di Marco Amici*
Tratto dall’intervento alla conferenza “The Italian Perspective on Metahistorical Fiction: The New Italian Epic”, Institute of Germanic and Romance Studies, University of London, UK, 2 ottobre 2008.

Obbedire a occhi chiusi è l’inizio del panico.
– Maurice Merleau-Ponty, Elogio della filosofia

E sembra di essere piatti rotanti,
i nostri corpi galleggiano e scendono il fiume fangoso.
– Radiohead, Like Spinning Plates

Arte e letteratura “devono curare il nostro sguardo, rafforzare la nostra capacità di visualizzare” [1]. Quest’affermazione è posta verso la conclusione del saggio New Italian Epic, in cui Wu Ming 1 ha esposto, tra l’altro, la necessità di simulare, attraverso il linguaggio, un punto di vista che permetta “un vedere il mondo da fuori e un vedersi da fuori come parte del mondo” [2]. L’urgenza è quella di produrre un pensiero ecocentrico che consenta di elaborare un’altra modalità dell’esistente. Il rischio, concreto eppure così difficile da accettare, è quello di velocizzare il processo che porterà la razza umana a scomparire dal pianeta. Le immagini evocate oscillano fra The Road (2006) di Cormac McCarthy e The World Without Us (2007) di Alan Weisman, fra un pianeta grigio e arido attraversato da pochi sperduti sopravvissuti e un pianeta verde e in salute, privo di uomini. Al di là di facili catastrofismi, dunque, un pensiero ecocentrico indurrebbe alla presa di coscienza di quell’accelerazione verso l’estinzione di cui noi, Occidente, siamo i principali responsabili. Noi, che ammontiamo a circa il 20% dell’umanità e che consumiamo oltre l’80% delle risorse naturali del pianeta e che, nonostante l’evidenza dei numeri, non diamo grande peso a un problema le cui conseguenze più gravi non ci riguarderanno direttamente.

Adattando liberamente dal film di Mathieu Kassovitz La Haine (1995): questa è la storia dell’umanità che precipita e, mano a mano che cade, continua a ripetersi “fino a qui tutto bene, fino qui tutto bene, fino qui tutto bene…”
Ecco: dell’umanità che precipità noi siamo una delle generazioni coinvolte nella caduta; del problema ben più serio dell’atterraggio se ne occuperà la più sfortunata delle generazioni future.
Compiendo un salto teorico verso il futuro a partire da una delle caratteristiche del New Italian Epic, quella relativa allo “sguardo obliquo”, alla sperimentazione del punto di vista, Wu Ming 1 sembra alle prese con una strana deriva conclusiva. Le specifiche letterarie di quell’insieme di opere raggruppate sotto l’umbrella-name New Italian Epic, a cui è dedicata la parte centrale dello scritto, sembrano lontanissime. Si parla di salute del pianeta, di estinzione della razza umana, di ecologia della mente. Dov’è la critica e la teoria della letteratura? Dov’e che ci porta questa riflessione?
La mia idea è che ci porti esattamente dove siamo: qui, oggi, calati nel nostro tempo, perché se l’umanità sta precipitando, arte e letteratura possono — devono — prendersi cura della sua caduta, rieducandoci all’immaginazione di un futuro diverso. Cito: “non c’è avventura più impegnativa: lottare per estinguerci con dignità e il più tardi possibile [3]“. Qui ed ora, nonostante l’ormai radicata convinzione che ad accadere sia sempre l’inatteso e mai l’inevitabile, si parla di letteratura che guarda in faccia la nostra corsa verso l’autoannichilimento. Letteratura che, più di tutto, pone il problema del rapporto tra noi e il nostro mondo e lo fa con urgenza, perché, evidentemente, qualcosa non sta più funzionando.
Il timore, sempre più concreto, è che la causa del problema abbia a che fare con il progressivo tecnologizzarsi del nostro quotidiano e, utilizzando una definizione di Antonio Scurati, con la conseguente “inesperienza” che ogni giorno facciamo della realtà [4]. A ben guardare, l’ordine di dubbi così sollevato può considerarsi la naturale evoluzione di quello posto dal movimento cyberpunk negli anni Ottanta, le cui istanze sono state variamente assorbite sia dalle culture mainstream sia da quelle antagoniste. Tuttavia, non è di cyberspace o inner space che si vuole parlare qui, quanto di romanzi che non hanno remore nel dialogare con una tradizione letteraria che va da Alessandro Manzoni a James Ellroy, di autori accomunati da un’attitudine letteraria che porta a scrivere libri che vogliono leggere il mondo. Prima che questo diventi illeggibile o il nostro sguardo troppo confuso.

Da qui si allarga il campo elettrostaticoIl New Italian Epic non è un genere o una corrente, ma un’ipotesi di convergenza in atto nelle lettere italiane. Ipotesi affascinante perché basata non tanto sulle specifiche intenzioni di autori, bensì sulla vita e l’energia radiante di specifiche opere letterarie. Se questa tendenza sia realmente in atto o sia solo espressione della volontà di potenza del collettivo Wu Ming, lo si dibatte aspramente nei salotti delle lettere italiane.
Dal mio punto di vista il New Italian Epic esiste, le istanze che pone sono reali e la sua consistenza letteraria segna una frattura rispetto al passato recente della letteratura italiana. Allo stesso modo, ritengo che l’ipotesi proposta da Wu Ming 1 possa essere considerata e integrata a partire da un humus teorico ben preciso, da riflessioni che solo in parte riguardano lo specifico letterario ma che, sulla pagina scritta, finiscono per ricadere e sedimentare.
Per questo motivo le mie prime riflessioni verteranno principalmente sul “prima” e su “l’intorno” del New Italian Epic, su ciò che dal punto di vista teorico lo ha preceduto e su ciò che preme sui suoi confini letterari.

Da qualche anno a questa parte il termine “mitopoiesi” è entrato a far parte del gergo letterario di chi frequenta la letteratura italiana dagli anni Novanta in poi. Mitopoiesi: produzione e manipolazione di miti e immaginario. La diffusione e attualizzazione del termine è avvenuta proprio grazie all’opera del collettivo Wu Ming che, fin dal suo costituirsi, si è avvalso di questa prassi: fare letteratura col proposito di agire a livello di immaginario, nella sfera dei simboli, nella dimensione del mito. Un agire letterario che rivendica naturalmente la sua valenza politica, a partire dal presupposto che la critica all’ordine politico ed economico debba necessariamente passare anche per l’ambito dell’immaginario. L’immaginario, dunque, come terreno da mobilitare e movimentare, per evitare che si riduca a una propaggine a livello “psichico” dello stesso opprimente modello di società in cui si vive.
In questo senso, lo scrittore che basa il suo lavoro sull’esplorazione della dimensione simbolica, sulla produzione di narrazioni che smuovano e facciano ri-vivere l’insieme dei simboli e dei miti, gioca un ruolo di primaria importanza: l’atto del narrare diviene contributo attivo alla volontà di cambiamento.

dekerckhove.jpgPrendendo le mosse da queste considerazioni, lasciarsi andare alla deriva dall’ambito strettamente letterario può portare a percorrere rotte interessanti. Parliamo allora di quella particolare tecnologia che consegna le narrazioni prima ai libri e poi ai nostri occhi: l’alfabeto. Derrick de Kerckhove sostiene che la scrittura alfabetica va considerata come una vera e propria “tecnologia comunicativa”, capace di modificare le modalità del pensiero e della coscienza umana esercitando una vera e propria pressione sul nostro cervello.

Dal momento che l’alfabetizzazione viene di solito acquisita negli anni di formazione e dato che influenza l’organizzazione del linguaggio — il nostro sistema più completo di elaborazione delle informazioni — ci sono buone ragioni per pensare che l’alfabeto influenzi anche l’organizzazione del pensiero. Il linguaggio è il software che guida la psicologia umana. Qualsiasi tecnologia che influenzi significativamente il linguaggio deve anche influenzare il comportamento a livello fisico, emotivo e mentale [5].

L’alfabetizzazione ha prodotto nell’uomo una nuova organizzazione cognitiva di tipo spazio-temporale che, progressivamente, ha portato l’individuo ad avere un proprio personale appiglio alla realtà, una propria prospettiva. Nell’antica Grecia, la nascita del primo alfabeto comprensivo di vocali e quindi totalmente fonetico [6], portò a sviluppare un inedito senso di identità individuale, che contribuì alla formazione di una sfera pubblica critica: si crearono così i presupposti per il dialogo democratico. Precedentemente, la gestione e l’elaborazione delle informazioni avvenivano secondo un rigido sistema verticale, controllato dalle gerarchie istituzionali e religiose.
L’alfabeto quindi, come sostiene De Kerckhove, ha creato due rivoluzioni complementari: una nel cervello e l’altra nel mondo. Il suo impatto, dall’antichità a oggi, ha modellato la nostra modalità di comprensione, fino a divenire condizione sine qua non del nostro essere: noi siamo creature dell’alfabeto.

Tuttavia, dopo più di duemila anni di sviluppo tecnologico, il paradigma alfabetico sembra aver perso il suo primato. L’evoluzione dei nuovi mezzi di comunicazione elettronici ha progressivamente messo in crisi il modello cognitivo di tipo sequenziale connaturato all’alfabeto in un processo di implosione che ha ridotto il tempo e lo spazio alla simultaneità.
Da una parte assistiamo al fenomeno descritto da Walter Ong come “oralità secondaria” [7], per cui i media elettrici ed elettronici producono un ritorno a una nuova oralità, quella del telefono, della radio, della televisione, la cui esistenza dipende però necessariamente dalla scrittura. Dall’altra parte s’inaugurano il nuovo tempo e il nuovo spazio dei flussi, prodotto dall’innovazione tecnologica e dalle conseguenti integrazione e interconnessione di media e networks.
L’immagine più rappresentativa è in questo caso quella proposta dal sociologo spagnolo Manuel Castells: un mondo globalizzato attraversato da flussi di capitale, informazione, immagini, suoni e simboli che definiscono le nuove gerarchie economiche superando qualsiasi distanza spaziale o temporale [8]. Le forme dell’informazione sempre più complesse e la moltiplicazione inarrestabile degli agenti di comunicazione costituiscono un dato senza precedenti nella storia della comunicazione.
leviv2.jpgA partire da questo dato, il filosofo e media-attivista Franco Berardi “Bifo” sottolinea come nell’attuale fase, caratterizzata da tecnologie di comunicazione simultanea, “il tempo necessario per elaborare la massa degli stimoli informativi in maniera sequenziale e dunque critica […] è di gran lunga superiore al tempo utile per una scelta” [9]. Essere soggetti, oggi, al flusso mediatico vuol dire, in pratica, essere incapaci di una decodifica consapevole, di esercitare sull’informazione che si riceve quello stesso potere che sull’informazione scritta può esercitare un lettore. Volenti o nolenti, noi siamo spettatori passivi. La mole di informazioni a cui quotidianamente abbiamo accesso tramite il Web e la televisione offre una libertà di conoscenza che spesso si traduce in una mera illusione di conoscenza. L’aspetto inquietante di un simile processo è che, allo sviluppo tecnologico e all’integrazione fra i vari media, è ormai evidente come corrisponda un’integrazione fra potere politico, economico e mediatico. Nei casi in cui tale integrazione giunge a compimento, il flusso denso e avvolgente prodotto dai media non è che un’emanazione diretta del potere, una sua rappresentazione che coincide con quella del mondo. Precedentemente ho accennato al concetto di mitopoiesi in ambito letterario, pensiamo all’integrazione economica, politica e mediatica del potere e ai processi che ne conseguono: produzione di immaginario, modellazione di soggettività, occupazione dell’infosfera. Un insieme di conseguenze che possiamo riassumere in una singola espressione: mitopoiesi centralizzata del potere, volta solo al mantenimento e al consolidamento dello stato di cose esistenti.

L’idea di narrazione come pratica di opposizione a queste dinamiche teorizzata dai Wu Ming, nasce da questo stato di cose. Ritengo che il New Italian Epic, in quanto specifico campo di forze nel corpus della letteratura italiana, possa essere considerato a partire da questo stesso humus teorico.
A mio avviso, molta dell’energia elettrostatica che tiene insieme, ad esempio, opere come L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli (2008) e Black Flag di Valerio Evangelisti (2002) viene generata da più reazioni a catena che coinvolgono testo e lettore, ma che sarebbero impensabili senza quel contesto che ho cercato di descrivere. È nella “transizione tecnocomunicativa” [10] in atto che va ricercato “quel qualcosa che non va” nel nostro rapporto con il mondo, di cui il New Italian Epic intende occuparsi. Una sorta di deriva le cui conseguenze arrivano a ridisegnare i centri e le periferie del potere così come a influenzare lettori e scrittori nell’intimità del loro rapporto con la pagina scritta o da scrivere.
Il New Italian Epic è un’ipotesi che lega insieme un’eterogenea quantità di opere letterarie. Autori di generazioni, background e ambizioni diverse capaci di scrivere opere accomunate dalla stessa sensibilità di fondo. Il dato comune immediatamente riconoscibile sembra essere quello del rapporto con la storia. Molte delle opere del New Italian Epic sono o sembrano essere romanzi storici. Niente di nuovo, per carità: in Italia il genere del romanzo storico non ha mai smesso di avere i suoi autori e il suo pubblico. Tuttavia, negli ultimi decenni al genere è sembrata affluire nuova linfa. Margherita Ganeri, nel suo saggio Il romanzo storico in Italia [11], parla di una vera e propria rinascita, che prende avvio negli anni Ottanta con lo straordinario successo del Nome della rosa (1980) di Umberto Eco e che prosegue per tutti gli anni Novanta. Argomentando questa specie di nuova fioritura, la Ganeri fa riferimento anche a uno smarrimento percettivo, a un “disorientamento spazio-temporale in un mondo che cambia secondo ritmi molto diversi da quelli del passato” [12].

In questo quadro, la narrazione del passato assumerebbe la duplice funzione di esorcizzare le paure generate dalla rivoluzione informatica e di rappresentare le «mutazioni antropologiche», sensoriali e cognitive, prodotte dall’impatto dei linguaggi multimediali sui processi di selezione della memoria storica [13].

Va altresì considerato come, nel saggio di Ganeri, la messa in relazione di smarrimento percettivo e romanzo storico vada naturalmente contestualizzata all’interno del dibattito letterario sul postmoderno. Ganeri parla esplicitamente di “romanzo neostorico postmoderno” le cui caratteristiche possono variare da un approccio più critico e problematico a uno più concentrato sull’aspetto seduttivo-commerciale del genere. Wu Ming 1 nel suo saggio ha variamente argomentato le differenze e le distanze che separano il New Italian Epic dall’esperienza postmoderna. Va considerato, però, come “la mutazione antropologica” a cui si fa qui riferimento, rimanga un nodo irrisolto, fondamentale con cui la letteratura deve necessariamente fare i conti. Che questo debba implicare una varietà di risposte diverse da quelle fornite dal postmodernismo, appare oggi evidente e necessario. Così come appare evidente che il New Italian Epic non implichi in nessun modo un ritorno alla “maniera” realista: l’opzione realista è solo “una delle tante frecce nella faretra di un autore” [14]. Al contrario, considerando i romanzi proposti come appartenenti al New Italian Epic, sembra che sia stata generalmente metabolizzata la convinzione per cui il reale, per essere raccontato, va sempre sporcato, distorto, diluito. Alla stessa maniera, le nozioni di commistione di più generi in una singola narrazione e di contaminazione di letterario ed extraletterario sembrano naturalmente “abitare” le narrazioni New Italian Epic, al di là di qualsiasi proposito sperimentale o d’avanguardia. Ma rimaniamo dalle parti del romanzo storico. Scurati, nel suo saggio La letteratura dell’inesperienza, riflette sulla generazione di scrittori di cui fa parte: la prima a essere cresciuta con la televisione, la prima a fare dei tanti aspetti dell’esistente, un’esperienza mediata dal tubo catodico. L’autore individua una condizione di ‘inesperienza’ per chi scrive, intesa come impossibilità di percepire il mondo al di fuori del flusso mediatico. Come forma di resistenza a questa logica, Scurati propone di praticare il romanzo storico.

Il romanzo storico mi appare ancora un sentiero da percorrere. Non è un caso che il romanzo storico, dopo essere caduto in disuso […], sia rifiorito in Italia grazie a Umberto Eco […], sia cioè rifiorito per mano del nostro più acuto studioso della cultura di massa proprio negli anni in cui la nascita delle televisioni commerciali ne segnava il trionfo. Ciò di cui in futuro si dovrà tenere conto è che oggi, in piena esplosione dell’inesperienza qualsiasi romanzo si scriva, anche il più ferocemente autobiografico, il più ingenuamente attuale, lo si scrive come un romanzo storico [15].

Questa asserzione, posta in conclusione di saggio e senza ulteriori argomentazioni, assume la paradossale e nel contempo emblematica sembianza di una reazione istintiva, uno scarto concettuale generato dalla necessità di fronte all’imprevisto o al pericolo.
La seconda parte del mio discorso sul New Italian Epic parte esattamente da qui: dalla sensazione che lo smarrimento percettivo postmoderno abbia lasciato il posto a una sottile e costante sensazione di pericolo. Per buona parte, questo effetto non può che derivare della tragedia dell’11 settembre, ovvero del pericolo che assurge a normale condizione sociale e globale. Tutto ciò, a mio avviso, va ricondotto anche al pericolo avvertito da chi inizia a sentirsi minacciato nella sua facoltà di leggere il mondo, quello presente così come quello passato. Ho cercato di specificarlo poco prima: le narrazioni mediatiche del nostro tempo procedono a velocità tali che la nostra facoltà critica viene tagliata fuori. Di fronte a esse non possiamo essere lettori, solo spettatori.
È a partire da questa sensazione che a mio avviso nasce l’urgenza del New Italian Epic nonché la sua spiccata valenza etica. Cosa può responsabilizzare di più uno scrittore, nei confronti dei suoi lettori, se non l’imperativo di raccontare il suo tempo, di preservare, tramandare o riscoprire un patrimonio di immagini in una fase storica in cui la sovraesposizione mediatica non fa altro che produrre distrazione, dimenticanza e accecamento?
Da questa prospettiva s’intende chiaramente come il romanzo storico, o almeno il romanzo che abbia a che fare con la storia, possa considerarsi scelta privilegiata. Nella logica dei flussi lavorare sul passato appare una naturale forma di resistenza, perché consente di esaltare ciò che la transizione tecnocomunicativa tende a minare dall’interno: la profondità del presente, le sue radici nel passato, la complessità della storia. L’eterno presente delle narrazioni mediatiche produce una sproporzione irrimediabile fra la mole di informazioni su ciò che sta accadendo ora, e le informazioni su ciò che è accaduto. La nostra prospettiva temporale si affievolisce, il nostro sguardo è capace di abbracciare simultaneamente tutto il mondo ma è dotato di una memoria cortissima. In questo senso, il New Italian Epic propone di percorrere la strada del romanzo storico con una nuova consapevolezza, a partire dalla convinzione che il romanzo storico consente di piantare narrazioni su un terreno fangoso, irrorato da flussi mediatici che ciclicamente producono esondazioni revisioniste o smottamenti di memoria.

slmpds.jpgUrgenza, responsabilizzazione: ecco che il ricorso al termine ‘epica’ appare più chiaro. Come ha giustamente rilevato Claudia Boscolo, l’epica “è stata in passato, e continua evidentemente a essere, il genere politico per antonomasia” [16]: è stata capace, attraverso i secoli, di manifestare le sue potenzialità nei momenti in cui “la libertà di espressione viene limitata dal ‘patronage‘, cioè quando si impongono, mutatis mutandis, modalità comunicative simili a quelle che si stanno verificando oggi” [17]. La rappresentazione del mondo a cui ci sottoponiamo ogni giorno attraverso i media non passa attraverso atto coercitivo, ma è essa stessa ad affermarsi sulla nostra facoltà critica. Immersi nel flusso informativo, senza il tempo di scegliere o elaborare criticamente quello che scorre davanti ai nostri occhi, inconsciamente deleghiamo la nostra possibilità di scelta ai media. Reagire a questa logica vuol dire avvertire il pericolo di perdere il proprio statuto di lettore critico della realtà, temere per il proprio sguardo e prendersene cura.
Per iniziare finalmente a chiamare in causa i testi, prenderei come esempio di questa urgenza nel contempo a resistere e a raccontare, propria del New Italian Epic, il libro di Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue (2007), uno degli oggetti narrativi non identificati più controversi fra quelli citati da Wu Ming 1 nel suo saggio. Sappiano le mie parole di sangue, definito dall’autrice stessa un “quasi-romanzo”, è un testo instabile per costituzione: apparentemente il diario di una giornalista italiana bloccata a Mitrovica, nella ex-Jugoslavia, in realtà un oggetto narrativo fra il reportage di guerra, il saggio geopolitico, il flusso di coscienza e la poesia. Un libro che si pone a testimonianza del conflitto nei Balcani e nello stesso tempo rappresenta l’impossibilità di spiegare quella storia. Per questo motivo, come rilevato da Christian Raimo, l’elemento che maggiormente sembra innervare Sappiano le mie parole di sangue è la “mancanza di catarsi” [18]: il romanzo si pone come “tentativo di resa all’indicibilità di un male che da sociale diventa singolo, personale, e infine trascende la stessa comprensibilità e dicibilità” [19]. Nelle prime pagine del libro la protagonista riceve in dono una penna stilografica da un anziano ex professore di Mitrovica, ora profugo di guerra, in partenza e senza una meta precisa.

«Sono stato professore. Credo sia il momento adatto per donare questa penna a chi è libero di scrivere tutta questa verità.»
Rabbrividisco; ogni nervo della schiena si indurisce: cosa è vero e cosa è falso, in questa baraonda di milizie, di masnadieri e di affaristi; cosa ho visto veramente, chiusa dentro questo assedio? Cosa scrivo?

È indubbio che il fascino e nello stesso tempo il limite dell’opera di Babsi Jones vivano di questa pulsione disperata alla testimonianza: l’urgenza di raccontare si fa dramma e rimane senza soluzione. Il “fallimento” di Sappiano le mie parole di sangue è, a mio avviso, una delle incarnazioni più rappresentative dell’urgenza del New Italian Epic.
L’altro romanzo chiave, da questo punto di vista, è senza dubbio Gomorra (2006) di Roberto Saviano. Il racconto delle dinamiche di dominio della camorra, del suo radicamento nel tessuto sociale, fanno di Gomorra una testimonianza esemplare. Questo grazie a una narrazione in cui Saviano riesce a far convergere le deposizioni più diverse, registrando ogni fonte e accogliendo ogni punto di vista. Il romanzo risponde appieno alla necessità di metabolizzare in letteratura una realtà la cui narrazione dominante, avvenendo per via mediatica, produce un racconto naturalmente mistificatore. Questo accade perché da anni ormai, in Italia, il principio regolatore dell’intervento politico e dell’attenzione mediatica è determinato dalla logica delle emergenze, che scandisce il tempo con i suoi episodi eclatanti. Passato lo sgomento prodotto dall’emergenza, l’interesse politico e dei media si affievolisce e inesorabilmente cala. In questo senso, la narrazione di Saviano è illuminante, perché, al di la dei morti ammazzati, ci mostra attraverso un proliferare di aneddoti e punti di vista sciolti nel racconto dell’io narrante, facendoci partecipi di quella vera e propria morsa che la camorra esercita sul tessuto sociale.

dipietr1.jpgTutte le opere che hanno preannunciato, anticipato e delineato il New Italian Epic sono opere italiane post-guerra fredda scritte nella Seconda Repubblica e, di conseguenza, posteriori al cruciale biennio 1992-1993, su cui ora mi soffermerò. A mio avviso, infatti, non è un caso che gli eventi accaduti in Italia in quel particolare momento storico siano alla base di uno dei romanzi chiave del New Italian Epic, Nelle mani giuste (2007) del giudice e scrittore Giancarlo De Cataldo. Questo romanzo si svolge dall’autunno del 1992 all’autunno del 1993 mentre l’Italia sta attraversando una fase estremamente delicata della sua storia. I magistrati simbolo della lotta alla mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati brutalmente assassinati insieme alle loro scorte e alla moglie del primo. Bombe esplodono a Milano, Firenze e Roma e il paese, vent’anni dopo, torna a rivivere l’angoscia della strategia della tensione. Nel frattempo, la Procura della Repubblica di Milano sta portando avanti l’inchiesta nota con il nome di Mani Pulite, i cui effetti cambieranno per sempre la storia politica italiana. Eventi singoli da contestualizzare in relazione al macro-evento accaduto quattro anni prima: la caduta del muro di Berlino. Come giustamente evidenziato da Giuseppe Genna [20], intorno a questa mole di avvenimenti esistono poche opere di riflessione, approfondimenti, materiale che permettano di affrontare criticamente un delicatissimo passaggio nella storia d’Italia. De Cataldo però osa, prende questi eventi e ne fa l’ossatura, non semplicemente lo scenario, di un romanzo che va a proporsi come uno dei finora pochi tentativi di raccontare gli anni Novanta in Italia. Impresa difficile, perché in mancanza di riflessioni e narrazioni, la pagina scritta si trova a sfidare un immaginario collettivo confuso, una memoria storica disarticolata in flash e stereotipizzata dalle informazioni trasmesse dai telegiornali e dai vari organi d’informazione istituzionale. Per questi motivi Nelle mani giuste, che nella sua struttura è molto più vicino alle caratteristiche tradizionali del romanzo storico, risponde, anche se con minore intensità, alla stessa urgenza a cui ho accennato precedentemente parlando di Gomorra e Sappiano le mie parole di sangue. Tuttavia, a partire dal romanzo di De Cataldo è possibile aggiungere considerazioni a mio avviso molto interessanti. Cosa rimane di un passaggio storico come quello consumatosi in Italia fra il 1993 e il 1994 quando le narrazioni che lo riguardano mancano o scarseggiano? Immagini. Flash di pochi secondi. Quello che i media ci hanno cucinato e di cui noi ci siamo ingozzati. L’eterno tempo presente dei nuovi media consegna alla nostra memoria quelle immagini che per loro forza riescono a ergersi a simbolo. Tutto il resto viene sciacquato nel flusso inarrestabile delle informazioni e così facendo, tutta la complessità di un momento storico tende a sciogliersi. Un romanzo come Nelle mani giuste, da questo punto di vista, lavora per recuperare quella complessità originaria e, in definitiva, per storicizzare il presente. Il periodo in cui si svolge il romanzo, infatti, non è semplicemente storia vicina ma è quella fase storica in cui siamo tuttora immersi e di cui De Cataldo, miscelando sapientemente fiction ed eventi reali, ci offre il suo racconto. Vale qui lo stesso concetto espresso poco prima: il romanzo New Italian Epic ambisce a piantare narrazioni su un terreno fangoso. Questo, nella maggioranza dei casi, implica la necessità di confrontarsi o sfidare convenzioni immaginarie e magari fare i conti con il rimosso della storia. Basta pensare a romanzi come L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli, Manituana (2007) dei Wu Ming, Cristiani di Allah (2008) di Massimo Carlotto, La banda Bellini (2007) di Marco Philopat, solo per citarne alcuni. La forza di queste opere risiede nella potenza delle loro immagini, nella loro propensione ad aprire brecce in immaginari stantii attraverso cui il lettore possa leggere il proprio tempo. Ma cosa implica, oggi che l’immagine massmediatica è divenuta la chiave dell’esperienza, il riporre fiducia nelle immagini della letteratura? Come considerare, oggi, la capacità propria dello specifico letterario di portare il lettore a visualizzare dentro di sé la narrazione? Le mie considerazioni finali, ma non conclusive, sul New Italian Epic partono da questi interrogativi per tornare a quanto riportato in apertura: “arte e letteratura devono curare il nostro sguardo, rafforzare la nostra capacità di visualizzare”. Se il New Italian Epic vive di questa impresa, la sua naturale collocazione è nel conflitto. Un conflitto la cui “ricaduta domestica” altro non è che l’opposizione fra lo sguardo del lettore (attivo, critico, creativo) e quello dello spettatore (passivo). Ho citato De Kerkchove e la sua asserzione per cui l’alfabeto è stato foriero di due rivoluzioni complementari, una nella mente individuale e l’altra nel mondo. Forse nel nostro tempo, in cui le tecnologie di comunicazione sequenziale risultano minoritarie, a essere in atto nella nostra mente e nel mondo è una controrivoluzione. Per questo scopo i media lavorano giorno per giorno, casa per casa, irradiando una rappresentazione del mondo che sembra non produrre altro che populismo e paura. Paul Virilio, in questo senso, parla di “panico freddo”, da ricollegarsi “all’orizzonte sospeso di un’angoscia collettiva, in cui si è tutti protesi ad attendere l’inatteso, in uno stato di nevrosi che opprime ogni vitalità intersoggettiva” [21]. È in questo contesto che, sempre secondo Virilio, ci muoviamo con “gli occhi chiusi dallo schermo catodico, ma soprattutto non cerchiamo più di guardare, di vedere attorno e neppure davanti a noi, ma unicamente oltre l’orizzonte delle apparenze oggettive[22]. Quel “qualcosa che non va” nel nostro rapporto con il mondo, dunque, oltre a essere fra le conseguenze di una transizione epocale in corso, è decisamente qualcosa che ha a che fare con il nostro sguardo, con la nostra capacità di vedere.

Wu Ming 1, concludendo il saggio sul New Italian Epic, indica nella frase “gli stolti chiamavano pace il semplice allontanarsi dal fronte”, estrapolata dal breve testo allegorico che apriva il penultimo romanzo del collettivo, 54 (2002), l’impulso alla base dei romanzi presi in esame. La mia ipotesi è che il fronte evocato non solo non sia lontano ma sia ovunque si posi il nostro sguardo: coincide con la superficie degli eventi. Appena al di sotto, impazza il conflitto tra finzionale e reale, tra la carne e il sangue della storia e il virtuale della sua narrazione mediatica, tra il passato con le sue radici profonde e il presente senza memoria. Un conflitto silenzioso eppure capillare, incessantemente alimentato dalla transizione tecnocomunicativa in corso, in cui elementi del vecchio mondo dei luoghi e della prospettiva gutemberghiana vanno faticosamente e sanguinosamente a ricombinarsi con elementi del nuovo mondo dei flussi e del simultaneo. Tutto questo avviene davanti ai nostri occhi, ma non necessariamente siamo in grado di vederlo. È per questo motivo che arte e letteratura devono ‘curare il nostro sguardo, rafforzare la nostra capacità di visualizzare’, suggerendo una via d’uscita allo stato di cose esistenti. La letteratura, allora, si offre come strumento privilegiato di lettura e di interpretazione del nostro tempo, grazie alla sua irriducibilità alle dinamiche dei flussi. La sua “lentezza” specifica e nel contempo la sua capacità di indurre il lettore alla visualizzazione ne fanno una pratica naturalmente resistente. L’ipotesi interpretativa del New Italian Epic rappresenta, da questo punto di vista, un tentativo di presa di coscienza inaudito per gli ultimi anni di quello che la letteratura può e deve fare.

NOTE

1. Wu Ming 1, New Italian Epic. Memorandum 1993-2008: narrativa, sguardo obliquo, ritorno al futuro, 23 aprile 2008, www.wumingfoundation.com
2. Ibid.
3. Ibid.
4. Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, Bompiani, Milano, 2006.
5. Derrick de Kerckhove, The Skin of Culture, Kogan Page, Londra, 1997, p.28.
6. Dal punto di vista neurofisiologico, secondo de Kerckhove, l’utilizzo di un alfabeto totalmente fonetico favorisce l’attività dell’emisfero cerebrale sinistro, portando allo sviluppo del pensiero astratto e analitico.
7. Walter J. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, Methuem, Londra-New York, 1982.
8. Manuel Castells, The Internet Galaxy: Reflections on the Internet, Business and Society, Oxford University Press, Oxford, 2001.
9. Franco Berardi “Bifo”, Exit. Il nostro contributo all’estinzione della civiltà, Costa&Nolan, Genova, 1997, p.125.
10. Ibid., pag.24
11. Margherita Ganeri, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al post-moderno, Piero Manni, Lecce, 1999.
12. Ibid., pag.11
13. Ibid.
14. Wu Ming 1, op. cit.
15. Antonio Scurati, op. cit., p.78.
16. Claudia Boscolo, “Scardinare il postmoderno: etica e metastoria nel New Italian Epic”, 29 aprile 2008, www.carmillaonline.com.
17. Ibid.
18. Christian Raimo, “Ogni esistenza è un mondo in conflitto”, 21 ottobre 2007, slmpds.net.
19. Ibid.
20. Giuseppe Genna, “DE CATALDO: Nelle mani giuste“, 25 giugno 2007, www.carmillaonline.com.
21. Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p.9.
22. Ibid., pagg.9-10

* Marco amici (Roma 1975) sta svolgendo un dottorato in Italian Studies all’University College Cork (Irlanda), con una ricerca sul giallo italiano. Si occupa principalmente di letteratura di genere e del rapporto fra narrazione, media e immaginario nell’attuale scenario socioculturale. Ha scritto su diverse riviste, tra cui il “Bollettino di Italianistica”, rivista di critica, storia letteraria, filologia e linguistica diretta da Alberto Asor Rosa.
QUI il suo saggio “La narrazione come mitopoiesi secondo Wu Ming” (PDF)

L’intervento di apertura della conferenza di Londra, fatto da Wu Ming 1, si trova qui.


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