di Maximilien Rubel – Traduzione e note di Marco Melotti

marco melotti.jpg[Vorrei ricordare Marco Melotti (nella foto) con un testo che egli stesso aveva curato, tradotto in italiano, e diffuso attraverso la rivista Vis-à-vis.] (Gioacchino Toni)

Nel centenario della morte di Marx questo saggio, pubblicato dieci anni fa, avrebbe bisogno di una revisione, per rinforzarne la tesi centrale: la fondazione da parte di Marx di una teoria politica dell’anarchismo (1). Se si astrae dalla tradizionale critica di carattere puramente formale, di cui questa teoria è oggetto da parte di ideologi anarchici e libertari, occorre ammettere che il vero dibattito sui modi di transizione delle società dominate dal capitale e dallo Stato è molto lontano dall’essere iniziato. Di massima, il verbalismo prende il posto di argomento privilegiato nei due campi, anarchico e marxista, senza che sia preso realmente in considerazione l’insegnamento del principale interessato. Il fatto che la quasi totalità delle risoluzioni “politiche”, redatte da Marx per i successivi congressi dell’Internazionale operaia, abbiano ottenuto l’accordo unanime dei delegati, basta, tuttavia, per riconoscere l’inanità delle critiche sedicenti antiautoritarie.

In realtà gli “antiautoritari” non erano certo meno “marxisti” dei loro oppositori, poiché, votando queste risoluzioni di cui essi probabilmente ignoravano l’autore, rendevano omaggio all’autorità di quest’ultimo (2). E che dire del voto unanime, da parte dell’insieme delle sezioni dell’A.I.T., a favore dell’indirizzo su La Guerra civile in Francia, in cui il “vero seguito” della natura della Comune è rivelato in questi termini: “Essenzialmente è un governo della classe operaia, il risultato della lotta della classe dei produttori contro la classe degli accaparratori, la forma politica infine disvelata sotto la quale si compirà l’emancipazione economica del lavoro” (3).
Come fare a non stupirsi di una fraseologia “antiautoritaria” sempre rifiorente, quando si sa che questa concezione del carattere politico della Comune fu condivisa senza riserve sia dagli adepti di Proudhon sia da quelli di Bakunin, il quale, poco tempo dopo, si è ingegnato a diffondere fra i suoi compagni di lotta alcuni libelli in cui Marx è trattato da “rappresentante del pensiero tedesco”, da “ebreo tedesco”, da “capo dei comunisti autoritari della Germania”, come chi si comporta da “dittatore-messia”, da partigiano fanatico del “pangermanesimo” (4). Che dire di quei “Documenti probanti” in cui Marx è descritto, da una parte come un “economista profondo… appassionatamente votato alla causa del proletariato”, come “l’iniziatore e l’ispiratore principale della fondazione dell’Internazionale” e, d’altra parte, come un dottrinario che “è giunto a considerarsi molto seriamente come il papa del socialismo, o piuttosto del comunismo”? Il che significa in altri termini, che, “per l’intera sua teoria, egli è un comunista autoritario, che vuole come Mazzini… l’emancipazione del proletariato attraverso la potenza centralizzata del proletariato”. Che cosa pensare di un “anarchico” o di un “comunista rivoluzionario” che crede ed afferma che l’ebreo Marx è circondato da una “folla di piccoli giudei”, che “tutta questa gente ebrea”, questo “popolo sanguisuga” è “intimamente organizzato al di là di ogni differenza sul piano delle opinioni politiche”, che esso è “in gran parte a disposizione di Marx, da un lato, e di Rothschild dall’altro” (5)?
Come prendere sul serio un “anarchismo” che, “anti-autoritario” per essenza e per proclama, attribuisce proprio a Marx il glorioso merito di aver redatto “le così belle e profonde considerazioni degli statuti”, e d’aver “dato corpo alle aspirazioni istintive, unanimi del proletariato in quasi tutti i paesi d’Europa col concepire l’idea e proporre l’istituzione della Internazionale negli anni 1863/1864”, dimenticandosi dunque o fingendo di dimenticarsi che la Carta dell’Internazionale fu un documento politico, un manifesto che conferisce alla lotta politica della classe dei produttori il carattere di un imperativo categorico, condizione assoluta e mezzo ineludibile dell’emancipazione umana (6)?
Non Marx, ma Bakunin praticava il principio della liberazione “dall’alto verso il basso”, esaltando la costituzione di un’autorità centralizzata e segreta, di un’élite avente per missione l’esercizio di una “dittatura collettiva e invisibile” al fine di far trionfare “la rivoluzione ben diretta” (7). Confidando nel movimento reale degli operai, Marx sottolineava l’importanza dei sindacati, delle cooperative e dei partiti politici in quanto creazioni “dal basso verso l’alto”, mentre Bakunin, al contrario, ripercorrendo magistralmente la traiettoria di Mazzini, eroe delle spedizioni al margine della vita reale delle masse, progettava per i rivoluzionari italiani, chiamati a coordinare una “grande rivoluzione popolare”, un piano d’azione per sollevare e spingere alla rivoluzione i contadini “necessariamente” federalisti e socialisti. Il programma prevedeva la formazione di un “partito attivo e potente”, un’avanguardia, in realtà, che marciava “parallelamente” ai mazziniani, ma guardandosi bene dal congiungersi con loro e sorvegliando che essi non si infiltrassero nel nuovo partito, ecc.
Non era certamente Marx che, di fronte alle persecuzioni dei governi e delle polizie di cui era vittima l’Internazionale in tutti i paesi del continente europeo, consigliava la creazione, “dentro le sezioni”, di “nuclei” composti dai membri più sicuri, più devoti, più intelligenti e più energici, in una parola “i più intimi”, con la “doppia missione” di formare “l’anima ispiratrice e vivificante di quest’immenso corpo che si chiama Associazione Internazionale dei Lavoratori in Italia, come altrove… Essi formeranno il ponte necessario fra la propaganda delle teorie socialiste e la pratica rivoluzionaria”. Non era Marx che raccomandava agli Italiani così reclutati di formare “un’alleanza segreta” che “non avrebbe accettato nel suo seno che un piccolissimo numero di individui i più sicuri, i più devoti, i più intelligenti, i migliori, poiché in questo tipo di organizzazioni, “non è la quantità ma la qualità che occorre ricercare”; non occorreva imitare i mazziniani e “reclutare soldati per formare piccole armate segrete, capaci di tentare colpi di mano”, poiché, per la rivoluzione popolare, l’armata è il popolo. Non era certo Marx che suggeriva di formare “stati-maggiori”, una “rete ben organizzata e ben ispirata di capi del movimento popolare”, un’organizzazione per cui “non è assolutamente necessario avere una grande quantità di individui iniziati nell’organizzazione segreta” (8).
Si può immaginare quest’uomo, come la personificazione del “comunismo-autoritario”, che si rivolge nel modo prima descritto a una rete segreta di compagni o che impiega i suoi talenti di uomo di scienza e di militante per “convertire l’Internazionale in una specie di Stato, ben regolamentato, ben disciplinato, che obbedisce ad un governo unitario e di cui tutti i poteri sarebbero concentrati nelle sue mani [nel testo di Marx]” (9)?
Come spiegare il fatto che, per suffragare il loro dogma “antiautoritario”, i sedicenti anarchici non possono fare altro che ricorrere all’invocazione ripetuta incessantemente, di alcuni passi del Manifesto Comunista od alla citazione di estratti di lettere private, così come, naturalmente, al richiamo delle manovre, ambigue e subdole, di Marx ed Engels, per far escludere Bakunin ed i suoi fedeli dall’Internazionale? Se è facile comporre un’antologia di scritti giacobini e blanquisti-babuvisti a partire dall’opera di Bakunin, una simile impresa si rivela impossibile se tesa alla dimostrazione del “comunismo di Stato” ipoteticamente esaltato da Marx.
La storia di Marx s’inscrive, da un capo all’altro, in un processo di militanza contro l’autorità. Lo Stato e la Chiesa di Prussia furono il principale ostacolo che il “dottore in filosofia” si trovò di fronte, ormai giunto alle soglie della professione di insegnante universitario: fu il primo insuccesso ma anche il primo stimolo a combattere contro l’autorità politica. Da allora la vita di Marx si confonde con una lotta politica condotta in tutti i luoghi d’esilio così come nel paese natale, dove egli poté tornare nel 1848, non come cittadino tedesco, ma come apolide. Ad eccezione dell’Inghilterra, luogo di relativa libertà, i paesi dove Marx ha soggiornato hanno sempre messo la polizia alle sue calcagna.
Godendo del diritto di libera espressione in Gran Bretagna, egli non si astenne mai dal praticare un giornalismo schiettamente anti-autoritario ed a cercare contatti nell’ambiente del cartismo, allora senza grandi prospettive politiche. A Colonia, a Parigi, a Bruxelles ed a Londra, egli militò secondo le sue convinzioni socio-politiche, non come un avventuriero che fomentava cospirazioni di nessun effetto contro l’ordine stabilito, ma a viso scoperto, là dove le libertà borghesi erano assicurate, e nella clandestinità, quando la borghesia doveva ancora fronteggiare le vestigia dell’assolutismo feudale. In breve, la sua lotta era sempre diretta contro i regimi reazionari e, dunque, autoritari.
Un insieme di principi non merita di chiamarsi “teoria”, se non sviluppa tesi empiricamente verificabili determinandone le norme di realizzazione in modo razionalmente formulabile. La teoria marxiana dell’anarchismo riunisce queste due caratteristiche: essa, da una parte, analizza i fenomeni storico-sociali nel loro sviluppo, col suffragio di testimonianze verificate e verificabili, dall’altra parte, formula pronostici relativamente credibili in funzione dei comportamenti umani e delle tendenze trasformatrici della realtà sociale.
Analitica e normativa, questa teoria non può eguagliare l’esattezza delle scienze naturali, anche se l’epistemologia moderna rimette in questione i presupposti deterministici delle scienze cosiddette esatte, assicurando in qualche modo il trionfo postumo di quel principio del “rischio”, chiave dell’atomismo epicureo (che fu il tema della tesi dello studente Marx, candidato al dottorato in filosofia). In opposizione alla maggioranza dei pensatori che si richiamano all’anarchismo o all’individualismo nichilista (Max Stirner!), scarsamente preoccupandosi, però, dei mezzi pratici che possono condurre a norme di comunità liberate da quelle istituzioni di classe che favoriscono, invece, lo sfruttamento e la dominazione dell’uomo sull’uomo, Marx ha cercato di conoscere i modi di trasformazione rivoluzionaria delle società nel passato, per dedurre da queste esperienze storiche, insegnamenti generali.
Quando egli affermava di aver assegnato alle sue ricerche l’obiettivo ambizioso di “rivelare la legge economica del movimento della società moderna”, aveva già, dietro sé, quasi tre decenni di studi in molteplici campi del sapere. Non è dunque come specialista dell’economia politica che egli si poneva, nella pretesa di rivaleggiare con Adam Smith o David Ricardo ed i loro epigoni. L’originalità del suo metodo doveva esercitarsi nell’analisi dei rapporti umani che sottendono i cosiddetti fenomeni economici, tanto nella loro espressione teorica che nella loro manifestazione pratica. Separare il critico dell’economia politica dal teorico della politica rivoluzionaria, vuol dire precludersi la comprensione del senso profondo della sua opera, ma anche misconoscere l’influenza drammaticamente costrittiva delle condizioni “borghesi”, più esattamente di quella “miseria borghese” che ha segnato tutta la sua carriera di paria intellettuale.
Abbiamo a disposizione molti indici per poter affermare che il Libro sullo Stato previsto nel piano dell’“Economia”, definito da Marx nella Prefazione alla Critica dell’economia politica (1859), doveva esporre anche una “Teoria dell’Anarchismo”. Quando, per commemorare il centenario della morte di Marx, un cronista si rammarica che l’economista abbia avuto la meglio sul teorico della politica, egli sembra proprio fondarsi su questo progetto che, però, a Marx non fu concesso di portare a compimento (10). Ora, l’autore della “Critica” afferma di disporre di “materiali” destinati a cinque “rubriche” o “Libri”; parla anche di “monografie” suscettibili di modificarsi, con l’aiuto delle circostanze, in scritti elaborati conformemente allo schema delle due triadi da cui facilmente emerge il rapporto con il metodo dialettico di un Hegel precedentemente “raddrizzato” (11). L’alone di leggenda che circonda l’opera di Marx ha finito per raggiungere un grado di mistificazione mai toccato, e bisogna necessariamente ammettere che “libertari” ed “anti-autoritari” hanno contribuito per una parte non trascurabile a questo, facendosi anche complici, spesso involontari, degli ideologi liberali e democratici arruolati al servizio degli interessi del capitalismo vero contro quel socialismo, falso, che si cela sotto il vessillo del demone totalitario.
Per la verità, è proprio “il politico” che attraversa da un capo all’altro l’intera opera di Marx, rimasta frammentaria per ragioni evidenti. Per ciò che riguarda la “monografia” menzionata fra i materiali parzialmente redatti come testo provvisorio del “Libro”, essa potrebbe essere ricostruita a partire da elementi sparsi ma numerosi, presenti in quasi tutti gli scritti, pubblicati e inediti, ormai accessibili, grazie alle edizioni e riedizioni di cui fu iniziatore Engels. Queste riedizioni si scaglionano, fin dalla sua scomparsa, per più di otto decenni, all’inizio dei quali la questione posta da Kautsky a Marx nell’aprile del 1881 sembra infine ricevere una risposta definitiva grazie all’impresa editoriale più recente, la “Marx-Engels-Gesamtausgabe” (12).
Si sa dunque ora che Marx non ha mai smesso di lavorare per la “rubrica” intitolata “lo Stato”. E’ infatti con una critica della morale politica di Hegel che egli ha cominciato la sua carriera di uomo di scienza “impegnato”, così come la ha terminata con un lavoro sulle prospettive rivoluzionarie nella Russia zarista. Soprattutto si sa che il primo progetto del “Libro sullo Stato” porta la data del 1845, quando Marx aveva appena scritto il primo abbozzo di una critica dell’economia politica. Trattare di un tema come “Marx teorico dell’anarchismo” senza sottoporre questo progetto al giudizio dei lettori e, più particolarmente, di quelli che non si stancano mai di accanirsi contro il “comunismo di Stato”, vuol dire privarsi di un argomento capitale. Ecco dunque gli undici temi scritti da Marx in un taccuino usato durante gli anni ’44-’47, non essendo possibile stabilire la loro data precisa:

I La storia della genesi dello Stato moderno o la Rivoluzione francese. La tracotanza del politico (des politischen Wesens): confusione con lo Stato antico. Rapporto dei rivoluzionari con la società borghese. Sdoppiamento di tutti gli individui in borghesi e cittadini (Bugerliche und Staatswesen).

II La proclamazione dei diritti dell’uomo e la costituzione dello Stato. La libertà individuale ed il potere pubblico. Libertà, eguaglianza ed unità. La sovranità popolare.

III Lo Stato e la società civile.

IV Lo Stato rappresentativo e la Carta. Lo Stato rappresentativo costituzionale, o lo Stato rappresentativo democratico.

V La separazione dei poteri. Potere legislativo e potere esecutivo.

VI Il potere legislativo ed i corpi legislativi. Clubs politici.

VII Il potere esecutivo. Centralizzazione e gerarchia. Centralizzazione e civilizzazione politica. Sistema federale e industrialismo. L’amministrazione pubblica e l’amministrazione comunale.

VIII Il potere giudiziario ed il diritto.

IX La nazionalità ed il popolo.

X I partiti politici.

XI Il diritto di voto, la lotta per l’abolizione (Aufhebung) dello Stato e della società borghese (13).

Marx si impegnò, nel febbraio del 1845, a cedere a un editore tedesco l’esclusività di un’opera in due volumi, che aveva per titolo Critica della politica e dell’economia politica (vedere prima). Si può dunque essere autorizzati ad affermare che lo schema precedente doveva servire all’autore, come quadro di riferimento per intraprendere i suoi studi. Molti dei temi enumerati erano stati già trattati negli scritti redatti da Marx prima dell’anno 1845, altri, invece, saranno oggetto dei suoi lavori durante tutta la sua attività di storico, di cronista politico e di polemista. “Il politico” sarà alla base dei suoi rapporti con gli anarchici affiliati alla Internazionale operaia.
All’elenco dei testi già menzionati, occorre aggiungere uno scritto polemico di una concisione e di una ironia tali che meriterebbe di essere citato per intero, in quanto documento conclusivo della teoria politica che si sviluppa da tutto l’insieme dell’opera marxiana e ne legittima la tensione strategica, finalizzata alla causa dell’anarchia.
Con un abile gioco di prestigio, Marx dà la parola a un difensore dell’“indifferentismo politico”, in modo che i discorsi citati, prima ancora di essere commentati, rivelano l’inanità del ragionamento sedicente anarchico. Basta modificare il carattere ironico del discorso fittizio, per giungere a ricostruire la concezione positiva del preteso “comunismo di Stato”:
“La classe operaia deve costituirsi in partito politico, essa deve intraprendere azioni politiche, a rischio anche di urtare gli “eterni principi” secondo i quali la lotta contro lo Stato significa il riconoscimento dello Stato. Essi devono organizzare scioperi, lottare per salari più elevati o impedire la loro riduzione, al rischio di riconoscere il sistema del salario e di rinnegare i principi eterni della liberazione della classe operaia”.
“Gli operai debbono unirsi nella loro lotta politica contro lo Stato borghese, per ottenere concessioni, a rischio di urtare principi eterni accettando compromessi. Non c’è motivo per condannare i movimenti pacifici degli operai inglesi e americani, così come le lotte dirette a ottenere un limite legale della giornata lavorativa, dunque tese a concludere compromessi con imprenditori che potranno sfruttare gli operai solo dieci o dodici ore, invece di quattordici o sedici. Essi devono sforzarsi di ottenere l’interdizione legale del lavoro in fabbrica delle ragazze che hanno meno di dieci anni, anche se, con questo mezzo, lo sfruttamento dei ragazzi al di sopra dei dieci anni non è affatto soppresso – dunque, nuovo compromesso che urta la purezza dei principi eterni!”.
“Gli operai debbono esigere che lo Stato – come accade nella Repubblica americana – sia obbligato ad accordare ai figli degli operai la scuola elementare gratuita, anche se l’insegnamento primario non è ancora l’istruzione universale. Il budget dello Stato essendo stabilito a spese della classe operaia, è normale che gli operai e le operaie imparino a leggere, a scrivere ed a far di calcolo grazie all’insegnamento di maestri remunerati dallo Stato, in scuole pubbliche, – poiché – è meglio negare i principi eterni che essere illetterati ed abbrutiti da un lavoro quotidiano di sedici ore”.
“Agli occhi degli “anti-autoritari”, i lavoratori commettono l’orribile crimine di violazione dei principi, se, per soddisfare i loro meschini e profani bisogni quotidiani e per rompere la resistenza della borghesia, conducono la lotta politica senza ritrovarsi davanti a mezzi violenti, mettendo al posto della dittatura della borghesia la loro propria dittatura rivoluzionaria” (14).
Marx non immagina affatto di indicare questa dittatura operaia come “comunismo di Stato”, nonostante egli impieghi una formula non sprovvista di una certa ambiguità, col dichiarare che il nuovo potere, “al posto di deporre le armi e di abolire lo Stato”, conserva in qualche modo la struttura di coercizione esistente “nel dare allo Stato una forma rivoluzionaria e transitoria”. Queste righe, scritte diciotto mesi dopo la sconfitta della Comune di Parigi, ci provano che, nella teoria politica di Marx, gli avvenimenti del 1871 in Francia non costituivano un’esperienza suscettibile di essere evocata per illustrare il concetto di “dittatura del proletariato”. Abbiamo segnalato, tuttavia, l’errore commesso da Engels a questo riguardo e anzi, consideriamo utile ricordarlo in questo post-scriptum – che è naturalmente lungi dall’esaurire il dibattito sul tema esaminato – con qualche passaggio di un nostro testo pubblicato nel 1971:
“Engels non poteva ignorare che, per Marx, la dittatura del proletariato era una fase di transizione “necessaria” – nel senso storico ed etico – fra il sistema capitalista e il modo di produzione socialista, ‘negazione’ del precedente. La teoria politica di Marx – che egli avrebbe indubbiamente sviluppato nel Libro sullo Stato previsto nel progetto dell’ ‘Economia’ – si basa sul principio dell’evoluzione progressiva dei modi di ‘produzione’, ciascuno dei quali crea, nel suo sviluppo, le condizioni materiali e morali del suo superamento da parte del successivo. A causa dei suoi propri antagonismi sociali, il capitalismo prepara il terreno economico e sociale del suo cambiamento rivoluzionario che non ha nulla di un fenomeno accidentale: affinché possa realizzarsi la dittatura del proletariato, le condizioni oggettive e soggettive devono aver raggiunto un livello di sviluppo che renda ogni ritorno indietro impossibile. In altri termini, il postulato della dittatura proletaria esclude l’eventualità di un insuccesso. Una dittatura, per meritare il nome di proletaria, deve raggiungere quel tipo di società di cui essa ha posto le condizioni iniziali. La sua esistenza non può essere dimostrata se non a posteriori. Di conseguenza, l’insuccesso della Comune prova che non vi fu dittatura del proletariato e che non poteva esserci” (15).
Accordando all’opera di Marx un posto eminente fra i contributi a una teoria dell’anarchismo, noi ci sforziamo di preservare l’eredità intellettuale dei pensatori rivoluzionari del XIX secolo. La nuova teoria nascerà da un movimento rivoluzionario su scala mondiale, senza il quale la “legge economica del movimento della società moderna” – che Marx affermava di aver rivelato – avrà la meglio sull’istinto di sopravvivenza e di conservazione della nostra specie. Laddove questa legge dipende dall’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico – che sembra tuttavia lontano dall’aver raggiunto il termine del suo sviluppo – l’imperativo categorico della rivoluzione proletaria s’inscrive in quell’etica dell’anarchia di cui Kropotkin ci ha lasciato i prolegomeni (16).

NOTE DELL’AUTORE
con integrazioni, fra parentesi quadre, del traduttore, nonché, quando possibile, sua segnalazione dell’edizione italiana delle opere citate nel testo.

1) Vedi Louis Janover e Maximilien Rubel, Materiali per un lessico di Marx – Stato, Anarchismo. Studi di marxologia, “Quaderni dell’I.S.M.E.A.”, n. 19-20, gennaio/febbraio 1978, pp. 11/161.

2) M. Rubel, La carta della Prima Internazionale. Saggio sul “marxismo” nella Associazione Internazionale dei lavoratori, in Marx critico del marxismo, Cappelli, Bologna 1981, pp. 67/68. Il Rapporto del Consiglio Centrale dell’A.I.T., redatto da Marx per il Congresso di Ginevra (1866), contiene, sotto il punto “Lavoro dei giovani e dei fanciulli – dei due sessi”, un paragrafo in cui è detto fra l’altro: “la parte più illuminata della classe operaia comprende benissimo che il suo avvenire come classe, e conseguentemente il futuro dell’umanità dipende dalla formazione della generazione che cresce. Sa che soprattutto i bimbi e i giovani lavoratori devono essere tenuti lontani dagli effetti distruttori del sistema presente. E ciò può essere realizzato soltanto attraverso la trasformazione della ragione sociale in forza sociale: e, nelle circostanze presenti, non possiamo fare ciò se non mediante leggi generali, che vengono attuate tramite il potere dello Stato. Facendo introdurre tali leggi, la classe operaia non accrescerà la forza del potere governativo. Come vi sono leggi per difendere i privilegi della proprietà, perchè non ne dovrebbero esistere per impedirne gli abusi? Al contrario tali leggi trasformerebbero il potere diretto contro di esse in loro proprio agente. La classe operaia allora, tramite una misura generale, farà quanto essa tenterebbe invano di compiere con un numero altissimo di sforzi individuali”. A.I.T. “Resoconto del Congresso di Ginevra”, pubblicato nel “Corriere internazionale”, Londra 1867; cfr. G. M. Bravo, La Prima Internazionale, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 176. Votando a grande maggioranza questo rapporto, i delegati, indubbiamente, non si sono accorti di aderire alla teoria del “comunismo di Stato”, costruito più tardi dall’ostinata propaganda di Bakunin e dei suoi amici.

3) Cfr. K.Marx, La guerra civile in Francia, in K. Marx, Scritti sulla Comune di Parigi, a cura di Paolo Flores d’Arcais, La Nuova Sinistra / Samonà e Savelli, Roma 1971, p. 53.

4) Ci asteniamo qui dal produrre un florilegio di asserzioni razziste e germanofobe che la figura di Marx ha ispirato a Bakunin. Si possono trovare, fedelmente riportate ma scarsamente commentate, negli Archivi Bakunin, Vol.I, Michail Bakunin e l’Italia 1871-1872, 2^ parte: “La prima Internazionale in Italia e il conflitto con Marx”, Leiden 1963. La prevenzione “antiautoritaria” dell’editore, A. Lehning, non favorisce un giudizio equilibrato e chiarificatore sul fondamento teorico d’un conflitto il cui studio dovrà essere ripreso fin dall’inizio, stante la confusione degli epigoni di entrambi i campi, “marxista” e “antimarxista”.

5) M.Bakunin, Rapporti personali con Marx. Documenti probanti n. 2, op. cit., pp. 124 e segg. “Ciò può sembrare strano. … Ah! E’ che il comunismo di Marx vuole la potente centralizzazione dello Stato, e là dove c’e centralizzazione dello Stato deve esserci necessariamente una Banca centrale dello Stato, e là dove esiste una simile Banca, la natura parassita degli Ebrei, speculando sul lavoro del popolo, troverà sempre modo di esistere” (ibid. p. 125).

6) Vedi la Lettera agli internazionalisti della Romagna, del 23-1-1972, Archivi Bakunin, Vol.I, 1963, op. cit. pp. 207/228. Bakunin qui fa il suo mea culpa per aver contribuito ad allargare i poteri del Consiglio generale dell’A.I.T. durante il Congresso di Bale (1869) e aver rafforzato in tal modo l’autorità della “setta marxista”.

7) Michail Bakunin, Lettera ad Albert Richard, 1° aprile 1870, Archivi …, op.cit., p.XXXVI e segg. A.Lehning riassume, nella sua introduzione, le attività di Bakunin che tendono a “dare alle masse una direzione veramente rivoluzionaria”, moltiplicando le organizzazioni segrete.

8) M.Bakunin, Lettera a Celso Ceretti, del 13-27 marzo 1872, Archivi Bakunin, op.cit., pp.251 e segg.

9) M.Bakunin, Lettera agli internazionalisti della Romagna, cit., p. 220. Prima di usare l’espressione “marxista” per designare gli amici di Marx, Bakunin parlava di “marxiani” e di “nucleo marxiano”.

10) Cfr. Jacques Jullard, Marx morto e vivo, in “Le nouvel Observateur”, 25-31 marzo 1983, p. 60: Marx avrebbe “trascurato la teoria politica” a vantaggio di una “teoria dello sfruttamento economico [ … ] per nostra sfortuna”.

11) K.Marx, Opere, Pléiade-Gallimard, Tomo I.

12) Questa edizione è dovuta all’iniziativa congiunta degli Istituti del Marxismo-leninismo di Mosca e di Berlino (RDA). Una quindicina di volumi – su un totale calcolato di più di cento – sono stati editi dal 1975.

13) Cfr. Marx-Engels, Werke, Berlino (RDA), vol. III, p. 537. I punti da VIII a XI sono indicati con 8′, 8″, 9′ e 9″.

14) Cfr. K.Marx, L’indifferenza in materia politica, pubblicato su l’“Almanacco Repubblicano”, 1873, in Karl Marx e Friedrich Engels, Critica dell’anarchismo, a cura di Giorgio Bakhaus, Einaudi, Torino 1972, pp. 300 e segg. [N.d.r.: Rubel ricorre qui a un classico detournement sul testo marxiano, peraltro dichiarandolo apertamente].

15) Introduzione a Jules Andrieu, Note per la storia della Comune di Parigi nel 1871, Parigi, Payot, 1971, edizione curata da M. Rubel e L. Janover. Il volume sarà ripresentato dall’editore di “Spartacus”, Rene Lefeuvre.

16) Pierre Kropotkin, L’Etica, traduzione dal russo con un’introduzione di Maria Goldsmith, Stock+Plus, Parigi 1979. A un secondo volume è affidato il testo inedito di una bozza di cui la traduttrice riassume il filo di pensiero direttivo, pp. 8 e segg.

E’ utile segnalare uno studio italiano, in cui le tesi qui presentate ricevono chiarimenti complementari: Bruno Bongiovanni, L’Universale pregiudizio. Le interpretazioni della critica marxiana della politica, La Salamandra, Milano 1981. Va qui chiarito che Rubel definisce questo suo articolo come “post- scriptum”, in quanto proprio come tale esso è stato pubblicato, alla fine del 1983, su “Les cahiers du vent de chemin”, rivista di tendenza marxista-libertaria, rappresentando un logico completamento di un più corposo saggio che l’autore diede alle stampe molti anni fa, con il titolo di Marx teorico dell’anarchismo, all’interno di una ricca antologia di suoi brani, pubblicata a Parigi nel 1974, con il titolo di Marx critico del Marxismo. Si noti, nel merito, che la traduzione italiana di tale opera di Rubel ha visto la luce soltanto nel 1981, per i tipi della Cappelli, e rappresenta a tutt’oggi (per quanto risulta a chi scrive) l’unico scritto rubeliano comparso nel nostro paese, oltre a un secondo articolo, Tesi su Marx oggi, stampato su “Quaderni del NO“ n.2, nella primavera del 1986, e a un breve contributo, Riflessioni sull’utopia e sulla rivoluzione, comparso nel volume collettaneo, curato da Erich Fromm, L’umanesimo socialista, pubblicato dalla Rizzoli, nel 1975.