di Salvatore Agresta

[Psicoterapeuta, studioso delle avanguardie neuroscientifiche, autore di testi specialistici e articoli in rivista, Salvatore Agresta si occupa da anni di letteratura. Pubblichiamo il suo intervento a proposito del memorandum New Italian Epic, che allarga i confini del saggio a un’altra disciplina fondamentale, qual è la psicoanalisi, come già accaduto nel caso del terapeuta e scrittore Alessandro Defilippi]

Di mestiere faccio lo psicoterapeuta, il mio sguardo ha quindi questo grado d’obliquità.
Per me, letteratura e psicoterapia sono intersecate. Anticipo le conclusioni: il NIE in letteratura è curativo, le coppie “terapeuta/paziente” e “lettore/scrittore” fanno una medesima operazione su se stessi in modi e forme diversi e convergenti. Così io spero in una nuova epica della psicologia applicata. Epica che c’era in origine: Charcot, Breuer, Freud e i loro pazienti sono stati ciascuno a suo modo dei pionieri. Oggi noi epigoni rischiamo di essere tecnocrati della psiche, specialisti “di genere” senza più sguardo d’insieme. Come in medicina, la storia si ripete.

Sempre che non intervenga un nuovo disvelamento, uno sguardo lucido (non ludico, non basta più). Uno sguardo che con serietà rinunci all’illusione così da non esporsi più alla delusione. Uno sguardo obliquo che sappia concepire l’ineluttabile morte del Sole, che sappia distanziarsi da sé per meglio guardare. Uno sguardo che sia azione, che sappia muovere guerra a se stesso.

Veniamo al NIE, al saggio di WM1.
Echi, rimandi, somiglianze. Un comune vibrare. Il NIE è un coito creativo collettivo, un atto liberatorio che non poteva che accadere qui-ed-ora in Italia, in questo Stato appena-NATO sulle direttive del Piano Marshall. Accade in Italia perché in questo laboratorio sperimentale a cielo aperto i conflitti sociali sono apparentemente frammentati ma di fatto telecomandati: spy-story all’amatriciana, squadre compassate di ladri di polli con grembiulino, leaders in love, tonache e toghe, pulpiti scranni e cattedre, ognuno Direttore di qualcosa tranne che di sé. Il collante è l’inerzia collettiva tra un girotondo e un panino: pochi sussulti soffocati, pesto alla genovese. Italia: tracotanza e ristrettezza di vedute. Assenza di serietà. Mai visto qualcuno assumersi le proprie responsabilità, recedere, “buttare lì qualcosa e andare via” (riascoltiamolo oggi il Gaber ’74/’75). Di male in peggio: morti o morituri i leaders, restano pallidi epigoni davvero insulsi. Fallimento del maschio, già il termine “fallo” contiene la sua tragedia. Potere impotente e riemersione dell’eterno femminino, Italia maternocentrica e paternofobica. Parole tabù: sacrificio, impegno, studio, serietà, responsabilità. Tutto ciò risulta “pesante”, “lungo”, “faticoso”. Ma la letteratura, davvero, è sacrificio (come la psicoterapia: quanto mi dura? Quanto mi costa?). Poi, soltanto poi, la gioia. Allora meglio il cinema, no? (ma attenti, anche quello può essere “lento”).
Nella mia esperienza diretta – ché solo quella conta: “archivio e strada coincidono” – rilevo però una categoria di persone che lotta in controtendenza: sono i pazienti miei e dei miei colleghi (ed io, noi stessi con loro). Costoro si assumono la responsabilità, seriamente. Pagano il loro prezzo. Durano. Buttano lì i loro “Unidentified Narrative Objects” e vanno via, poi tornano e riacciuffano trama e ordito. Scuola di cucito.

La parola che cura, quando cura, è sempre prosa poetica. Ma la parola che cura deve anche operare una “sovversione nascosta”, una paziente, costante scarnificazione di ciò che noi chiamiamo “mente” senza sapere di cosa stiamo parlando. Lentamente, dosando il dolore. Senza anestesia. Sono feritoie, istanti, riflessi. Ma bastano. I pazienti che fanno psicoterapia, anche i più gravi, a un certo punto iniziano a “leggere”. Non intendo solo libri (sebbene spesso ciò accada alla lettera): leggono le proprie storie che narrano in un linguaggio “complesso e popolare”, leggiamo insieme senza interpretazioni prefabbricate, inseguiamo stupori, diamo parola. La psicoterapia è pop, o è altro e allora è soltanto suggestione, operazione commerciale, psicometria, controllo psichiatrico. Ma i pazienti sono tali nel vero senso del “patire”, altro che clienti (nell’antica Roma, cliens era lo schiavo che poteva comprare la libertà, rimanendo però sempre legato da un rapporto di dipendenza a un patrono). I pazienti vedono e credono agli UNO, moltiplicano i punti di vista obliqui, li spostano, fanno parlare gli oggetti che animano nei sogni, guardano il loro proprio sguardo. E questa visione li cura, ci cura.

La parola cura quando fa contatto tra la dimensione personale e quella collettiva, entrambe epiche. I conflitti intrapsichici hanno dimensioni mitologiche, sono ombre corte di demoni meridiani archetipici: le “grandi C” di conflitto, collasso, catastrofe, crisi, parole che in psicoterapia preludono alla trasformazione che è sempre distruzione continua (cambiamento catastrofico lo chiama Bion). L’estate sta finendo, il Sole sta morendo. Nostro malgrado. Bisogna saperlo vedere, con sguardo obliquo, serio, ma non più terrorizzato. Uno sguardo pacificato.

Il NIE “esorbita” dopo l’11 settembre. Accade ciò che è già accaduto, da sempre. Ciò di cui ogni nostra cellula conserva memoria, l’apoptosi, il suicidio cellulare programmato che informa e dà forma. L’abbraccio, il legame (lēgere), la stretta mortale (“voglio stringerti e soffocarti di baci — dicono gli amanti -, voglio mangiarti“). Oggi come ieri. Da sempre e per sempre. Ab aeterno.
Il NIE accade in Italia, nel Paese appena-NATO dove le immagini sono già date: fredde immagini preconfezionate con cui si conducono esperimenti psicosociali, l’illusione di una scelta multipla che è in realtà l’antico gioco degli specchi deformanti. Questo avviene ovunque tranne che in letteratura: lì le immagini si concreano, lì si lavora, lì si suda e infine si gode. Si gode perché si crea, si costruisce insieme. Producendo immaginario su immaginario, il lettore si affianca allo scrittore in un’inesausta passione mitopoietica che prima che culturale è politica. La letteratura è gabinetto alchemico la cui riduzione a gabinetto tout court è fallita perché ogni esperimento sociale ha la sue falle. Il “potere maieutico e telepatico della parola” sa far parlare anche le pietre, sa ascoltarle. La parola agisce sulla materia, e cura: le sinapsi si ricostruiscono dai margini, s’intersecano in ramificazioni inconsuete, si sovraccaricano. Cuciture invisibili.
La parola cura quando rintraccia un preciso allegoritmo, qui ed ora tra terapeuta e paziente (tra scrittore e lettore), un sentiero sconosciuto da percorrere in due, un’iniziazione. Allora, la paura paralizzante di un crollo a venire svanisce, perché in realtà il crollo è già avvenuto (Winnicott). Passato-presente-futuro sono costruzione linguistica e illusione percettiva. La parola cura quando assedia e sfonda il limite dell’umano, ne assalta le mura di cartapesta disvelando la truffa del mentale.

“Tutte le narrazioni sono allegorie del presente”: ciò vale tanto in letteratura che in psicoterapia. Qui, sul piano individuale (che è sempre anche collettivo, a cerchi concentrici) ciò che cura è il disvelamento (parziale, mai completo) dell’allegoria metastorica, ma un disvelamento che non può mai venire da un altro, un disvelamento che deve avvenire nella più profonda solitudine, così come solo è lo scrittore, così il lettore, e allo stesso modo il terapeuta, e il paziente. Quattro solitudini che si intersecano, all’infinito, e nel reticolo incrociato si toccano ai bordi. Si toccano nell’interiorità individuale, si toccano nella relazione. Qualcosa di simile la si trova nei processi di infinitizzazione studiati da Matte Blanco, nello scandaglio dei livelli profondi del nostro essere emozionale: più si va al fondo limaccioso e più l’esperienza individuale si scioglie nel collettivo.

L’umano è UNO.
L’infinito è UNO.
Il Sole deve morire.
Pace.