, a questo punto, è una meta agognata: non sopporto più la puzza, il caldo ed i discorsi. Il controllore ha un’espressione da preinfarto; trillano furiosamente una marea di telefonini e la gente ci urla dentro chiedendo se l’altro sente; un tizio si mangia un panino con dentro almeno due etti di mortadella dall’odore compenetrante e sbatte l’orrendo bolo tra lingua e palato solo come ho visto fare alle donne coi panni nei lavatoi ottocenteschi, per poi prosciugare con rumore d’idrovora un tetrapak di succo di frutta. Lasciamo Pavia e passiamo davanti ai binari dove riposano tantissimi vagoni piombati: dicono che la piombatura sia dovuto all’asbesto, ma io non escluderei mortadella o ascelle.
Milano, finalmente. Sceso dal treno mi ferma un tossichello che imita malamente il dialetto toscano e mi chiede se “dio bonino, c’hai miha qualche monetina ‘he devo torna’ a Firènze?”. Brutta bestia, la droga. Sposto lo sguardo e leggo sul muro: ‘Il comunismo ha fatto pagare all’umanità un tributo di 100 milioni di morti’. E sotto: ‘Più uno se ti prendo’.
È venerdì e ovviamente c’è un bello sciopero della metropolitana. Costretto, aspetto l’orrida 95 per mezz’ora. Le prime due che passano vanno in autorimessa. Impreco e arriva la terza. Attraversiamo una Milano strana, fredda, coi lavori bloccati a causa di Tangentopoli e i muri coperti di manifesti forcaioli della Lega e scritte ‘Forza Di Pietro’.
L’autobus si riempie lentamente. A Famagosta salgono due tipine che si presentano subito: vedendo che non ci sono posti liberi a sedere, la prima esclama un “Figa!” che fa sussultare tutti. Si piazzano davanti al mio posto e decido che non glielo cedo manco a morire e mai scelta fu più azzeccata, perché mi regalano trenta minuti d’antologia. La Vanda e La Susanna sono due trentenni, impiegate, mediamente benestanti e meno che mediamente acculturate. M’accompagnano fino a San Siro raccontandosi particolari ginecologici della loro esuberante sessualità, passando dalla qualità dei loro orgasmi alle deludenti prestazioni dei partner. La Vanda ha un amante scarsissimo ed è stufa di fingere: prima o poi lo lascia, dichiara alla 95 tutta. La Susanna è più soddisfatta. Ad un certo punto chiede, senza preamboli, ma stantuffando vigorosamente per aria a pugno chiuso: “Uè, Vanda, oggi hai già pompato?”. Io mi vergogno come un cane: sono notoriamente sordo e mi sembra che urlino. A Bande Nere salgono delle massaie che non trovano niente di meglio che prendersela con quel povero sfigato del conducente che allo sciopero non sta aderendo. Di fronte a queste beline che snocciolano i consueti luoghi comuni e che così non si può più andare avanti, l’autista che fa? Gli prende un attacco isterico e minaccia, sudato come un orso, di mollare tutti lì e di portare il mezzo in autorimessa. Partono insulti e La Vanda e La Susanna si distinguono apostrofando le massaie: “Siete delle stronzeee!”: reazioni, scamiciamenti, scuse ed altre banalità. Poi, alla fine, si riprende la corsa.
Arrivo da Barbara sano e salvo. Mi aspetta un bel weekend da pendolare dell’amore.

(2 — CONTINUA)