defilippi_big.jpgdi Alessandro Defilippi

[Psicoanalista e romanziere, Alessandro Defilippi è intervenuto su “Carmilla” all’interno del dibattito sul New Italian Epic, mostrando come le categorie del NIE siano anche extraletterarie.]

Il lungo brano di John E. Gedo pubblicato su Carmilla nel 2004 indica, all’interno del movimento psicoanalitico, la presenza di due fondamentali orientamenti: il primo è quello di “coloro che indicano come centrale il bisogno di empirismo”; il secondo di “coloro che invece seguono un percorso prevalentemente razionale. Il primo gruppo concepisce la psicoanalisi come una branca delle scienze naturali; gli autori del secondo, viceversa, ripudiano in modo esplicito tale appartenenza, oppure si limitano a riconoscerla in modo superficiale, dando comunque priorità all’approfondimento di qualche dottrina filosofica”.

Un analista junghiano come me fatica a riconoscersi in uno di questi ambiti. Questo è dovuto probabilmente alla singolarità dell’opera di Jung, che si è sempre presentato come un empirista ma che d’altro canto ha fatto ampio uso di teorie filosofiche (Schopenauer ad esempio) nella costruzione della sua teoria. Semplificando in modo estremo e del tutto arbitrario potremmo dire che ciò che distingue profondamente la psicologia analitica junghiana dalla (o dalle) psicoanalisi è l’inesausta ricerca dell’ulteriore. Scrive, Jung, in Ricordi, sogni, riflessioni:

“E’ importante avere un segreto, una premonizione di cose sconosciute. Riempie la vita di un qualcosa di impersonale, di un numinosum. Chi non ha mai fatto questa esperienza ha perduto qualcosa d’importante. L’uomo deve sentire che vive in un mondo che per certi aspetti è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili, e non solo nell’ambito di ciò che ci si attende. L’inatteso e l’inaudito appartengono a questo mondo, solo allora la vita è completa. Per me fin dal principio, il mondo è stato infinito e inafferrabile” (1).

La presenza del mistero implica, nella riflessione junghiana, l’accettazione della categoria del sacro come portatore di senso. Il sacro, in quanto “separato” come dice l’etimologia del termine, diventa sinonimo di inconscio e immagine del Sé, ossia di quella totalità psichica cui l’Io, senza mai raggiungerla, tende e in cui taluno ha voluto riconoscere una sorta di Dio interno. Allo stesso modo implica una teleologia, una ricerca di un fine che caratterizza la psicologia junghiana rispetto al determinismo freudiano e postfreudiano.
L’uomo junghiano quindi accetta di vivere in un universo non antropocentrico, nel quale il mistero è ciò di fronte a cui si può soltanto stare, reggere, accettare. Kerényi afferma:

“Un problema si deve risolvere e, una volta risolto, scompare. Il mistero invece deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita” (2).

Il riconoscimento del mistero fa sì che spesso l’analista junghiano sia lontano dal furor sanandi, dall’onnipotenza cioè rispetto alle sue capacità di aiutare il paziente. Più umilmente la sua funzione sarà al tempo stesso quella di un catalizzatore e di un testimone. Sarà pertanto il catalizzatore che con la sua presenza empatica attiva il processo individuativo, la trasformazione, che solo il paziente può condurre avanti; e sarà il testimone della sofferenza e della riappropriazione emotiva di sé (3), tramite la propria narrazione, da parte di quello stesso paziente.
Questo duplice atteggiamento apre il possibile riconoscimento della psicologia analitica, al di fuori della forchetta scienze naturali-filosofia, come di un artigianato dell’anima.
Il punto fondamentale non è tanto l’interpretazione o il transfert, ai quali va comunque riconosciuta la giusta importanza, quanto l’ascolto e la presenza. Questo appare tanto più importante nel mondo odierno. L’accelerazione e la sovrastimolazione, associate alla capillarità delle informazioni da cui siamo quotidianamente bombardati, rendono oggi molto difficile, se non impossibile, un percorso analitico classico. Chi ha oggi il tempo, la cultura, le possibilità economiche per sottoporsi a tre, quattro, cinque sedute alla settimana per alcuni anni? Chi ne sente il bisogno? Rinunciando allo snobismo intellettuale di tanta psicoanalisi diventa necessario essere in grado di interpretare il mondo contemporaneo, preparando strumenti duttili e sincretistici, accettando cioè di essere, per il paziente, un compagno di viaggio e non un maestro. Questo sul piano pratico implica conseguenze di forte peso. Ma a tali conseguenze vale la pena di dedicare un discorso più specifico.

NOTE

1 JUNG, Carl Gustav (a cura di Aniela Jaffè: Erinnerungen, träume, gedanken von C.G. Jung, 1961; ed. Italiana: Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, Milano, 1978, pag. 416;
2 KERÉNYI, Károly: Labyrinth-Studien, 1941; ed. italiana: Studi sul labirinto, in: Nel labirinto, Bollati Boringhieri, Torino, 1983, pag. 31
3 ROMANO, Augusto: comunicazione personale