di Mauro Gervasini

MarcoMuller.jpgIl dibattito sull’utilità o meno dei festival di cinema rischia di annoiare mortalmente i non addetti ai lavori. Tuttavia, intorno all’ultima Mostra del cinema di Venezia si è scatenato un tale furore giornalistico che vale la pena fare chiarezza, anche perché parliamo del settore — piccolo e residuale quanto si vuole — di un più complesso e drammatico scenario culturale. Prima di tutto: a cosa serve un festival? 1) A mostrare/scoprire nuove produzioni e relativi autori e interpreti. 2) A veicolare l’immagine di esotismo tipica della Settima arte nelle sue declinazioni più spettacolari, quindi mondanità al Lido e grandeur a Cannes. 3) A fare spogliatoio. Ovvero favorire la relazione sociale tra cinefili, fare amicizie o come direbbe Jean-Claude Izzo fare “chourmo”, gruppo.

L’ultima Mostra di Venezia, checché ne dicano i quotidiani che vi si sono scagliati contro con veemenza sospetta, ha perfettamente assolto la prima funzione. La proposta quest’anno è stata infatti rigorosa e di alta qualità, senza i picchi dell’edizione precedente (che a detta di tutti fu però eccezionale) anche a causa di oggettive difficoltà, come le conseguenze dello sciopero degli sceneggiatori americani, che ha di fatto bloccato molte pellicole d’oltreoceano. Marco Müller e i selezionatori hanno invece mantenuto un bell’equilibrio tra ricerca (con i lavori, citiamo alla rinfusa, di Claire Denis, Paolo Benvenuti, Aleksey German Jr., Bernard & Trividic, Pappi Corsicato, Kathryn Bigelow) e narrazione (Darren Aronofsky, Amir Naderi, Haile Gerima, Jonathan Demme, Miyazaki, Arriaga, i Coen) proponendo un concorso di ottimo livello.
Disastro totale invece sul punto numero 2, e questo spiega l’ira funesta dei quotidiani che hanno avuto poca ciccia per i dieci giorni della manifestazione, dato che del cinema di cui al punto 1 a nessuno dei direttori responsabili interessa nulla da anni. Quando il “Corriere della Sera” apre le pagine di spettacolo con un titolo a nove colonne dedicato a un documentario sullo stilista Valentino proiettato il giorno prima alle 10.30 del mattino, snobbando tutto il resto, qualche domanda ce la dovremmo pur fare. Le star non c’erano perché pochi erano i film americani, la Mostra è vampirizzata dal Festival di Toronto, quasi contemporaneo, e a questo si aggiunga una certa testardaggine di Müller, che sceglie di non invitare Spike Lee con il suo Miracolo a Sant’Anna non si sa bene se per l’indisponibilità del regista ad accompagnare la pellicola o ad accorciarla di venti mintuti come tutti gli consigliarono. Un film di Spike non si rifiuta mai, e le polemiche successive alla sua uscita avrebbero certamente ravvivato una manifestazione leggermente tristanzuola, questo sì.

Il punto 3, lo diciamo onestamente, è quello che ci sta più a cuore. Soprattutto perché per motivi anagrafici abbiamo fatto in tempo a frequentare i festival quando ancora erano economicamente accessibili. Sulle nottate passate nel campeggio di San Niccolò al Lido, ora chiuso, potremmo scrivere qualche racconto tra l’erotico e l’avventuroso. E ai tempi delle lire era ancora possibile, magari dopo 48 ore di digiuno, regalarsi una serata da Andri a scofanarsi pesce e vino bianco di Custoza senza dover lasciare un rene al momento del conto. Questo è il problema di tutti i festival d’Europa in generale, ma di Venezia in particolare.
Gli studenti non possono permetterselo perché dieci giorni all’ostello, otto persone in una camerata senza bagno, costano 500 euro! Non è uno scandalo assoluto? Perché di questo non scrivono i giornali invece di assecondare il trend del nuovo presidente di Medusa Carlo Rossella, che vorrebbe si parlasse solo del taglio perfetto del suo smoking o del rimmell di Isabella Ferrari? Gli eccessi talebani di chi vorrebbe eliminare il glamour e trasformare manifestazioni simili in spelonche punitive sono altrettanto dannosi dell’enfatizzazione del solo glamour, ma vivvaddio non può essere quest’ultimo l’unico metro di giudizio di una Mostra che vuole ancora essere d’Arte. Se la Biennale con il suo presidente (Baratta) e tutto il bailamme politico-istituzionale che gli ruota intorno (Bondi, Galan, Cacciari ecc.) non si rende conto della necessità di una rivoluzione strutturale, allora in futuro sarà sconsolante ma naturale pensare a quello di Roma come al primo festival italiano, nonostante un peso specifico culturale prossimo allo zero.

Certo, Baratta e Müller giurano che velocemente avremo un vero palazzo del cinema. Ma siamo in Italia, non fidarsi è meglio, e poi il primo ad annunciarne ufficialmente l’imminente realizzazione fu Benito Mussolini settant’anni fa. Comunque non è da lì che si dovrebbe cominciare ma dalla capacità di ricezione: nuovo campeggio, più ostelli e strutture, prezzi controllati e abbordabili, se non proprio popolari, mense e self service come aveva cercato di fare Alberto Barbera, non a caso cacciato senza un apparente perché. Se il Lido resta un non-luogo come adesso, hai voglia a voler competere con Cannes, Dubai, Berlino, Roma o Londra, questo a prescindere dal cinema. Insomma, o si cambia o muerte.