Fine e nuova nascita del mondo nella narrativa italiana contemporanea

di Simone Sarasso*
[In calce al post, link, discussioni e iniziative sul New Italian Epic]

1. LA ROTTA

Il memorandum di Wu Ming 1 sul New Italian Epic, diffuso in rete a fine aprile 2008, ha generato una lunga coda di approfondimenti. Se ne sono occupati quasi tutti i “citati” (Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Giancarlo De Cataldo, Girolamo De Michele, tanto per fare qualche nome) e molti altri: scrittori, ma anche operatori del settore e semplici lettori. La riflessione è progredita, è mutata, si è sviluppata. Segno che, a dispetto della solita critica letteraria un po’ miope e anzianotta, che accusa di sotterranei consociativismi e si affretta a gridare alla ghenga, alla cricca, all’adunata degli amichetti del circolino, esiste ed è pulsante un sostrato comune, un’intenzione forte.
Intenzione, o meglio direzione e fonte di ispirazione, che lega opere di autori molto diversi che, per un motivo o per l’altro, — più o meno scientemente — si sono trovati a fare un pezzo di strada insieme.
Ragionando sulle opere menzionate da WM1, e compiendo un passo ulteriore verso la “seconda linea” di autori (di cui faccio parte), mi sembra di ravvedere un ulteriore tratto comune a una certa produzione degli ultimi quindici anni.
Imbraccio il saggio al contrario, come da piccoli s’impugnava la chitarra, incerti sulla destra e la sinistra, e leggo:

Al fondo, tutti i libri che ho menzionato tentano di dire che noi — noialtri, noi Occidente — non possiamo continuare a vivere com’eravamo abituati, spingendo il pattume (materiale e spirituale) sotto il tappeto finché il tappeto non s’innalza a perdita d’occhio.

Il mondo senza di noiSegue un’ispiratissima visione del mondo dopo la fine della razza umana; visione suggerita dallo splendido saggio di Alan Weisman Il mondo senza di noi. Le parole di Weisman riecheggiano in quelle di WM1, a cascata: immagini futuribili di un globo prossimo al collasso per la trasformazione del sole in gigante rossa, la razza umana come ricordo rinsecchito (e tutto sommato superfluo) di un pianeta a due passi dall’estinzione.
WM1 utilizza Weisman per focalizzare l’attenzione sull’antropocentrismo dominante nella letteratura di ogni tempo, per invocare un punto di vista alternativo, uno sguardo obliquo che superi la prospettiva umana, che renda giustizia a un mondo “altro”.

È questa la vera guerra, quella che, finché saremo sul pianeta, non avrà un “dopo”.
[…] Non fingiamo che il fronte di questa guerra sia lontano.
Non chiamiamo questa finzione “pace”.
Noi non siamo in pace.
La letteratura non deve, non deve mai, non deve mai credersi in pace.

Leggo questo e penso: apocalisse.
La maggior parte delle opere ascrivibili all’orizzonte del NIE ha un’efferata, spasmodica tensione apocalittica.
Per chi come me è cresciuto negli Ottanta, il dato è piuttosto significativo.
Un conto è vedere War Games e Sindrome Cinese quando hai quindici anni. Un conto è vederli a sei.
Determinate categorie estetiche, è fisiologico, si formano per shock, s’imprimono in maniera traumatica nella memoria.
A un sacco di gente della mia generazione è successo così.
L’ecatombe, lo squassamento planetario, la rivoluzione globale sono nel dna di chi ha su per giù la mia età.
Pensate a un libro come La strategia dell’Ariete (Kai Zen, altra retrovia del NIE secondo WM1) e ditemi cosa c’è di più apocalittico di una setta millenaria che vuol dominare il mondo.
Noi siamo (e scriviamo) così.
Perché a cinque anni Reagan — ai prodromi della demenza senile, col dito sul bottone — ci metteva strizza da morire.
Perché abbiamo vissuto l’ultima coda della Guerra Fredda, abbiamo visto crollare i muri, abbiamo assistito alla Perestroika prima, al golpe dell’agosto ’91 (in diretta TV) e a Eltsin poi.
Ok, noi siamo (e scriviamo) così per una serie di motivi “ottantini”.
Ma dopotutto WM1 dice che il NIE nasce dalle ceneri dei novanta, prende fuoco (e forma) con l’incendio dell’11 settembre.
Siamo così sicuri che gli autori e le opere che cita siano davvero immuni all’apocalisse?
mad_max_2.jpgSe dico NIE, vedo Mad Max, Terminator, Akira, Blade Runner.
Conan il Barbaro.
L’analogia non è tematica: nessuno dipinge scenari post-atomici o reami fantasy (Valerio Evangelisti è il papà di Eymerich, per carità. Ma il ciclo dell’Inquisitore, paradossalmente, è la meno epica delle produzioni del Magister).
Formale, piuttosto: pensate alle picche dei lanzichenecchi in Q. Pensate a Munster assediata, alla Milano in lotta de La banda Bellini o a quella sventrata dagli attacchi terroristici di Grande madre rossa. Pensate al Vecchio di Romanzo Criminale di fronte al crollo del Muro, al Medioriente di Lawrence in Stella del mattino, all’America di Manituana, all’ucronico impero italico di Brizzi (L’inattesa piega degli eventi) alla vigilia della morte del Duce.
Mondi alla fine del mondo.
Apocalisse.
Non quella urlata del mio United We Stand o dell’Armageddon di Alan D. Altieri. E nemmeno quella suggerita dallo United We Stand degli 01.org, che fa testo fino a un certo punto (perché è solo suggestione narrativa, non narrazione vera e propria).
Ad ogni modo, apocalisse: la scelta epica è una scelta che ha a che fare con la fine di un mondo (o di più mondi possibili).
È una scelta definitiva: indietro non si torna.
Il NIE non ha commesso l’errore dei Novanta: ha opposto al disincanto, all’ironia da quattro soldi, all’alibi, all’approccio snob e minimalista del postmodernismo cacasotto un bel paio di palle.
Ha guardato l’apocalisse dritta negli occhi. Ha deciso di descriverla in modo “giusto e serio” utilizzando tutto ciò che aveva a disposizione.
Ha insegnato al polveroso mondo delle italiche lettere che c’è ancora spazio per le grandi storie, che in giro ci sono ancora spalle, cervello, rabbia e polmoni per raccontarle.
La deriva è in agguato, occorre guardare lontano e, quando sarà tempo e luogo, fare seppuku e cambiare rotta.
Ma per il momento, la direzione punta dritta nella tempesta.
Ed è esattamente là che bisogna andare.

2. LA DISCESA AGLI INFERI

revelation_st_john_patmos.jpgLa fine nel ferro e nel fuoco. Ma non solo.
Il termine apocalisse, di per sé, ha più a che vedere con la rivelazione che con la fine.
Wikipedia docet:

In epoche recenti il termine “letteratura apocalittica”, o “apocalittico”, è stato usato comunemente per descrivere le varie parti delle scritture ebraiche o cristiane, sia canoniche che apocrife, in cui si forniscono predizioni escatologiche in forma di rivelazione. Che il termine sia attualmente usato in maniera blanda, e comprenda spesso cose non propriamente apocalittiche, è dovuto al fatto che lo studio di questa letteratura come classe a sé stante è piuttosto recente.
Nell’uso comune delle lingue occidentali, il termine apocalisse si riferisce alla fine del mondo. Il significato corrente può essere un’ellisse della frase apokalupsis eschaton (escatologia apocalittica), che significa “rivelazione della conoscenza alla fine dei tempi”. Tale ellisse nell’uso corrente riecheggia quella nel titolo dell’ultimo libro della Bibbia, il Libro della Rivelazione o Apocalisse di San Giovanni apostolo, che è normalmente interpretato come la profezia della fine del mondo, con numerosi dettagli visuali.

Conoscenza, prima ancora che fine.
Sembra essere questo il cuore dell’apocalisse.
La connotazione profetica è dominante: raccontare il disastro, raccontare la fine che verrà.
O che è già avvenuta, ma che è monito per ciò che potrebbe ancora essere.
La Milano di Grande Madre Rossa è una città inesistente. Eppure è l’incarnazione tangibile delle fine possibile, quasi imminente. Giuseppe Genna racconta, usando la metropoli come sfondo per l’ultima indagine di Guido Lopez, la possibile rifrazione dell’11 settembre sul nostro paese.
Grande Madre Rossa è del 2004. Uscì in libreria a soli tre anni dall’attacco alle Torri. In realtà il lasso temporale che intercorre tra lo sfascio di Ground Zero e la stesura del romanzo è molto più breve.
Verosimilmente Genna lo scrisse in piena onda d’urto mediatica.
Parlare di una Milano militarizzata e presidiata, messa in ginocchio dall’esplosione del Palazzo di Giustizia in seguito a un attacco terroristico, ancora imbiancata dai residui marmorei dell’edificio in frantumi, significa proiettare l’apocalisse formato TV (l’immagine delle Twin Towers dilaniate, in ossessiva ripetizione sul teleschermo, è il biglietto da visita del nuovo secolo) sull’immaginario collettivo.
Il culmine dell’abisso, la reale discesa agli inferi, la concreta rappresentazione del mondo alla fine del mondo non è, a mio modesto parere, l’apertura del romanzo citata da WM1 a proposito del punto di vista obliquo o sommerso del narrato (la scena dello sguardo obliquo, del narratore impalpabile, che s’insinua fino al nascondiglio dell’ordigno, nei sotterranei del Palazzo, e con l’ordigno esplode), ma quella dei funerali di Stato delle vittime dell’attentato:

grandemadrerossa.jpgIl premier. I ministri. Gli ospiti stranieri: pochi. Hanno fiutato il rischio.
Hanno inviato i messaggi di partecipazione e cordoglio.
Hanno paura della strage: non quella che si celebra, ma quella che sta per celebrarsi.
Hanno avuto allucinazioni: sangue dappertutto, sul sagrato, nella piazza, corpi cancellati dall’esplosione immane.
Un aereo abbattutosi sul Duomo di Milano. Il Palazzo Reale che esplode.
Gli ospiti stranieri che hanno disertato, inviando telegrammi di cordoglio.
C’è cordite nell’aria, ancora si percepisce l’aroma dell’esplosione.
C’è tensione.
I milanesi hanno paura.
È chiaro che i terroristi colpiranno oggi, qui: forse.
[…] Al termine della messa, gli omaggi della società civile. Sale sul palco, prescelto per rappresentare la città, dopo i brevi omaggi del presidente e del premier, il calciatore Paolo Maldini e legge alcuni versi da Gibran.
Inizia l’esodo dalla chiesa delle bare.
Le portano fuori gli addetti. Le sollevano, sulle spalle le trasportano.
[…] La folla applaude. È un applauso triste, metodico, continuo.
Escono e sfilano le milleottantasette bare.
Verso l’Arengario, i camion e le autopompe dei vigili del fuoco. Molti sono allineati in piedi sui tetti delle autoclavi. Di colpo si accendono a morto le sirene: è un lamento potente, evocativo.
Non è ancora accaduto niente.
Elicotteri incrociano sulla città.
Non è ancora accaduto niente.
[…] Allora era un bluff. Era tutto falso. Era soltanto una bomba psichica, l’esplosione televisiva dell’insicurezza generalizzata.
[…]Non è detto che Grande Madre Rossa non esista.
Potrebbero colpire comunque.
Infatti colpiscono.

Questo brano è l’immagine esatta dell’apocalisse formato NIE.
Profetismo e distruzione, ucronia, fine del mondo (o almeno di uno dei tanti mondi possibili).
Imparare dalla Storia a raccontare miti di fine millennio.
Questo è NIE.
Al 100%.
Cambio di scena.
inattesa.jpgAltro libro, altra storia, ma ancora un funerale di mezzo e l’apocalisse sullo sfondo.
L’inattesa piega degli eventi, l’opera più recente di Enrico Brizzi — che risponde alla domanda “Che ne sarebbe stato del Bel Paese se il Duce non avesse perso la guerra?” — apre con l’epica sequenza dei funerali di Mussolini. A Roma, nell’Italia ucronica e orgogliosamente littoria del maggio 1960.

L’uomo che aveva restituito all’Italia prestigio e prosperità chiuse gli occhi nel proprio letto all’alba del 5 maggio 1960.
[…] Furono proclamati cinque giorni di lutto nazionale, nel corso dei quali il Tricolore venne abbrunato dalle Dolomiti alle oasi del Fezzan, dalle isole dell’Egeo alle rive del Nilo Azzurro, e ovunque il genio italico avesse portato il suo messaggio di pace, giustizia e civiltà.
I funerali di Benito Mussolini furono il degno commiato di un uomo che, in trentott’anni di dittatura personale, aveva sfruttato appieno il gusto per il teatro dei suoi compatrioti: la bara, trainata su un affusto di cannone della Nostra guerra da sedici pariglie di cavalli, traversò tutta Roma accompagnata da contingenti militari e camicie nere della Milizia.

L’apocalisse, il mondo finito, nel romanzo di Brizzi sta all’inizio.
In realtà si tratta di un falso prologo: i fatti narrati nel romanzo si svolgono in gran parte tra la primavera del Sessanta e il fatidico giorno dei funerali. Dunque i protagonisti, mentre agiscono, non sanno quando Mussolini se ne andrà.
Sanno di sicuro che succederà, e che non ci metterà troppo a succedere, dal momento che il dittatore versa in pessime condizioni di salute.
Ancora una volta tornano, in questa opera di densità mercuriale, alcune caratteristiche spiccatamente NIE: la morte del Vecchio di turno, l’ucronia potenziale e, di nuovo, il mondo alla fine del mondo.
La narrazione di Brizzi saltella sulla lama di un rasoio, racconta la sottile linea nera che divide due epoche.
Prima e dopo di Lui, due Italie: il lutto che lista i tricolori dalle Dolomiti al Nilo è il turning point. L’apocalisse è dolce (nessuno dei protagonisti rimane ferito) ma inesorabile (dopo la morte del Duce, le loro vite cambieranno per sempre).
L’apocalisse è misura del tempo nuovo, è masticazione del passato, espulsione delle scorie, quasi mai preparazione per un futuro migliore.
Un futuro diverso, questo è sicuro.
Di cui però non si dice nulla.
Il libro apre e chiude in apocalisse.
Del “dopo” non v’è traccia.
Ma su questo ritorneremo più avanti.
Ora mi interessa terminare la parabola discendente. E per farlo, ancora una volta, ho bisogno di un funerale.
romanzocriminale.jpgIl funerale del Dandi è la scena più “antica” di Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo.
Fu la primissa a essere scritta. Correva l’anno 1996, la scena faceva racconto a sé e venne pubblicata su Lo Straniero, la rivista diretta da Goffredo Fofi.
Curioso come una fine, invece di concludere, abbia costituito il nucleo primigenio di una delle migliori storie degli ultimi anni.
L’apocalisse, in De Cataldo, non è la morte del Vecchio.
L’assenza del Vecchio, esperita all’inizio di Nelle mani giuste, non è apocalittica. Perché non è previsionale, né distruttiva, né foriera di futuro.
L’assenza del Vecchio, al contrario, è l’humus che permette a Scialoja di diventare adulto. Di essere, egli stesso, altro dal Vecchio.
Quando anche Patrizia scompare dalla sua vita, Scialoja perde ogni legame col mondo da cui è stato generato (politicamente e operativamente). Il Vecchio è solo un lontano ricordo.
In più — particolare non trascurabile — la sua dipartita non è narrata da nessuna parte. Alla fine di Romanzo Criminale si dice solo che dieci mesi prima il terzo infarto aveva stroncato il Vecchio. In Nelle mani giuste si parla di un ictus: nella bocca smagrita e contratta dall’ictus del Vecchio si era rivelato un rantolo quasi penoso.
Nient’altro.
Si accenna alla sua assenza, si parla delle conseguenze. Ma il Vecchio, semplicemente, non c’è più.
Non è lui l’epicentro dell’apocalisse, il buco nero, il fulcro entropico.
Il Vecchio, meramente, smette di esistere.
L’apocalisse è altrove. È molto prima.
Al funerale del Dandi, appunto.

Oddioddio! Me l’hanno ammazzato! È stato il Freddo, quel bastardo! — gridava il Secco al funerale solenne, strappandosi i capelli.
[…] Da un appartamento al secondo piano della vecchia piazza, con un binocolo di precisione, Scialoja seguiva la commedia umana del dolore mentre i suoi uomini seguivano, annotavano, filmavano. Aveva dato disposizione che si tenessero lontani dal palcoscenico. La lunga caccia era finita. Dandi era stato un capo. Un uomo che, a suo modo, aveva un progetto. Meritava un certo rispetto. Avrebbe inchiodato i suoi assassini. Sarebbe stata l’ironica, tradiva mano della vendetta. Il Vecchio avrebbe apprezzato.
[…] In fondo, lui e il Secco erano della stessa pasta. Non credevano a niente. Detestavano i sogni. Quell’unico sogno che aveva fregato prima il Libanese, poi il Freddo e finalmente il Dandi. Il sogno di costruire qualcosa che fosse destinato a durare. Ma non si costruisce sul nulla. La partita non la vincono gli eroi giovani e belli. La partita la vince chi resta sul campo quando gli altri ne hanno avuto abbastanza. E di solito a resistere un secondo più a lungo sono gli stortignaccoli, le vesciche di grasso, i ragionieri, i meschini che non gli daresti una lira.
È tutto scritto nella vita.

Questa è la fine della strada, la morale della favola.
Tutto è perduto, perché niente è mai stato davvero.
Nonostante l’epica, nonostante l’avventura e le peripezie, la fine del mondo è sempre al posto suo: alla fine del libro.
Ci avviciniamo lentamente alla vera questione irrisolta che sta al centro dell’apocalisse formato NIE: il futuro.
In quasi tutti i romanzi citati da WM1 l’apocalisse annichilisce. La fine del mondo è fine davvero.
Il turbamento dell’equilibrio dato dallo scossone finale porta con sé cambiamenti irreversibili, sfregia l’universo in cui si è svolta la storia, lo sfigura in maniera irreversibile.
Non tutti, come è nella natura delle cose, sopravvivono all’apocalisse.
Alcuni protagonisti muoiono. Altri rimangono menomati (psicologicamente più che fisicamente) dall’armageddon.
Qualcosa rimane. Un’energia residuale, un’immagine sfocata del nucleo iniziale.
A quel nucleo spetta andare avanti.
E qui si pone la feral domanda: e dopo?
Per rispondere, ammesso che rispondere si possa, tocca parla di futuro.

3. LA RINASCITA

valter.jpgGiovedì 25 settembre 2008, all’Informagiovani di via Dogana 2, a Milano, Wu Ming 1 presenta pubblicamente il memorandum sul New Italian Epic.
Straordinario successo di pubblico, sala gremita in ogni ordine di capienza e il sottoscritto relegato in loggione, con la visuale parzialmente velata dalla ringhiera. Così velata da non poter scorgere l’interlocutore misterioso [Valter Binaghi, nella foto] che, alla fine della presentazione, fa una domanda che coglie il punto come poche altre.
In sintesi: quale futuro dopo l’apocalisse?
Più nel dettaglio: molti dei libri citati nel memorandum (quasi tutti, a dire il vero) raccontano la fine. La fine di un’epoca, d’un mondo, nel più ristretto dei casi dell’universo dei protagonisti. Fine quasi mai assoluta ma, come detto, annichilente.
Data per scontata la fine:
– Coloro che rimangono, sono semplici sopravvissuti o padri pellegrini?
– Dopo aver raccontato l’annichilimento in tutte le salse, questa nuova generazione di scrittori sarà in grado (e, soprattutto, avrà voglia e necessità) di produrre una mitologia fondativa? A quando un’Eneide, dopo tante splendide Iliadi?
Mi rammarico di non essermi portato, in quell’occasione, un registratore appresso, perché sarebbe stato interessante inventariare la torma di reazioni. Quella sera erano presenti parecchi scrittori e parecchi dissero la propria.
La risposta a mio avviso più interessante, tuttavia, la diede l’autore.
Non ricordo le parole precise di WM1, ho mandato a memoria giusto il succo del discorso.
Cerco di riproporlo scusandomi in anticipo se qualcosa di nodale è andato perso nei meandri della (poca) memoria del sottoscritto.
Molti dei sopravvissuti NIE sono più di semplici last men standing.
Molly Brant, in Manituana, traghetta quel che resta del suo mondo (e della sua gente) nell’epoca nuova. Padre e figlio Capponi, in 54, per cambiare aria finiscono a Cuba, un attimo prima della Rivoluzione.
Lo stesso Lorenzo Pellegrini di Brizzi, in qualche modo, è testimone dell’apocalisse e del cambiamento segnato dalla morte del Duce: ha visto la rivoluzione possibile e ora si trova davanti alla trasformazione. Il mondo nuovo è anche una nuova politica, dove scompare il partito unico e sbocciano i prodromi della DC, del partito liberale, di quello socialdemocratico.
Dopo l’apocalisse, finalmente, è possibile scegliere.
Il futuro è tutto là, davanti agli occhi.
Tutto vero, sacrosanto: in molti romanzi NIE ci sono i germi dell’epoca nuova, del post apocalittico.
Ma nessuno, per il momento, si è preso la briga di raccontare la storia che verrà.
Nessuno, fin qui, ha parlato del mondo nuovo.
Non esiste a tutt’oggi — in ambito NIE — una mitologia fondativa.
Nessuno di noi, attualmente, ha ancora scritto la propria Eneide.
A dirla giusta, quello che manca davvero è una Teogonia alla maniera di Esiodo.
Mi rendo conto di utilizzare paragoni altisonanti e probabilmente inadatti. Nessuno degli autori NIE, per quanto mi è dato sapere, ha mai avuto la pretesa di riscrivere la storia dell’universo, né tanto meno di narrare di nuovi (o vecchi) dei, ma cercate di seguirmi, pur con la povertà di chiarezza che le mie similitudini fuori luogo si portano appresso.
Il meccanismo mitopietico è alla base del NIE.
Generare il mito, ovvero raccontare storie (e creare mondi, attraverso quel racconto) è pratica cara a tutti.
Fin qui abbiamo narrato la fine.
Quasi sempre una fine che presuppone un inizio.
Della storia che viene dopo quell’inizio, del futuro, per ora, non si è ancora occupato nessuno.
ultimaspiaggia.jpgSe penso alla miglior rappresentazione dell’apocalisse che mi sia mai capitata di scorgere, stranamente non penso a un libro, ma a un film.
Il film si intitola On the beach, è del regista australiano Russell Mulcahy (lo stesso di Highlander) e ha come protagonista Armand Assante.
È l’adattamento cinematografico di un romanzo di Nevil Shute. Il romanzo (a dirla tutta non proprio un gran romanzo) è del 1957 e incarna le tipiche paure da Guerra Fredda.
La storia, in breve: l’equipaggio di un sottomarino americano sopravvive alla guerra nucleare planetaria. L’unico continente scampato alla catastrofe è l’Australia ma non resisterà a lungo perché il vento radioattivo sta per raggiungerla. Nel frattempo la crew del sottomarino raccoglie delle strane trasmissioni radio che sembrano suggerire la presenza di sopravvissuti in altri continenti. Nel tentativo di trovare una terra ove ci sia ancora possibilità di sopravvivenza, il comandante Towers e lo scienziato Julian Osborne partono in missione per misurare i livelli di radiazioni al nord del Pacifico. Intanto gli abitanti dell’Australia si preparano all’arrivo del vento radioattivo. Giunti sul luogo dell’origine delle trasmissioni radio, i militari americani scoprono che sono generate dagli urti casuali di una bottiglia mossa dal vento contro il tasto di un telegrafo. L’Australia, raggiunta dalle radiazioni, diviene un deserto senza vita.
I militari soccombono con il resto dell’umanità.
Del libro di Shute apparve un primo adattamento cinematografico nel ’59. Cast d’eccezione (Gregory Peck e Ava Gardner) ma pessima riuscita.
Di solito capita l’inverso: il remake è sempre peggio dell’originale.
In questo caso il film del 2000 surclassa di gran lunga quella di fine anni Cinquanta.
Quello che veramente strazia e convince, nella pellicola più recente, è la rappresentazione degli ultimi momenti di vita della razza umana.
In Australia la morte da radiazioni è inevitabile e il governo ha deciso di aiutare i cittadini nell’unico modo che gli rimane: distribuendo del cianuro.
L’armageddon è alle porte: nessuna via di scampo.
O si crepa per le radiazioni in mezzo a crudi spasmi, o si ingoia una pillola e si chiudono gli occhi per sempre.
Il finale mozza il fiato: non è la scena dell’equipaggio del sottomarino che si toglie la vita all’unisono al largo del Pacifico a lasciare di stucco, e nemmeno la romantica scelta del Comandante di farla finita con la donna che ama.
È la terribile e dolcissima crudeltà della morte della famiglia di un ufficiale (madre, padre, figlia piccola): lui che rassetta il portico, che chiude le imposte, che stacca la corrente. I due che vanno a letto con un bicchiere di rosso, una siringa per la piccola e due pastiglie.
Quell’addio amorevole, fatto di lacrime salate e nessun rimpianto, è il vero pugno nello stomaco.
L’apocalisse è tutta lì.
Angoscia compressa, nessun futuro.
Fine della speranza.
Non ho mai letto né visto nient’altro che mi abbia fatto tanto male e che abbia raccontato così bene la fine.
La fine di tutto.
Il film chiude con la scomparsa definitiva della razza umana: l’armageddon svuota il pianeta.
Dopo, solo il nulla.
La camera che sguscia fuori dalla stanza matrimoniale, quasi in punta di piedi, è l’unica traccia del dopo.
Nessuno narra il mondo senza la razza umana.
Nessuno ha mai raccontato il mondo senza di noi.
header_weisman.jpgAlmeno fino all’omonimo saggio di Alan Weisman, quello citato da Wu Ming 1 in chiusura di saggio.
E qui vediamo di chiudere il cerchio, tornando esattamente al punto di partenza: alla fine del memorandum.
Weisman ipotizza quello che succederà al pianeta una volta che ci saremo estinti.
È significativo che WM1 lo citi proprio in coda al suo lavoro. Perché quello di Weisman è un tentativo concreto di mitologia fondativa.
Il suo libro è un passo oltre l’apocalisse.
Quel passo del quale chiedeva conto l’interlocutore misterioso [Valter Binaghi] il 25 settembre.
Il passo che nessuno degli autori NIE ha ancora fatto ma che è necessario fare per permettere al meccanismo mitopoietico di evolvere.
Nessuno ha avuto per il momento l’esigenza di raccontare il mondo che segue alla fine del mondo.
Io credo che le ragioni di questa precisa scelta siano in parte legate all’essenza stessa di molte opere NIE. Tralasciando le ucronie più ardite (come quella di Brizzi), se ci si fa caso, ogni romanzo iscritto nell’orizzonte della nuova epica italiana affonda le proprie radici nella Storia.
Non sto dicendo che la totalità del panorama NIE sia costituito da romanzi storici (non è così), dico solo che quasi nessuno dei romanzi citati prescinde dalla Storia e soprattutto dalla documentazione storica.
Il passato, più o meno recente, più o meno documentato, essuda dalle opere indicate da WM1 nel memorandum.
L’ancoraggio al passato a volte è labile (penso alla Strategia dell’ariete, che della Storia — del mondo — si fa beffa, presupponendo retroscena globali di pura invenzione), a volte è fortissimo, imprescindibile (penso a Q, ove il falso storico non è nemmeno contemplato), altre volte è blando (nella costruzione della mia “trilogia sporca” il rigore storiografico si perde di volume in volume, per lasciare la narrazione al suo naturale sviluppo: Confine di Stato non è granchè rigoroso con le fonti, Settanta lo sarà ancora meno).
In ogni caso c’è.
Il NIE, almeno fin qui, ha masticato la Storia. L’ha studiata, l’ha digerita, ne ha raccontato gli angoli bui e non documentati. Ma non se ne è mai tenuto alla larga.
Il NIE, fin qui, ha avuto parecchio a che fare col passato.
Apocalisse e passato sono legati a doppio filo.
Con il postmoderno finalmente dietro le spalle, recuperata la serietà dell’aedo, abbiamo ripreso, vivaddio, a narrare miti. Volenti o nolenti, nel fuoco intorno al quale si raccontano storie, bruciano pezzi di passato.
È nella natura stessa della mitologia.
Il passo ulteriore è stata la mitopoiesi.
Ora, se vogliamo veramente andare avanti, occorre una cosmogonia fondativa.
Occorre il futuro.
Occorrono nuove narrazioni che ci sopravvivano, racconti per i nostri figli, per i nostri nipoti.
Occorre che le ceneri dell’11 settembre smettano di fumare. Occorre passare oltre.

Occorre partire dall’apocalisse e lasciarsela alle spalle.
Senza più l’appoggio del documento, della fonte, del passato.
Occorre camminare con le nostre gambe, occorre creare mondi. Che non assomiglino più a quelli in cui siamo cresciuti.
Occorre narrare, occorre camminare lungo il filo sottile della fabula.
Ma questa volta senza rete, senza più il bilanciere delle Storia a tenerci in equilibrio.
È tempo di coraggio ed acrobazie.
È così che nascono nuovi mondi.

[Novara, 12 novembre 2008, una piovosa mattina d’autunno]

* Simone Sarasso è autore del romanzo Confine di Stato (Effequ 2006; Marsilio 2007; recensito da Carmilla qui.) e co-autore della graphic novel a puntate United We Stand. Qui il suo sito e blog ufficiale.

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LINK, ANNUNCI, NOTIZIE SUL DIBATTITO NIE

Nel podcast di wumingfoundation.com è iniziata la diffusione degli interventi al convegno “New Italian Epic: gli stati generali della narrazione”, festival Scrittorincittà, Cuneo, 16 novembre 2008. Nel giro di qualche giorno saranno disponibili tutti gli mp3 (sette). Mentre scriviamo sono già disponibili l’intervento di apertura di Wu Ming 1 (“Il Reggimento Carignano e la Bestia irochese”) e l’intervento di Carlo Lucarelli (“Dal giallo all’epico”).
Riportiamo qui i link. Per lo streaming, cliccare e basta. Per salvare i file, cliccare col destro (PC) oppure ctrl + click (Mac).
L’intervento di WM1 (18 minuti, mp3 169k), anche in versione “light” (mp3 96k).
L’intervento di Lucarelli (12 minuti, mp3 160k), anche in versione “light” (mp3 96k).
A seguire, per chi è iscritto al podcast, gli interventi di Letizia Muratori, Antonio Scurati, Wu Ming 2, Mauro Gervasini e Giuseppe Genna.

Sul blog del sopra menzionato Valter Binaghi, una discussione sul “realismo” (questo grande equivoco in cui si è impantanata di recente la critica letteraria italiana, accademica e/o “militante”).
Consigliamo anche la lettura del paragrafo “La questione del realismo” in New Italian Epic 2.0, pag.04.


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