di Dziga Cacace

SM09a.jpg268-Woodstock di Michael Wadleigh, USA 1970

Dopo 5 o 6 anni e dopo varie visioni parziali mi sparo, in rigida soluzione unica, il rockumentary più bello di tutti i tempi. Premesso che ho passato i primi quaranta minuti pressoché in lacrime di fronte alle idilliache immagini di vita comunitaria hippie, che dire? ECCEZIONALE! Le immagini del concerto sono stupende con i Santana in pieno trip, Alvin Lee col melone, Bob Hite dei Canned Heat abbracciato sul palco da un tizio evidentemente fuori fase, Janis che soffre un blues, gli Who che sfasciano tutto, Hendrix che simula le bombe sulle note distorte dell’inno americano, il cafonissimo Cocker o gli imbarazzati Crosby, Stills e Nash. Ma sono grandiose anche le varie interviste agli spettatori, agli hippie arrivati semplicemente per l’evento in sé e ai cittadini di Bethel (alcuni incazzati neri, altri orgogliosi di questi ragazzi). Come non emozionarsi di fronte alla tronata in preda ad agorafobia in mezzo a cinquecentomila persone? Come non sciogliersi di fronte alla suorina che fa il segno della vittoria, alle scene d’amore e di nudismo, all’esercito che rifornisce il Festival di cibo o al poliziotto che, serafico, si ciuccia un ghiacciolo?


E ancora: l’inserviente dei cessi chimici che ha un figlio lì e uno in Vietnam o gli organizzatori che annunciano un passivo economico clamoroso ma, indicando la marea di gente che convive in pace, trovano che tutto ciò non abbia prezzo (quando io, a Sant’Ilario, per un mio concerto con neanche cento persone, ero in piena crisi di nervi). Semplicemente stupendo: un documentario su un’era che sembrava dovesse nascere e invece stava già finendo e sull’utopia destinata a soccombere. Triste e gioioso: bellissimo. E forse il merito è di Scorsese (2° unità, davanti al palco, e montaggio). (Vhs)

269-Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, Italia 1948

Seconda visione, stavolta su grande schermo, dopo tre anni. Sinceramente ricordavo proprio poco e ho, nuovamente, apprezzato. Che dire? Beh, bravino questo De Sica. Si chiama così? (24/10/96, Cineclub Lumière)

270-September Song di Larry Weinstein, Canada 1995

Musicisti delle più svariate estrazioni (dalla classica al rap) rileggono le musiche di Weill, accompagnati da una puntuale, anche se scarna, storia della vita e delle opere del compositore tedesco. La musica è bella e le interpretazioni sono (quasi) tutte interessanti; la regia talvolta compie invenzioni notevoli, talvolta invece risulta un po’ piatta, adagiandosi su di un inutile estetizzante accademismo, ma gli episodi riusciti superano quelli anonimi e il risultato è gradevole. Su tutti (forse per predilezione musicale) emergono le belle performance di Costello col Brodsky String Quartet, di Lou Reed e, particolarmente, di una eccezionale P.J. Harvey. Film originale, con un interessante allestimento scenico e che, nonostante alcuni evidenti sbandamenti, riesce a soddisfare. (25/10/96, Cineclub Lumière)

271-Il vento di Victor Sjöstrom, USA 1928

Drammone rigorosamente muto che, nonostante l’ora tarda di visione, ho decisamente apprezzato: Letty (Lillian Gish) è ospitata dal fratello adottivo in una località semidesertica spazzata dal vento. Parallelamente al crescere della brezza ululante, Letty viene emarginata dalla moglie del suo ospite e si vede costretta, dopo essere stata illusa dal ricco e untuoso Roddy, a sposare il cowboy Lige, di cui non è innamorata, pur di trovare un posto dove vivere. La convivenza non è facile (straordinaria la sequenza dei primi baci, girata inquadrando i piedi dei protagonisti) anche per l’incessante presenza di un vento violento e isterizzante. Letty sembra sull’orlo di una crisi di nervi (bellissime le scene in cui la Gish, lievemente scossa, vaneggia) e, in assenza di Lige, ospita il bieco Roddy il quale, vecchio porco, tenta di abusarne. L’eroina, che sembra vagamente fuori di senno, non ci pensa due volte e lo fa secco. Dopo tutto ‘sto crescendo drammatico, sapientemente scandito da un bellissimo montaggio che possiede una sonorità visiva sconcertante, arriva, inaspettato, il lieto fine. Finalmente Letty ama Lige e accetta la natura inospitale che la circonda. Molto, molto bello. (Vhs)

272-Fratelli di Abel Ferrara, USA 1996

Un Ferrara inaspettatamente classico riflette sulla morsa di violenza che costringe una famiglia italoamericana durante la Grande Depressione. Perché classico? La narrazione è scandita con lentezza (il primo tempo forse un po’ troppo) e manca la consueta regia visionaria, visivamente aspra e violenta. Ma non è un male… Johnny Tempio, giovane e idealista, viene fatto secco all’uscita di un cinema: nei suoi due fratelli maggiori cresce, parallelamente al dolore, l’esigenza di vendicarlo secondo una ineluttabile legge per cui si deve lavare il sangue con altro sangue, perpetuando la maledizione che i Tempio sembrano portarsi addosso (una maledizione ben esemplificata anche dal dramma delle loro mogli). Attraverso dei concisi flashback conosciamo il passato dei familiari e ci vengono forniti indizi per capire chi possa avere ucciso Johnny: è chiaro però che a Ferrara non interessa costruire un giallo sull’accaduto e infatti alla fine il mistero rimane aperto; non per questo non scorre altro sangue, anzi, quasi a sottolineare l’illogicità di questa vendetta, si ha la certezza che vengano uccisi altri innocenti. All’uscita non ero convintissimo ma, ripensandoci, ho trovato Fratelli decisamente apprezzabile. Ferrara scandaglia bene l’interiorità dei suoi personaggi e li rende tragicamente credibili, aiutato da prove recitative assolutamente superlative. (Cinema Corallo, 26/10/96)

273-Il commediante di Peter Chelsom, USA 1995

Sconosciuto film passato inosservato da critica e pubblico e snobbato dalla distribuzione… un motivo ci sarà. E invece no! Seppur con qualche non trascurabile difetto, mi è piaciuto. Il figlio (Platt) di un noto comico (Jerry Lewis) viene umiliato, in quel di Las Vegas, dalla straripante presenza del padre e da un pubblico di beline. Non avendo più nulla da perdere (ha congedato la platea americana con un “Grazie, siete un pubblico di merda”) ritorna alle sue origini e si trasferisce a Blackpool, una sorta di Atlantic City inglese (con tutto l’evidente squallore che ciò comporta), dove ha vissuto i primi felici anni della sua vita. Qui ritrova l’ambiente che aveva accompagnato gli esordi del padre e scopre imbarazzanti verità sui segreti della sua comicità e sul suo passato sentimentale; parallelamente alle riflessioni sul ruolo castrante del padre, sulla vis comica (dagli imperscrutabili percorsi ereditari) e sull’arte circense, si sviluppa un’improbabile vicenda gialla che regala al film anche un’angolazione fantastica. Troppa carne al fuoco, troppi temi e confusione, però… il mestiere c’è e il regista riesce a dirigere in modo equilibrato sia le parti drammatiche sia quelle comiche, con alcune sorprendenti scelte fotografiche e registiche, sorretto anche dalle buone prove degli attori; il film giunge a conclusione con un teso, drammatico crescendo: inaspettato arriva un lieto fine molto schematico, ma in fondo perdonabile. Non so, ho preso in simpatia il film e dunque… Soddisfacente (ma dipende dai palati). (28/10/96, Cineclub Lumière)

SM09b.jpg274-Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, Italia 1951

In un Lumière desolatamente vuoto (24 persone) vedo per la quinta volta in due anni e mezzo uno dei miei film preferiti e, non ci posso credere, stavolta, un po’ per la reiterata visione, un po’ per lo squallore della situazione, un po’ per la pellicola che sembrava Il Gabinetto del Dottor Caligari, non riesco a goderne appieno. Chiaro, il film è sempre bellissimo ma ormai lo so a memoria. È colpa mia. (Cineclub Lumière; 30/10/96)

275-Il manuale del giovane avvelenatore di Benjamin Ross, Gran Bretagna/ Germania 1996

Mah! Deludente… presentato come un film feroce e acido si trasforma presto in un rozzo tentativo di mostrare la contorta psiche di una belina che si diverte ad avvelenare chiunque lo scocci. I primi venti minuti hanno tempi da commedia nera, si intravede una gustosa ironia nei confronti del popolo più squallido dell’orbe terracqueo (gli inglesi, obviously) e ci si gode il lento assassinio della matrigna del protagonista; a questo punto il giovane avvelenatore viene arrestato. La sua permanenza in carcere e il suo reinserimento nella società non convincono, appesantiti da velleitari tentativi di analisi psicologica (che naufragano nella pochezza della sceneggiatura) e da una regia e un montaggio piatti e scontati. Simile, tematicamente, a Creature del cielo, ne sembra il fratello minore e minorato. Proprio insipido, peccato. (Cineclub Lumière; 31/10/96)
N.B.: un cugino matto della Hilda, Mario, ha provato a convincermi delle similitudini tra questa schifezzina e Arancia Meccanica, per poter leggere in maniera differente il film e, sostanzialmente, trovarlo convincente. Bah! È pazzo.

276-I fratelli Skladanowsky di Wim Wenders, Germania 1995

Piccolo film per il palloso maestro teutonico… e il risultato è carino, probabilmente grazie ai ragazzi della Scuola di cinema di Monaco che hanno collaborato. In un curioso stile semi-documentaristico (che mescola ricostruzioni in un bianco e nero virato e tremolante e l’intervista all’ultima Skladanowsky vivente) viene ricostruita la vicenda che vide i suddetti fratelli costruire una sorta di cinematografo ante litteram (8 mesi prima dei Lumière). Il “bioscopio” non ebbe fortuna e il film vuole rendere omaggio a questi dimenticati pionieri del cinema. A tratti anche lezioso e compiaciuto (per conto mio, sempre colpa degli studenti), è comunque interessante. Il finale presenta una carrellata di immagini sulla Berlino che cambia, assolutamente wendersiane e assolutamente inutili; i titoli di coda, invece, divertono per i primi due minuti poi diventano una tortura. Nonostante tutto, un film piacevole. (Cineclub Lumière; 1/11/96)

277-The Last Waltz di Martin Scorsese, USA 1978

Osannato come il miglior film concerto di tutti i tempi, per conto mio non regge il paragone con tanti altri meno conosciuti esempi del genere. Le performance musicali sono di variabile valore: i migliori pezzi della Band sono alternati agli straordinari Dylan, Clapton, Van Morrison e Muddy Waters. Le altre apparizioni appaiono musicalmente meno incisive. La regia ogni tanto si libra in qualche avvolgente dolly, ma perlopiù predilige poco fantasiose zoomate sui musicisti, e le interviste che intervallano i brani musicali restituiscono sí la storia della Band, ma regalano anche momenti decisamente poco interessanti, strozzate, oltre a tutto, da un doppiaggio tanto pacchiano quanto inutile. Ma Levon Helm è fantastico. (Vhs)

278-Permanent Vacation di Jim Jarmusch, USA 1980

Esordio cinematografico per il guru degli alternativi che infestano il Lumière. Il film (fotografato come una sbiadita Polaroid) si apre con la programmatica dichiarazione che “raccontare storie non è altro che descrivere i tragitti delle persone da lì a qui”. E in effetti… Tutta la cifra stilistica e tematica del cinema di Jarmusch è già ben presente e la vicenda segue i vagabondaggi di un perdigiorno che si sente un turista in permanent vacation. Il suo unico sogno è possedere un bel macchinone da gangster. Lo corona dopo una serie di inquietanti incontri, conditi da storielle assurde, rubando una decappottabile anni Cinquanta che vende subito dopo per partire alla volta dell’Europa, dove si intuisce che gironzolerà come fanno i finto-punk alternativi che infestano il mio cineclub. La cosa migliore del film, e del cinema di Jarmusch che seguirà, è l’ambientazione: New York è ripresa, attraverso deformanti grandangoli, in luoghi molto poco comuni. La Manhattan da cartolina rimane sugli sfondi dei bei carrelli che si insinuano tra le vecchie palazzine diroccate, le sporche strade secondarie o i muri cadenti degli insediamenti popolari. Che dire, dopo tutto? Francamente una barba; il mio pizzetto, alla fine della visione, aveva assunto dimensioni da Assurbanipal. Nonostante tutto (subentra il buono?) non mi sono addormentato; ho assistito al film con stoico spirito critico e vivace attenzione per provare a capire un fenomeno cinematografico la cui fama mi sorprende. Il giorno che piglio il potere, Jarmusch sarà vietato e i finto-punk saranno rieducati con i film di Bertolucci. (Cineclub Lumière; 6/11/96)

279-Le onde del destino di Lars von Trier, Danimarca/ Svezia/ Olanda/ Francia/ Norvegia 1996

Difficoltoso dare un lucido giudizio… Emozionalmente il film mi ha molto coinvolto; formalmente mi ha convinto ma rimane come qualche inintelligibile resistenza a esserne pienamente soddisfatto. Bess e lo svedese Jan (che lavora su una piattaforma petrolifera) si sposano nella generale riprovazione della bigotta comunità protestante che abita le (suppongo) isole Ebridi. Conseguentemente a un incidente sul lavoro Jan rimane paralizzato: nella mente sconvolta di Bess (già in passato provata dalla morte del fratello) qualcosa si incrina; per vedere tornare in piedi l’amato Jan intraprende un percorso mistico e sensuale in cui sfoga la sua personale religiosità. Il percorso culminerà nella sua uccisione a opera di due abbrutiti marinai e nel contemporaneo miracolo che ridonerà la salute al moribondo. Detto così sembra una porcata, lo so. Andiamo per ordine: ho visto il film con un anno di tesi sulle spalle (era come se mi fosse piombato sulla schiena tutto d’un botto) e una pizza, una farinata e un litro di birra sullo stomaco (non nello stomaco, proprio sullo stomaco). Le condizioni di visione non erano dunque delle migliori; oltre a tutto il film era al famigerato Ritz. È d’obbligo una parva digressio: when I was young il Ritz era un glorioso cinema parrocchiale dove ho visto tanti film di Disney, Momenti di gloria, I gladiatori, Excalibur, due volte Altrimenti ci arrabbiamo e chissà quante altre cose. Oggi, dopo una pietosa mano di vernice, è stato dotato di un dolby che fischia, di poltroncine che cartonano le chiappe dopo un quarto d’ora e di un proiezionista che ha il vizio di accendere le luci sui titoli di coda. Il Ritz si propone come cinema di “prima visione di qualità” con il risultato di alternare le cose migliori del cinema comunque commerciale con porcate tipo l’ultimo 007. Il dramma è rappresentato dal fatto che tante teste di cazzo vengono al Ritz pensando che ciò li elevi culturalmente dal brutale stato di ignoranza che li pervade; capita dunque, durante le visione, di sentire battutacce, sacchetti di patatine aperti “a scoppio”, biascicature tipo copertone tra le mandibole e altre piacevolezze. Tra l’altro la giornata mi ha visto girare come la merda tra i tubi tra Genova e Milano. La visita meneghina ha comportato una serie di cambiamenti climatici fisicamente stressanti: i trasferimenti dal treno alla casa del cugino Amedeo, alla strada, al tram, a casa Vari e nuovamente al treno sono stati equivalenti a tre passaggi dal clima della tundra a quello umido della foresta equatoriale. Al terzo tempo del film il Ritz aveva raggiunto un grado di umidità ambientale paragonabile a quello di un giorno caldo a Maracaibo e io sudavo come un orso alle Maldive, in un oggettivo pesante disagio climatico. Fatte tutte ‘ste doverose premesse ritorno all’oggetto della supposta recensione… Beh, il film m’è immediatamente piaciuto (pur se con quel senso di indefinibile dubbio). Innanzitutto è formalmente molto intrigante (non basta, ma è già molto): girato interamente con la cinepresa a spalla (in formati di pellicola variabili e poi dilatati, almeno credo), è fotografato dal wendersiano Müller (che fa anche l’operatore) con toni ocra e presenta un bellissimo e nervoso montaggio, spesso temporalmente spezzato. Tematicamente, per quanto un po’ altalenante, è convincente (tralasciando l’inutile finale kitsch). Il percorso di follia che porta Bess al sacrificio per amore di Jan può sembrare schematico ma mi sembra invece ricco di implicazioni: il personale dialogo con Dio, il destino di donna all’interno della Società e della Chiesa, la disarmante fede nel miracolo, la possibilità di un amore che passi soltanto attraverso le parole, la diversa percezione morale del peccato e della perversione… forse temi non risolti ma intriganti. Non so, si esce dal cinema con la sensazione di aver visto un film ricco… boh, magari è un abbaglio. Comunque ogni giudizio è viziato dalle premesse e dal fatto che – cuore di margarina – la scena madre della morte di Bess e del pianto disperato della vedova del fratello mi ha commosso come un fantolino. Ottimi gli attori, particolarmente quella che impersona Dodo (già vista in Naked e Prima della pioggia), e belle le stranianti musiche che commentano i vari “capitoli” (per Hilda sono convenzionali: da quando in qua ascolta Mott the Hoople, Thin Lizzy, T. Rex, Deep Purple etc.?). Una volta che la mia memoria corta avrà cancellato gli ineffabili dubbi griderò al capolavoro; per ora apprezzo, molto. (Cinema Ritz; 7/11/96)

280-Irma Vep di Olivier Assayas, Francia 1996

Mah! Sarebbe ingeneroso criticarlo duramente ma… non so. Tutto il film presenta a tratti idee decisamente piacevoli ma anche momenti in cui ti aspetti che la vicenda decolli, cosa che mai accade. Il finale risolleva il morale, ma è troppo tardi. Opera contraddittoria, parzialmente compiaciuta e sicuramente non riuscita. Stasera sono spietato. (Cineclub Lumière; 8/11/96)

281-Potrei credere solo a un Dio che sapesse danzare di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia 1995

Difficile essere obiettivo (uno dei registi è fratello della mia compagna), però ci provo. Innanzitutto so molto poco di teatro in genere, figuriamoci del teatro d’avanguardia, per cui mi calo in una dimensione completamente ignota. Il film, che alterna con un buon montaggio e soprattutto con una buona scrittura, momenti di fiction e brani documentari, tenta di illustrare l’orizzonte della ricerca teatrale in Italia negli ultimi anni: evidenziati i problemi del fare teatro oggi, si cerca attraverso la voce dei più importanti registi (e questo mi sembra il merito maggiore del film) di trovare delle soluzioni all’attuale crisi creativa e commerciale, proponendo nuove strade e nuove motivazioni. Vengono presentate tre esperienze significative (il teatro di strada a Campsirago, il teatro nelle carceri e quello nei centri sociali) e se ne deduce l’esigenza di cercare nuovi spazi, anche fisici, per portare avanti la ricerca e riguadagnare un pubblico che sembra sempre più quello degli abbonati. L’assunto teorico funziona (il film ha avuto una citazione di merito al Festival di Rimini per questo motivo) e il film è tecnicamente convincente. Purtroppo stonano completamente i riferimenti al gruppo d’appartenenza che nulla hanno a che fare con il teatro (se non in una prospettiva molto più ampia che però andrebbe affrontata in maniera diversa): intendo dire l’invettiva di De Berardinis contro Berlusconi (agli spettacoli e alla cultura fa male anche tanta sinistra, o presunta tale) o le immagini puramente politiche dei centri sociali (i Bisca etc.). Comunque m’è piaciuto. (Vhs)

SM09c.jpg282-La canzone di Carla di Ken Loach, Gran Bretagna/ Nicaragua/ Spagna 1996

Ahi, ahi. Alle solite: regista civile, impegnato etc., etc. Tutti mi hanno messo in guardia: il primo tempo è bello, il secondo no. E invece, cari miei, sono imbarazzanti tutti e due. Oddio, nel primo tempo, se non altro, ci sono due o tre sequenze godibili (le varie liti sul bus e l’improbabile gita al Loch Lomond) ma la storia è assolutamente pretenziosa e poco credibile. È schematico l’innamoramento dei due protagonisti, artificiosa la decisione della partenza verso il Nicaragua e, peggio ancora, il racconto, banale e mortificante, della rivoluzione sandinista. Non so il pubblico medio e di sinistra cui questo film evidentemente si rivolge, ma chi aveva bisogno di ‘sta favoletta per sapere che la Contra era armata dalla CIA? E vogliamo parlare di Scott Glenn che si rivela ex addestratore a Langley con una scena che, per battute e recitazione, è realmente drammatica? Sono proprio deluso: Loach sopperiva alla non particolare ricerca registica con storie ottimamente scritte, coraggiose e scomode. Qui, mi sembra che sia molto consolatorio; siamo di sinistra, siamo i buoni: diciamocelo e sentiamoci uniti nella sdegnata condanna dello yankee. Nonostante tutto scivola bene (2 ore), ma è proprio evanescente. Ah, oggi mi sono laureato. (Cineclub Lumière; 11/11/96)

283-Regalo di Natale di Pupi Avati, Italia 1986

In una tremenda notte di Natale quattro vecchi amici si rincontrano per spennare a poker un pollo. Non tutto va come previsto e a vecchi rancori si sovrappongono nuove carognate, fino all’imbarazzante finale… Bah! La partita di poker è veramente tesa e la suspense è dosata in un bel crescendo; peccato che intervengano dei fastidiosi (narrativamente e cinematograficamente) e orrendi flashback che nulla aggiungono alla comprensione dei rapporti tra i giocatori e che, in più, sono fotografati con un effetto flou veramente vomitevole. Le caratterizzazioni sono ottime (Delle Piane maniacale e spietato, Abatantuono volgare e ingenuo, Cavina untuoso e mellifluo, Haber, al solito, sfigato e perdente) e la regia le gestisce bene. Non completamente riuscito ma positivamente (s)gradevole (e angosciante). E poi Haber che gioca con la foto di John Ford in fasce sul tavolo. (Vhs)

284-Sciopero di Sergej M. Ejzenštejn, URSS 1925

Ho sempre proclamato il mio amore per il cinema sovietico (1925/35) ma in effetti è un amore basato sulla visione di una decina di capolavori e in realtà mi mancano i veri capisaldi del periodo. E allora, a tesi conclusa e a titolo acquisito, mi dedico a colmare le imbarazzanti lacune. Purtroppo certi autori mi rimarranno ancora ignoti per tanto tempo (Ekk, Dovzenko, i due Vasilev etc., dei quali sembra impossibile reperire qualcosa in videocassetta), ma nel frattempo mi scoppio i capolavori di Pudovkin e Ejzenštejn. Inizio la mia rassegna interna con Sciopero, primo lungometraggio di Sergej Michailovic: le prime scene suscitano il mio immediato entusiasmo (e non era detto: insomma, la cinematografia sovietica può anche risultare pesantuccia). Avevo letto di un’opera ancora immatura, forse troppo propagandistica… massì! Straordinaria! Diciamolo: se in tutti gli altri autori una caricatura del capitalista grasso e con il sigaro mi farebbe imbestialire, in Ejzenštejn risulta subito convincente e funzionale a un film educativo, per le masse, propagandistico se si vuole, ma assolutamente vibrante, robusto, poetico e formalmente ricercatissimo. Novità, rispetto a ciò che già conoscevo del maestro, sono la sottile vis comica e la ricerca formale, lontanissima dalla classicità dei capolavori a venire. Montaggi paralleli a bizzeffe, gag slapstick (specialmente nelle prime scene), mascherini, inquadrature insolite (specchi, riflessi nelle pozzanghere etc.) e fotografia nitidissima, ma anche la capacità di dirigere straordinariamente le scene di massa (Bertolucci ha attinto, eh sí) o le parti drammatiche e commosse delle sequenze finali. Per quanto accompagnato da un commento musicale che avrà fatto rivoltare Sergej nella tomba, l’ho trovato stupendo, nell’attesa di morire dal godimento per Ottobre. (Vhs)

285-L’ombra del testimone di Alan Rudolph, USA 1991

E dopo il capolavoro un bel tuffo nella merda. Pier Paolo, consultando la mia videoteca, ha disprezzato La morte e la fanciulla (noioso!) per poi pronunciarsi favorevolmente su questa bella porcata di Rudolph. Ormai la patonza ottenebra completamente l’emisfero cerebrale del fraterno amico, comunque… Comunque il film è una schifezza inaudita. Attori principali: Keitel (ancora lontano dai fasti divistici e intrappolato in un ruolo che non gli consente quasi di recitare) e la Moore (versione naturale, con acconciatura tipo Sheena regina della giungla, gambe storte e cellulitiche, culo basso e tanto, tanto silicone in meno). Di contorno tale Headley, cagna almeno quanto Demi Moore, e Bruce Willis, che ha un ruolo troppo esile per recitarlo male. La trama è prevedibile, la tensione nulla, il ritmo soporifero e, non bastassero tutte ‘ste mazzate nei testicoli, il regista si permette di fare il De Palma e talvolta ti butta lì un’inquadratura storta, un rallenti o un carrello fulmineo, aumentando all’inverosimile la mia indignazione. Un’autentica disgustosa fetenzia (e Pier Paolo necessita cure immediate). (Vhs)

SM09d.jpg286-Ottobre di Sergej M. Ejzenštejn, URSS 1927

In passato, la visione parziale di alcune scene mi aveva predisposto al capolavoro, e in effetti… Nel 1917 lo Zar è spodestato e nasce un governo provvisorio, guidato da Kerenski, che si distingue per inettitudine: i bolscevichi, in un lento e coinvolgente crescendo, prendono il timone della sommossa e portano al trionfo, al grido di “Tutto il potere ai Soviet”, la rivoluzione proletaria. Tutte le fasi della vittoriosa rivolta sono seguite attraversi ariosi blocchi narrativi, ognuno dei quali prevede una tensione e una risoluzione accentuate dall’uso del montaggio. Siamo a livelli semplicemente fantastici! La repressione di uno sciopero, la caduta e la fuga di Kerenski, la fraternizzazione dei rivoltosi con la Divisione Selvaggia dei cosacchi di Kornilov, l’inettitudine dei governanti borghesi, la sequenza del fucile (“proletario: prendi il fucile!”) e l’assemblea dei Soviet sono tutti brani di cinema incredibili. La fotografia dei particolari, il montaggio parallelo, la concitazione delle immagini (che creano un vero sonoro: finalmente capisco perché se un film è stato concepito muto, così deve essere visto), l’espressività dei volti… Tutto concorre a creare un’opera assolutamente clamorosa. Mi rendo conto di essere incapace di rendere minimamente l’emozione che accompagna la visione di questo film. Senza ulteriori commenti: rigorosamente Top Ten. (Vhs)

287-Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau, Germania 1922

Inizia la personale di Murnau al Lumière e godo dell’occasione di vedere su grande schermo, in edizione restaurata e virata (come l’originale), il sommo capolavoro del Maestro. La visione non è aiutata dalla maldestra lettura delle didascalie (rigorosamente in gotico stretto) da parte di due volenterose lettrici ma, di fronte alla potenza delle immagini, passa tutto in secondo piano. Al solito straordinarie le scene della nave e della follia indotta dalla presenza del vampiro. Proprio bello. (Cineclub Lumière; 14/11/96)

288-Il cammino nella notte di Friedrich Wilhelm Murnau, Germania 1920

Il cammino nella notte, (notte come cecità fisica, ma non solo), è un raro film del primo Murnau. Presentato al Lumière in una copia restaurata, spettacolare per luminosità e definizione, stupisce subito perché, anche se antecedente Nosferatu, sembra, dal punto di vista formale e narrativo, molto più moderno. La scelta delle inquadrature e della composizione è varia e alcuni momenti (le riprese della natura a significare i tormenti psicologici dei protagonisti) sono assolutamente straordinari. Il medico Eigil, raggiunta la fama professionale, abbandona la donna che lo ha seguito durante tutta la sua ascesa per fuggire con una ballerina. Il loro rapporto s’incrina, però, quando Eigil riesce a donare la vista a un pittore cieco di cui la ballerina s’invaghisce. Il finale drammatico è un po’ tagliato con la roncola ma, nonostante questi peccatucci, lo svolgimento narrativo convince. Il parallelismo tra cecità fisica e cecità dei sentimenti (e loro consequenzialità), per quanto possa oggi sembrare schematico, è invece, per l’epoca, un brillante tentativo di elevare i semplici contenuti drammatici del melò. Bello. (Cineclub Lumière; 14/11/96)

289-La madre di Vsevolod I. Pudovkin, URSS 1926

La Madre, il Padre e il Figlio (rivoluzionariamente anonimi, archetipi per tutto un popolo oppresso dallo Zar) vivono la tragedia di uno sciopero e della repressione cruenta che lo segue. La narrazione è fluida e presenta scelte di montaggio sicuramente molto radicali per l’epoca, ma, sarà per l’impianto melodrammatico e meno rivoluzionario (in tutti i sensi) del film, il mio coinvolgimento è minore rispetto ai due capolavori di Ejzenštejn appena visti. Presa posizione nell’annosa divisione che vede il mondo diviso tra estimatori di Sergej o di Vsevolod (ma preferisco gli scritti teorici del secondo a quelli del primo) concludo: La madre è comunque bellissimo. (Vhs)

(9 — CONTINUA)