di Giada Romeo

UltimoBrigatista.jpgUn titolo si aggiunge nella lunga lista di testi dedicati alla lotta armata: per il trentennale del caso Moro Rizzoli ha pubblicato L’ultimo brigatista, di Aldo Grandi.
Il suo ‘incipit’, capitolo intitolato proprio così e che precede la ‘Premessa’, è costituito da una delle più famose lettere di Moro, quella in cui dando l’addio alla moglie addossa esplicitamente alla Democrazia Cristiana la responsabilità della sua prossima morte.
Ci si attende dunque un testo conseguente, una ricerca, un’analisi, un discorso o delle informazioni sul dibattito, povero quando non inesistente, sul ‘fronte della fermezza’ costruito dall’apparato del PCI che impose il rifiuto di ogni trattativa grazie al lassismo interessato degli amici democristiani di Moro e al volere dell’alleato americano. Insomma sul tabù politico italiano, ché qui solo Cossiga ne parla quando gli serve, mentre neppure l’alleato americano vede ragione di tacere (vedi intervista a Steve Pieczenik). Invano si cercherà nel testo di Grandi una qualsiasi forma di seguito; la lettera del morituro è li come ornamento, un San Cristoforo sul parabrezza.

E a ben vedere, il quadruplo sottotitolo che riempie la copertina è esplicito : “Dove sono oggi gli uomini che colpirono Aldo Moro? Voci e testimonianze inedite. I nomi e le storie degli impuniti. La ricostruzione di un mistero tutto italiano.”
È una formulazione al presente, da instant-book, cui coerentemente segue una composizione sufficiente a riempire 220 pagine. Siccome l’istante è passato da tre decenni, vediamo allora di che vi si parla.
Parla di sé, Aldo Grandi. Il libro è presentato come “l’autobiografia politica ed umana” di Raffaele Fiore, ultimo “del nucleo delle Brigate rosse che sparò e uccise la scorta di Aldo Moro” il 16 marzo 1978 a parlare in pubblico (o a parlare con Aldo Grandi?), da cui il titolo del libro. Ma prima di farci sentire l’inedita storia dalla voce del brigatista, l’Autore ci offre un bonus di 27 pagine, schizzandovi con modestia la propria autobiografia. Ha per questo dei buoni motivi e ce li spiega: ha sposato la figlia del fratello dell’autista di Aldo Moro e, soprattutto, si vergogna ancora oggi di aver esultato alla notizia del sequestro.
In vena di confessioni, Aldo scrive: “Nitida in me è la percezione del ricordo di quanto mi riuscisse difficile comprendere i motivi che le Brigate rosse avevano addotto per spiegare e giustificare l’agguato in via Fani.” (pag. 17) Altrettanto nitida sarà nel paziente lettore la percezione che Aldo Grandi non abbia ancora superato quelle difficoltà.
Però è divenuto un conoscitore, uno che riesce a stabilire contatti coi terroristi e che li convince grazie ad un dono personale; così, ci porta nel fuoco dell’azione : “Lo chiamai al cellulare. Mi rispose. Fui diretto, senza usare perifrasi. Diretto al cuore, o al cervello, o a entrambi.” per poi ricordarci la propria bravura nel dosare l’insistenza: “Gli diedi tempo, consapevole della differenza, profonda, che c’è tra colui che vuol sapere e colui che, proprio perché sa, pagherebbe oro, forse, per non averlo mai saputo.”
Perché egli sta ricostruendo la Verità Storica, facendo piazza pulita di tutte quelle categorie professionali che non sopporta: “Studiosi ed esperti, politologi e sociologi, tuttologi e politicanti, politici consulenti e consulenti politicizzati, finanche registi dell’ultim’ora, hanno fatto a gara per dimostrare che le Brigate rosse non erano quello che sembravano e dicevano di voler essere.”

Dopo tante e tali premesse siamo infine introdotti a quello che dovrebbe essere il corpo centrale dell’opera, il racconto di Raffaele Fiore.
È la vita di un operaio metalmeccanico che conosce il mondo dalle lotte di fabbrica ed entra per questo direttamente nelle brigate rosse. Vi milita un paio d’anni e finisce di conoscere il mondo in carcere per il ventennio successivo. Oggi, dopo 27 o più anni, può uscire dal carcere ed ha l’ultima sventura di parlare con Aldo Grandi.
C’è poco di ideologico nella sua narrazione e molto di storia politica e sociale contemporanea. Una straordinaria occasione di contribuire alla conoscenza del movimento operaio e delle classi subalterne, la cui storia non è mai stata quella di un’opera pia, che Aldo Grandi preferisce barattare con una fedina penale.
Il racconto di Fiore è sistematicamente intercalato da quello di Grandi, da cui si distingue solo per le virgolette. Stile e linguaggio rimangono gli stessi, salvo che Grandi usa espressioni ed attributi – come assassino e terrorista – che di certo non sono proprie all’ex-brigatista. Si può dire che un ex-brigatista che parli di sé in quei termini abbia assunto il punto di vista dello Stato-vincitore, o se si vuole dell’opinione dominante; ma non è il caso di Fiore. Qui è il testo di Grandi che impone, inquadrando quello di Fiore, la prospettiva di lettura. Se si aggiunge che al racconto sono accostate le opinioni dei parenti delle vittime e quelle di figure come Patrizio Peci – il ‘pentito’ più famoso – si conclude senz’altro che non si tratta affatto della preannunciata ‘autobiografia politica ed umana’.
I passaggi inseriti da Grandi dovrebbero spiegare al lettore il ‘contesto’ storico e politico della vita di Fiore ed esplicitarne così anche le ragioni politiche delle scelte. Per fare questo egli ricorre ad argomenti come il distacco tra paese legale e paese reale e la corruzione della classe politica dominante, categorie non solo non evocate da Fiore, ma neppure da alcun documento di tutta la decennale produzione brigatista.
Peggio ancora, l’unico testo marxista citato in tutto il libro è Operai e capitale di Mario Tronti, un’opera fondamentale per la corrente ‘operaista’ del movimento, ma mai entrata nel pantheon teorico della corrente ‘marxista-leninista’ e in particolare delle Brigate rosse (e, ancora una volta, mai evocata da Fiore). L’apparente pressappochismo mira in realtà a ribadire la balorda teoria delle BR nate o tenute a battesimo da Potere Operaio; una lettura già criticata a proposito del suo libro su Potere Operaio, La generazione degli anni perduti dove “Aldo Grandi – dietro la mistificazione dell’oggettiva ricostruzione storica, che serve a legittimare come univoca la lettura data dall’autore – traccia un deterministico filo di continuità che va dal Tronti di Operai e capitale, passa per Potere operaio e arriva alle Brigate rosse e alla lotta armata clandestina” (vedi qui).

La colonna infame, o del metodo Aldo Grandi

La pretesa di fornire la verità storica, appoggiandola sull’uso di categorie come i ‘giovani’ e le ‘generazioni’, è una costante della produzione grandiana, che non si vuole qui richiamare per un’analisi dettagliata, ma appena per notare come il ricorso all’intervista ed alla biografia non sia affatto nuovo per l’autore. Eppure, anche letto sotto il profilo della biografia quale genere storiografico riconosciuto, L’ultimo brigatista appare come un testo che tutto fa salvo che della ricerca storica, politica o sociale, confermando le osservazioni di Arnaldo Momigliano: “la biografia si trova ad avere un ruolo ambiguo nella ricerca storica: può essere uno strumento della ricerca sociale oppure può essere un modo di sfuggire ad essa” (Lo sviluppo della biografia greca, 1971).

Biografie e racconti autobiografici di ex-brigatisti sono ormai oggetti di studio e di ricerca, e anche il più semplice lavoro si pone la questione della loro validità come fonti storiche. In questo senso l’interazione tra intervistato ed intervistatore e la sua trasparenza legata alla visibilità o meno delle domande poste sono sempre indicate come fondamentali, poiché influiscono sui contenuti dell’intervista. Contenuto essenziale è la prospettiva di lettura presentata dal testo: “Solamente la ricostruzione di un momento storico che presentava, nell’opinione degli autori, potenzialità rivoluzionarie può restituire alla scelta della lotta armata un significato che vada al di là della lettura di questa esperienza come puro fenomeno criminale, leggibile pertanto con i soli strumenti della morale” (Corso di storia contemporanea, Università di Roma).
Il suo metodo, Grandi lo rivendica audacemente in un capitolo intitolato “la colonna infame”: “Qualcuno potrebbe anche obiettare che si tratta di un testo più assimilabile alle esigenze di un verbale di polizia, di un interrogatorio, piuttosto che di un racconto autobiografico, ma chi scrive non vede, in questa distinzione, una grande differenza.” (p.73) Il disarmato lettore potrà solo opinare che, pur ammettendo che alla polizia capiti talvolta di abusare del proprio potere, almeno nei suoi verbali d’interrogatorio figura la menzione ADR, ‘a domanda risponde’. Insomma, se si usa il metodo dell’inchiesta poliziesca piuttosto che quella biografica, storica o politica, una minima coerenza di forma dovrebbe andare da sé.
Ma Grandi, impermeabile alla contraddizione, persiste e segna: “Un interrogatorio, si sa, non piace mai all’imputato e, comunque, lo pone sempre in una situazione di soggezione, di diffidenza verso l’interlocutore. Ma se tra i due si crea un rapporto di fiducia, la narrazione ne esce indubbiamente arricchita sotto molti punti di vista, se non altro per il suo equilibrio. Al monologo si sostituisce, il dialogo e nulla è tolto alla verità storica ed al valore della testimonianza.” (sic p.73)
Grazie a questa lapidaria certezza metodologica, Fiore ritorna dopo un quarto di secolo ad essere “imputato”, ma dell’inquirente ‘buono’ (quello ‘cattivo’ di solito urla e sbatte l’elenco telefonico sulla scrivania). E come ricco “dialogo” ci vengono contrabbandate le sue parole sistematicamente introdotte da un ‘racconta’, ‘ricorda’, ‘continua’, ‘incalza’, ‘sottolinea’, ‘spiega’ o ‘sostiene Fiore’ e plasmate nella prospettiva dell’inquirente.

Se un qualsiasi metodo di ricerca è importante per garantire che i risultati siano privi di manipolazione volontaria o involontaria, dove nasce il procedimento di Grandi?
Esponendo in terza persona il proprio curriculum sul suo sito, ce lo racconta egli stesso; per fare una ricerca “Si inventò così un gruppo di studenti coadiuvato da alcuni professori. I primi non esistevano, i secondi avevano appena avuto notizia dell’iniziativa, ma niente di più.” Insomma, raccontar balle pur di fare ciò che si vuole.
Un’etica truffaldina ma pagante, che permette a Grandi di sentirsi autorizzato a mettere le mani su testimonianze e archivi personali con la massima nonchalance. O a ignorare la volontà di chi gli parla: nel libro sia la ‘vittima’ (il figlio del giornalista Casalegno) che il ‘carnefice’ (Fiore, membro del nucleo BR che gli sparò) dicono esplicitamente di non voler essere messi a confronto con l’altra parte. Ci mancherebbe altro: Grandi lo fa lo stesso, montando insieme le loro dichiarazioni. Perché in fondo condivide la convinzione di Andrea Casalegno, per il quale non si può essere ex-assassini.

I ‘veri misteri’ secondo Aldo Grandi

La parte finale del libro ha pochi agganci con l’intervista a Fiore; funge piuttosto da riempitivo e lascia l’impressione di essere stata pensata in origine come corpo centrale, poi abortito e declassato visto che i tre personaggi a cui è dedicata hanno rifiutato di farsi intervistare da Grandi.
Il registro su cui questa parte è organizzata è completamente diverso da quello precedente, è quello del ‘giornalismo investigativo’ e proprio per questo merita alcune osservazioni puntuali sui casi di Rita Algranati, Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono, indicati già dal titolo come gli ‘impuniti’.

La prima, Rita Algranati, sta scontando l’ergastolo in un carcere italiano. Ma è stata assolta per il sequestro Moro, ciò che basta a Grandi per qualificarla di ‘impunita’. E tutto ciò che gli interessa è portare le prove d’accusa, ossia stralci di sentenze e dichiarazioni processuali di dieci e più anni fa. Si noti che neanche un’ulteriore condanna per il sequestro Moro avrebbe potuto andare oltre la pena massima già in esecuzione: per il meccanismo, applicato dai giudici stessi, di ‘cumulo delle pene’, la Algranati sconterebbe oggi lo stesso identico ergastolo.
Rita Algranati, assieme al suo compagno Falessi, è stata oggetto nel gennaio 2004 di una complessa operazione di triangolazione tra Italia, Egitto ed Algeria, paese in cui i due erano stati accolti come rifugiati “da moltissimi anni” secondo il loro racconto. C’è senz’altro ancora da chiarire che genere d’accordo stabilì il SISDE, e con quanti e quali partner, per farseli consegnare. Stante la nota propensione al tradimento dei dirigenti algerini e la tradizione di voltafaccia nelle alleanze di quelli palestinesi e del vicino oriente in generale, è inimmaginabile che tutti gli attori coinvolti abbiano agito gratuitamente o per piccoli interessi elettorali locali. Scoprire cosa hanno ottenuto in compensazione i vari uomini dei servizi d’informazione militare algerini ed egiziani e quelli dell’FLN e dell’FPLP porterebbe del resto a svelare la vera portata delle ‘protezioni’ di cui godeva Rita Algranati. Il sipario calato sulla vicenda non sarà sollevato neppure un anno dopo, quando quasi nessuno osò ricordare che si era trattato di una extraordinary rendition analoga a quella del dibattuto caso Abu Omar (ne parlò solo Il Riformista).
Ma secondo Grandi il mistero, per Algranati come per Casimirri e Loiacono, è sempre e solo “come fu possibile che abbiano potuto circolare nel nostro Paese più o meno liberamente e svolgere apertamente un’attività lavorativa e, infine, varcare i confini, muniti di documenti veri o fasulli non importa, e darsi alla latitanza perpetua?” (p.169)

Il capitolo su Loiacono ripropone ampi stralci della sentenza di condanna per l’uccisione di Mikis Mantakas, avvenuta nel corso di scontri davanti la sede del MSI di piazza Risorgimento nel 1975. Il verdetto d’appello ribaltò l’assoluzione di primo grado in una condanna a 16 anni, con la particolarità che ne mantenne le motivazioni. Lo si legge, malgrado il linguaggio criptico dei magistrati, nei passaggi riportati: “…il giudizio di primo grado… vide la materia farsi antimateria del dubbio assolutorio, destinandosi naturalmente da sé, di esitazione in esitazione, alla incompiutezza.”
Una sentenza che da sé si trasforma nel suo contrario si chiama, come ogni cronista di giudiziaria sa, ‘sentenza suicida’. Questa è una – vergognosa – specialità italiana che ha avuto un particolare momento di gloria con il caso Sofri (come ricorda Dario Fo con il Guardian). Una corte decide un’assoluzione, e il magistrato chiamato a redigere la sentenza la motiva elencando i soli elementi d’accusa, indizi e prove a carico del neo-assolto. Sicché in sede appello (su ricorso del pubblico ministero, visto che la difesa probabilmente non può ricorrere contro l’assoluzione) il nuovo tribunale non avrà difficoltà ad annullare il verdetto, semplicemente riprendendone le motivazioni e cambiandone la conclusione.
Una sentenza suicida può essere anche congegnata al contrario — una condanna la cui motivazione scritta la destina all’annullamento, come in noti casi di mafia – ma rappresenta comunque un vero oltraggio alla giustizia stessa: la decisione è presa dall’assoluta maggioranza dei giurati popolari che compongono la corte ed è poi scritta da un giudice togato che è invece di avviso contrario; egli la motiva con i propri argomenti minoritari, che sostituisce a quelli maggioritari badando bene di non presentarli come ‘opinione dissidente’. Questa del magistato che presenta separatamente la propria opinione anche se solo ‘parzialmente dissidente’ è una pratica di trasparenza democratica adottata ad esempio dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e che si situa all’estremo opposto della pratica italiana delle sentenze suicide.
Aldo Grandi, che pure è cronista a La Nazione, preferisce a questi lacciuoli da giudiziaria gli scoop da cronaca rosa. Apprendiamo cosi dalla testimonianza resagli da Franco Piperno, ex-leader di Potere Operaio nei primi anni ’70, che Loiacono “… faceva una corte disperata a mia moglie”. Quanto ciò abbia influito sulla storia contemporanea italiana, ancora non si sa.

A Casimirri sono dedicati diversi capitoletti, tra cui spicca il racconto dell’operazione segreta e fallita del SISDE per portarlo dal Nicaragua in Italia. Qui la extraordinary rendition prevedeva un “decreto di revoca della cittadinanza nicaraguense” fatto e firmato di domenica da un viceministro degli interni, seguito da una cattura manu militari e da un trasporto aereo con tappa negli USA.
La revoca della cittadinanza, anche ammesso che un ministro di una repubblica bananiera possa decidere da solo che uno dei suoi cittadini non sia più tale, è solo una labile messinscena legale per giustificare una deportazione al di fuori di ogni legge e convenzione internazionale. Casimirri, avendo ottenuto la cittadinanza nicaraguese prima del 1992, aveva perso quella italiana, secondo la legge in vigore allora. Toglierli la cittadinanza nicaraguese non lo avrebbe reso italiano, ma apolide. Una persona senza patria e passaporto, che sia o meno sotto la protezione dell’ONU, ha gli stessi diritti di un cittadino qualsiasi; non può essere estradata o espulsa al di fuori dei procedimenti legali previsti per chiunque.
Ricorda la Commissione d’inchiesta del parlamento europeo sulle extraordinary renditions operate dalla CIA: “La lotta contro il terrorismo non potrà essere vinta sacrificando gli stessi principi che il terrorismo tenta di distruggere e, in particolare, che la tutela dei diritti fondamentali non deve mai essere compromessa; che il terrorismo va combattuto con mezzi legali e deve essere sconfitto nel rispetto del diritto internazionale e delle normative interne e con un atteggiamento responsabile da parte dei governi e dell’opinione pubblica”:
Il Nicaragua, se la missione descritta da Grandi non fosse fallita, avrebbe violato gli stessi principi e sarebbe stata passibile di condanna dalla Corte Interamericana per violazione della Convenzione Americana dei Diritti dell’Uomo (artt. 7 e 22). Proprio per questo, ancor più che nel caso di Algeria-Egitto, ci sarebbe da capire in cambio di cosa il governo nicaraguense, o i suoi esponenti coinvolti, avrebbe agito secondo i desideri del SISDE. Gratuitamente, solo per far dispetto agli avversari politici sandinisti?
Grandi ri-racconta un’altra nota missione in Nicaragua, che precedette di poco, nello stesso 1993, quella fallita. Per farlo ricorre ad una fonte che tiene segreta, la “testimonianza di uno dei partecipanti alla missione, attualmente ancora in servizio”. Si tratta di un segreto di Pulcinella, dato che i nomi dei partecipanti alla missione sono pubblicati sullo stesso sito del SISDE, che riporta il verbale, con omissis, di un’udienza della commissione parlamentare d’inchiesta: si tratta di Mario Fabbri e Carlo Parolisi. Il primo fu arrestato e processato per aver fornito false dichiarazioni al pubblico ministero in relazione all’inchiesta su Mino Pecorella e la banda della Magliana, e ‘non è più in servizio’; il secondo era addirittura un “amico d’infanzia di Casimirri”. Taciuto da Grandi è pure un altro aspetto noto e non secondario: quella missione costò un miliardo e quattrocento milioni di lire (del 1993), ufficialmente spesi per “biglietti aerei, hotel e ristoranti per una settimana di permanenza per due funzionari” (vedi qui).
Tutte queste omissioni di Grandi legittimano diversi dubbi sul piano del suo metodo di giornalismo investigativo. Le fonti sono tutt’altro che disinteressate e affidabili, ma egli ignora volontariamente gli interessi finanziari che affiorano per appiattirsi su una versione che conviene alle sue tesi.

Grandi ha accomunato sotto l’egida di “impuniti” tre personaggi, senza spiegarci altro. Ma cos’hanno davvero in comune questi tre?
– Sono stati tutti e tre dei militanti ‘irregolari’ delle BR negli anni ’70. Cioè a differenza dei ‘regolari’, non erano né clandestini né dirigenti dell’organizzazione. Il fatto che siano spesso indicati come ‘depositari di segreti’ o ‘capi terroristi’ si può solo ricondurre a un processo di demonizzazione davanti al pubblico; nel caso Battisti il ruolo di capo attribuitogli gratuitamente dai media è pienamente servito in questo senso.
– Sono usciti dalle Brigate Rosse senza entrare in un altro gruppo armato (come invece fece Valerio Morucci, portandosi armi e bagagli). Si tratta di una dissociazione ante litteram, diversa da quella prevista dalla legge che uscì in seguito e che prevedeva la confessione in cambio di uno sconto di pena, perché decisa in libertà, ovvero senza la pressione del carcere e l’interesse ad uscirne al più presto.
– Si sono stabiliti legalmente in altri paesi, in due casi ottenendone la cittadinanza; procedura che, come si è detto, implicava all’epoca la perdita automatica della cittadinanza italiana. Dunque poche o nessuna possibilità di estradizione a priori. Ma nessuno dei molti Ministri di giustizia succedutisi in questi decenni ha mai voluto delegare alle autorità straniere il loro perseguimento penale. Tra le probabili ragioni, spiccano il rischio di non arrivare a delle condanne, o a delle pene alte come quelle italiane, lasciandoli riprocessare da un sistema giudiziario straniero e ‘normale’ (cioè senza leggi d’emergenza e procedure d’eccezione italiane), e il volere evitare che dei giudici stranieri s’impiccino del caso Moro.
– Sono stati condannati in contumacia. Il che significa che non hanno potuto dire la loro davanti ai magistrati, né lo potranno mai, visto che l’Italia persiste ad essere l’unico paese europeo che non prevede una ‘procedura di purgazione’ delle condanne emesse in assenza dell’imputato, nel corso della quale questi recupera il diritto di esprimersi e di difendersi. Il caso di Algranati mostra quanto il procedimento contumaciale italiano sia obsoleto anche sotto il profilo della ‘verità giudiziaria’: assolta in contumacia per il sequestro Moro, non sarà mai più interrogata su quel fatto.
C’è di più, e di peggio. Insieme a Battisti, Casimirri e Loiacono sono stati oggetto di tentativi di extraordinary renditions per opera di ‘forze private’ che programmarono sequestro e consegna alle autorità in Italia. Lo ha raccontato pubblicamente uno dei protagonisti sulla Repubblica, intervista ripresa a mo’ di annuncio da un sito di mercenari, senza che la ‘notizia di reato con confessione’ provocasse qualsivoglia reazione, in un paese in cui i magistrati aprono inchieste per qualsiasi rutto fuori posto.
Non interessa, punto.

Gogna e vergogna con epilogo presidenziale

Ciò che interessa Grandi è accreditarsi come brigatologo in linea con la morale pubblica.
Egli illustra così il suo pensiero (p.155): Casimirri e Loiacono “… è assai probabile che … non conosceranno mai, per i reati che hanno commesso, le patrie galere. … Vista la ormai assodata loro partecipazione ad alcune delle più cruente azioni poste in essere dalle brigate rosse, non si riesce nemmeno ad immaginare quali rivelazioni sarebbero in grado di fornire una volta, eventualmente, acciuffati. Resterebbe, la consolazione di averli costretti ad espiare le proprie responsabilità. Che non furono e non sono poche. Tuttavia, un po’ di amarezza, per questa sorta di vendetta postuma rimarrebbe. Mitigata, questo sì, dall’atteggiamento (inevitabilmente?) volutamenete irriverente, indisponente e menzognero costantemente tenuto da ambedue ogniqualvolta hanno avuto modo di affrontare la strage di via Fani e l’assassinio di Aldo Moro. Ecco, forse la verità, la disponibilità al ravvedimento, al racconto sincero e onesto, alla pubblica confessione non solo né esclusivamente del reato, ma delle ragioni che spinsero a commetterlo, del travaglio interiore che, si spera, ci sarà stato, successivamente, a ripensarlo; tutto ciò, probabilmente, se non eliminerebbe la pena né acconteterebbe i burocrati del ministero, costituirebbe, se non altro, una consolazione, per i tanti che hanno a cuore il rispetto della verità storica.”
Il lettore sopravvissuto alla tempesta sintattica coglierà il senso unico: dopo la galera, gli ex-brigatisti devono confessare in pubblico i propri sentimenti, e soprattutto mostrare vergogna. Se non per la “verità storica”, almeno per consolare Aldo Grandi, che ci ha esemplarmente mostrato vergogna dei propri cattivi pensieri sul sequestro Moro.

Infine lo sventurato ‘ultimo brigatista’ Raffaele Fiore, ormai introdotto come ‘ultimo pollo’ nel circuito mediale, accetta un’altra intervista, e mal gliene incoglie. È nientemeno che il Presidente della Repubblica a dargli addosso nel discorso ufficiale per l’istituzione del “giorno della memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”. Giorgio Napolitano, da trent’anni campione della fermezza, si dice colpito e indignato dall’intervista, concludendo tra gli applausi che non devono esistere “tribune per simili figuri”.
Il ‘rammarico’ pubblicamente espresso dagli ex-brigatisti è oggi sottoposto ad una valutazione morale, i cui criteri confondono umiltà ed umiliazione. La nota sufficiente è attribuita all’espressione pubblica di vergogna, e all’insufficiente è imposta la gogna pubblica.
Suona cosi (involontariamente) autoironico il riferimento fatto da Aldo Grandi alla ‘colonna infame’: anche la storia del processo raccontato da Alessandro Manzoni terminava con un finale di pubblico linciaggio.

L’indirizzo di Giada Romeo è: romeo.giada@inbox.com