A_regola_e_positivomini.jpgdi Enzo Fileno Carabba
[Illustrazione di Liza Schiavi – cliccare per ingrandire]
frecciabr.gif Tutte le puntate di DISCESE ESTREME

18. A regola e positivo

E’ difficile spiegare, senza eccessi e senza retorica, in cosa consiste avere dei poteri a qualcuno che non ce li ha.
E’ un po’ come discutere con quegli scrittori che sostengono che l’Ispirazione non esiste e che è tutto duro lavoro. Sono sinceri: per loro l’Ispirazione non esiste, nel senso che non ce l’hanno. Ma chiunque nella sua vita ha visto la Madonna sa benissimo di cosa parlo.

In ogni caso, un punto è bene chiarirlo. Non sempre lo shining ti soccorre, non è un tuo dipendente. Anzi, diciamo la verità, non ti soccorre mai. I rozzi che pensano che le visioni ti diano il numero del lotto ignorano la natura stessa delle visioni: penso si tratti di squarci casuali da cui filtra una luce che ti fa vedere le cose in modo diverso: ci vuole una fortuna sfacciata perché lo squarcio illumini proprio i numeri del lotto o il volto della Madonna.

Una volta ero in Marocco, sui vent’anni. Ero solo, perché gli amici con cui ero partito se ne erano andati. In Marocco questi miei amici avevano paura di tutto, a cominciare dai serpenti. In treno avevamo incontrati un signore molto colto e garbato che ci parlava della cultura marocchina. Al che una ragazza del nostro gruppetto lo aveva interrotto dicendo:
Sì sì, ma i serpenti? In Marocco ci sono i serpenti.
Come dire, veniamo al sodo.
Il signore con grande eleganza aveva risposto senza scomporsi: il mese scorso sono stato in Italia e ho visto una vipera.
Inoltre i miei amici urlavano contro i bambini che chiedevano soldi. Perché quei bambini (che effettivamente rompevano) vedevano in noi dei ricchi, nonostante la nostra aria derelitta. E forse proprio per questo i miei amici urlavano, non riuscivano a sopportarlo. E allora avevamo fissato di ritrovarci in Portogallo. Ma proprio la sera prima della mia partenza trovo questa ragazza bellissima, danese, mi sembra. Parlavamo in inglese.
Non partire, mi disse con gli occhi luccicanti. Stanotte staremo insieme sul tetto.
La prospettiva di trascorrere la notte sul tetto con lei mi riempiva di gioia, anche se non capivo bene perché proprio sul tetto. Ma non era il caso di cavillare.
Stanotte è la grande notte sacra del montone, mi spiegò. Sgozzano montoni in tutto il Marocco, e a accendono fuochi. Noi staremo insieme sul tetto – insisteva – e guarderemo i fuochi, mentre il sangue dei montoni scorre lungo le strade.
Oggi, se una splendida, luminosa ragazza, mi proponesse di passare la notte sacra con lei su un tetto, guardando fiumi di sangue che scorrono nel bagliore dei fuochi, la giudicherei una squilibrata o peggio una fanatica religiosa (i tempi si sono fatti oscuri) e ripiegherei con cautela.
Ma allora ero diverso. Ma sì, le dissi, i miei amici li incontrerò un’altra volta, io resto con te, cara.
Tra parentesi, il mio fascino animale doveva essere davvero portentoso, perché ci eravamo appena conosciuti e già lei mi collegava indissolubilmente alla sacra notte del montone. In fondo al cuore non me ne stupii.

Mi ritirai nella mia lurida camera e poi verso sera salii sul tetto, come stabilito. La ragazza mi aveva anche spiegato – sempre in inglese – che il padrone della pensione ci avrebbe portato un pezzo di montone da cuocere sul fuoco. Mi piaceva molto questa idea. Io e lei sul tetto, con un montone che cuoce. Ero solo un po’ preoccupato che lei si accorgesse che non ero un drago nella cottura dei montoni. Magari avrebbe pensato a tutto lei, spiedi e fiammiferi.
La visione della distesa dei tetti chiari nella sera fu in effetti incantevole, ma quale non fu la mia sorpresa quando vidi che la mia bella era accompagnata da due energumeni alti il doppio di me, a cui lei dedicava tutte le sue attenzioni. In effetti aveva l’aria di trascurarmi. Sembrava conoscermi appena, come in effetti era, ma questo contrastava con le parole ardite di poche ore prima, e anche con il suo sguardo acceso.
Perché mi aveva pregato di restare?
Forse era colpa del mio inglese. Forse lei mi aveva detto: “perché non te ne parti sgorbio? Così io me resto coi miei due montoni sul tetto?” Qualcosa così.
Ma oramai non potevo più partire. Mi consolai dicendo che avrei conosciuto la celeberrima notte del montone. Un evento culturalmente molto più interessante di un semplice amplesso con una ragazza danese, amplesso che avrei potuto realizzare in futuro, sia pure non su un tetto.
Fatto sta che aspettai aspettai ma nessun fuoco si accese nella notte. Fiumi di sangue nelle strade neanche l’ombra, o forse non li vidi perché era buio, per mancanza di fuochi.
Il bello è che non c’era un fuoco neppure sul nostro tetto, e nessun padrone della topaia aveva portato un pezzo di montone.
Giunsi a temere che volessero sgozzare me.
Gli energumeni tirarono fuori delle scatolette tipo simmental e me le offrirono, una cosa davvero disgustosa. Lavarono poi i piatti nello stesso secchio usato per il cesso.
A essere sinceri furono gentili, e non erano affatto degli energumeni, e poi non mi sgozzarono, ma le cose tra me e la ragazza non andarono come mi ero immaginato io all’inizio e questo bastò a mettere quel diabolico terzetto in cattiva luce, per l’eternità, ai miei occhi.

Un’altra volta che la Voce NON venne in mio soccorso (perché tale è la sua natura e il suo mistero) ero ragazzino, in Inghilterra, ospite di una famiglia, quella volta che poi feci conoscenza con il maniaco inglese in cima alla scogliera.
In occasione di un pranzo dissi alla famiglia che mi ospitava: l’unica cosa che non mi piace è il fegato.
Glielo dissi in inglese, chiaramente. (Gli avevo anche raccontato che avevo trovato cento monete in un prato ripido, ma non ero riuscito a spiegarmi… è anche che mi capitano cose così bizzarre che fatico a spiegarle perfino in italiano!).
In generale, non è che mi rimpinzassero di cibo, e la notte mi svegliavo per rubare il formaggio dal frigorifero (un formaggio delizioso, denso, compatto, che non ho più ritrovato se non in certi sogni di primo mattino). Però qualche giorno dopo a tavola mi presentarono una enorme zuppiera dicendo fieri, con un gran sorriso:
Ecco il tuo piatto preferito.
La zuppiera era piena di un liquido nero in cui galleggiavano grossi pezzi di fegatoni, fegatini, insomma: tutte le forme del fegato.
Loro avevano altre cose nel piatto. Io non avevo neanche il piatto. Solo la zuppiera: capivo era tutta per me.
Ancora una volta il mio inglese mi aveva tradito. Tra l’altro, cosa inconsueta, la famiglia che mi ospitava era sobria, quel giorno, per cui se non mangiavo lo notavano. Decisi che dovevo mangiare la cosa che stava nella zuppiera (non trovo neanche un nome). Era una questione di rispetto, e un uomo si vede dal rispetto che coltiva.
Perché poi, a parte che mi davano poco da mangiare e erano sempre ubriachi (anche i due bambini!) si trattava di gente rispettabile.
Dopo pochi minuti di cucchiaiate eroiche mi fu chiaro che non avrei mai prosciugato l’oceano nero che si agitava nella zuppiera, con i suoi orridi iceberg, neri anche loro, e mollicci.
Allora, come colto da un pensiero improvviso, alzai la testa e dissi:
Accidenti, devo proprio telefonare ai miei genitori, me ne ero dimenticato. Ma non posso separarmi da questa bontà.
Mi alzai da tavola, agguantai la zuppiera e me ne andai.
Bisogna considerare che la casa aveva due piani: angusti, ma due. E io stavo al secondo piano. Giunto in camera rovesciai la zuppiera nel cesso. Dopo un po’ tornai giù sostenendo che – essendo così buona – avevo divorato l’entità mentre telefonavo.
Non posso dimenticare la faccia allibita dei miei ospiti.
Sicuramente raccontano ancora l’episodio, come esempio di maleducazione italiana, mentre non era altro che un problema linguistico.
Ora che ci penso, chissà cosa dissi al maniaco inglese della scogliera, senza volerlo. Magari non era neanche un maniaco e la giusta traduzione delle mie frasi era:
E ora mettimi la mano sulla coscia, o ti denuncio.
Così il poveretto fu costretto a obbedire. E ancora oggi racconta l’episodio dicendo: l’ho scampata bella, con quel giovane maniaco italiano!

A volte racconto episodi che possono risultare buffi e allora nessuno pensa che abbiano a che vedere con la verità.
Credo invece che alcuni episodi divertenti contengano la verità: è per questo che sono divertenti. Ma si tratta di una verità sottile, che non sta mai ferma: solo una verità sottile e che non sta mai ferma può fare andare avanti il mondo.
Viene un momento, nella vita di una persona, in cui certi avvenimenti assumono un aspetto nuovo. Magari quella volta che sei stato lasciato dalla fidanzata (evento drammatico e in qualche modo potente, all’epoca) scivola in secondo piano, si affievolisce, perde energia. E viceversa, l’incontro casuale col tuo professore, un mattino che avevi saltato la scuola, balza alla tua attenzione con una misteriosa evidenza.
Sicuramente c’è una rete di forze che collega gli avvenimenti, e ogni tanto nei momenti di grazia riesci a vedere alcuni collegamenti.
Per esempio, una verità decisiva mi era stata rivelata da molto tempo. Solo che non me la ricordavo.

Ero bambino. A casa dei nonni aveva fatto il suo corso uno di quei litigi che liberavano le energie psichiche della famiglia in un immane baraonda, ormai le onde invisibili si erano dissolte e il sole era tornato a splendere sulle anime placate.
Bè… più o meno placate: diciamo spossate, ma ancora elettriche. Anche se ero bambino, e quindi un po’ in disparte, mai al centro dei terremoti e dei rappacificamenti, questa sensazione la percepivo chiaramente. Una cosa molto piacevole. Come quando nuoti in mare subito dopo una tempesta, e il mare sembra gassato.
Mio zio Manin caricando solennemente la pipa dichiarò che era pervenuto a una conclusione importante.
Sul tavolino da gioco verde davanti a lui era appoggiata una guida del Touring, rossa. Una cosa che mi piaceva di mio zio erano le guide rosse del Touring, nelle sue mani acquisivano una fascino particolare, solido e promettente. Ora che sono adulto la loro magia permane invariata, l’unica cosa che ho imparato in più è che se le apri e provi a leggerle la magia scompare, vinta dalla noia.

Succede nelle migliori famiglie, disse mia nonna Letizia, riferendosi al litigio. “Succede nelle migliori famiglie” era una delle sue frasi preferite. E io mi chiedevo se noi eravamo una delle migliori famiglie o se quell’ “anche” ci escludeva.

Un dente mi dondolava, lo muovevo con la lingua. Mi piaceva il sapore del sangue, in modica quantità.

Mio zio rivelò alla famiglia riunita che dopo anni di studio era giunto alla conclusione che in alcune espressioni del linguaggio fiorentino si trova la sintesi della storia del pensiero umano.
Ricordo il profumo della pipa, mentre Manin spiegava. La pipa è un po’ come le guide del Touring, se la fumi fa schifo, ma il profumo è buonissimo, quando sarò ricco pagherò delle persone perché fumino per me. Riporto in corsivo – riducendola – la spiegazione.

“Passerà l’autobus entro i prossimi tre giorni?” domanda uno.
“A regola” risponde l’altro.
Oppure: “Hai appetito dopo venti ore di digiuno?”
“Positivo!”.
Queste due espressioni sono due modi diversi di dire sì. Non necessariamente sono una risposte a una domanda, per esempio si può anche dire:
“A regola l’è più grullo di quello che pensavo”, oppure “Positivo che questa volta Robertino gli ha perso il capo”.
Certo non si tratta di espressioni di estrema ricercatezza, e anzi i più le considerano rozze. Ma è un errore, dato che corrispondono a un pensiero raffinato. “Positivo” esprime una certezza oggettiva (da qui anche, forse, “positivismo”). Corrisponde a una posizione antica, il cosiddetto pensiero forte. Può addirittura implicare una forma di fede. In ogni caso non lascia spazio a discussioni o interpretazioni. E’ LA risposta.
Se venisse eletto al soglio pontificio un papa toscano, potrebbe dire, col tipico tono da mercato ortofrutticolo: “positivo che…”, segue dogma.
Con “a regola” invece siamo nel regno del dovrebbe essere. Si presume che una certa cosa avverrà, ma non è assolutamente certo. Avverrà SE le cose andranno come vanno di solito. Alcuni usano “a regola” alludendo a una regola eterna e si ricollegano quindi a “positivo”. Ma si tratta di una minoranza. Per lo più “a regola” rimanda al pensiero debole. Pone un lieve dubbio. Infatti ogni regola per natura prevede l’esistenza di un’eccezione. Gadamer, il grande filosofo dell’interpretazione, senza saperlo non ha fatto altro che ragionare su questi concetti e il suo saggio più famoso andrebbe ribattezzato “Verità e metodo, a regola”.

Questo disse lo zio. La sua distinzione, tra a regola e positivo, entrò nella mia testa quel pomeriggio in cui mi dondolava il dente, senza che me ne accorgessi, e ha accompagnato la mia vita. Quando ero bambino, e poi ragazzo, mi sembrava che attorno a me trionfasse a regola. Mentre oggi mi accorgo, non senza un vago allarme, che non so come ha tronfiato positivo.
Comunque, poco tempo fa mio zio mi ha aggiornato sul suo lavoro, che certo in questi anni non si è interrotto.
C’è una terza espressione, tratta dal linguaggio fiorentino, che costituisce l’approdo finale del pensiero umano.
“So una sega io”.
All’individuo limitato parrà un’espressione volgare. Ma non è un a un tale tipo di individuo che mi rivolgo, e soprattutto non è a un tale tipo che si rivolge mio zio quando riflette sull’approdo finale.