diaz_mammano.jpgdi Simona Mammano

“Voi andate, io torno domani, devo portare un fiore sulla tomba della figlia della vicina di casa, che è morta dieci anni fa. Dormo in stazione poi vado al cimitero e parto subito dopo. Non preoccupatevi per me”.
Genova. Sono le sette di sera del 21 luglio 2001, Arnaldo ha deciso di non tornare a casa con i compagni con cui è arrivato la mattina dal Veneto per partecipare alla manifestazione del Genoa Social Forum contro il G8. La corriera parte. Arnaldo no. Deve rispettare un impegno. Ha 62 anni, è un uomo allegro, ironico e curioso e, nonostante abbia solo la quinta elementare, è informato su tutto. Crede che ognuno debba farsi carico di cambiare la società, per migliorarla.
I suoi compagni non sono contenti di lasciarlo lì, ma sanno che le sue decisioni sono irrevocabili.

È stanco, la giornata è stata lunga e faticosa, cerca un posto dove trascorrere la notte, forse la stazione. Ripensa al corteo cui ha partecipato, partito alle due del pomeriggio da una piazza, lungo una strada che porta in direzione del mare. I giovani ridevano, cantavano, ballavano e il cuore di Arnaldo è gonfio di felicità e fiducia in questa nuova generazione. Loro sì che riusciranno a trasformare questo Paese.
Improvvisamente il festante corteo si spezza. S’introducono ragazzi vestiti di nero che incendiano macchine, sfasciano vetrine tra le grida impaurite dei manifestanti. Divelgono un palo e lo utilizzano per incrinare il vetro di una banca, un sasso vola sul tavolo di un McDonald’s, viene dato fuoco ai bidoni della spazzatura. È il caos. La polizia attacca e il corteo si disperde.
Arnaldo scuote la testa per cacciare quei pensieri, ora deve trovare la stazione e lì aspetterà che si faccia giorno.
Per strada una signora lo nota, vede che sta cercando di orientarsi e gli indica una scuola attrezzata per ricevere i manifestanti durante la notte nella strada accanto.
“Forse lì è più sicuro”, dice la donna. Arnaldo ringrazia e si avvia.
Gli edifici sono due, alcune persone che stanno fumando nel cortile gli indicano un posto dove può sistemarsi, nella grande palestra.
È piena di ragazzi di tutte le nazionalità, che si stanno preparando per dormire. Chi ha lo spazzolino in mano e si avvia verso i bagni, chi sta scrivendo al computer, chi chiacchiera con i vicini, scambiandosi le impressioni della giornata.
Arnaldo si sdraia in un angolo ancora libero vicino alla porta. Si accuccia sul pavimento. È duro e non troppo comodo, ma è talmente stanco che si addormenta.

Che maledetto caldo, sono stanco e ho fame, finalmente mi tolgo questa divisa pesante e mi faccio una doccia. Però vestito così mi sento un gladiatore, un vero combattente, come nei film americani.
Il mio è un ruolo importante in questi giorni, l’ha spiegato a me, ai miei colleghi e collaboratori l’americano che nei mesi scorsi ci ha addestrato a Roma. Abbiamo imparato a marciare compatti, sbattendo gli anfibi per terra e battendo i manganelli contro gli scudi. Cazzo che figata! È proprio impressionante. Gli americani se ne intendono di guerriglia urbana, loro non si fanno tutte le pippe che ci facciamo noi in Italia. Al corso ci hanno avvertito che a Genova ci sarebbero stati scontri violenti, altroché pacifisti. Ci hanno avvisato che avrebbero fatto arrivare centinaia di bare in previsione di vittime.
Il gruppo che dipende da me è davvero preparato, d’altra parte il comandante del reparto mobile ci ha scelto sulla base del nostro coraggio e delle reazioni controllate che abbiamo quando veniamo attaccati. L’americano ci ha insegnato che noi non dobbiamo avere paura, sono gli altri a doversi spaventare quando ci vedono arrivare. Voglio vedere se sarò io o qualcuno dei miei uomini a entrare in quelle bare. Saranno quelle maledette zecche dei manifestanti a finirci dentro, quello è il loro posto.
“Nicola, schiera i tuoi uomini – mi telefona il comandante scuotendomi dai pensieri – è stata decisa una perquisizione in una scuola dove ci sono i black block. Li andiamo a prendere. Tra trenta minuti trovatevi sotto la questura!”
L’adrenalina mi fa sparire la stanchezza. Finalmente entriamo in azione, oggi ci hanno tenuto di riserva, pronti a intervenire e questa inattività è più stressante.
Faccio radunare gli uomini dall’ispettore Vanni e nel giro di poco tempo siamo sul blindato che ci porta in questura.
Oltre al nostro comandante sono presenti i capi, abbiamo l’intera costellazione, con la quantità di stelle che hanno sulle mostrine. Mai visti tutti assieme, se non alla festa della polizia a Roma. Oltre al nostro reparto in tuta antisommossa, ci sono poliziotti in divisa atlantica, altri con quella comune ai reparti mobili e qualcuno in borghese con la pettorina con la scritta ‘polizia’. Sono presenti anche dei carabinieri, pochi, dopo che qualcuno di loro pare abbia ammazzato quel teppista.
A noi funzionari spiegano che, dentro la scuola, troveremo le zecche responsabili dei casini del pomeriggio. Hanno messo a ferro e fuoco la città, quei bastardi! La vedranno, così imparano a stare a casa propria quei comunisti di merda!
Vengono formate due colonne di mezzi, perché facciano strade differenti, per poi confluire a tenaglia davanti la scuola.
Scendo dal furgone con i miei uomini. Sono eccitati.
Ci buttiamo contro il cancello chiuso che resiste. Arriva un ordine secco: abbattetelo! Ordino a un caposquadra di usare un blindato. Le sbarre cedono e noi entriamo. La porta della scuola è chiusa, dietro sono stati accumulati banchi e tutto ciò possa servire a fare resistenza.
Sono sudato, la divisa mi tiene molto caldo ma lo sforzo è ripagato, la porta di legno si spacca ed è il caos. Dentro i ragazzi urlano, i colleghi che entrano urlano, io urlo. Entro nella palestra e il mio braccio si arma.

Arnaldo è svegliato da un gran frastuono, urla, vetri rotti e un rumore assordante che viene dall’esterno. È un elicottero che sorvola bassissimo e illumina il cortile. Passi veloci per le scale che portano ai piani, fracasso di porte abbattute con gli anfibi, stivali che Arnaldo ha sempre invidiato, perché comodi per andare a funghi.
Si alza dal suo posto, cerca di tranquillizzare le due ragazze accanto a lui. Avranno vent’anni, tremano e piangono tenendosi abbracciate. Si mette davanti a loro, ma il suo è solo un gesto dettato da un’antica galanteria, è un uomo minuto, ma con un carattere risoluto. Vede irrompere nella palestra uomini in tuta scura ed è convinto che sia un attacco dei famigerati black bloc. Urlano, picchiano con bastoni. Solo quando gli arriva il primo colpo vede che sono poliziotti a infierire su di lui. Sono furie.
Calci e manganelli. Poliziotti? – pensa incredulo – La nostra polizia?
Hanno il casco in testa, chi i fazzoletti sulla bocca e sul naso, chi le maschere antigas. Vede solo i loro occhi e non capisce.
“Basta!”, “Aiuto!”, “Perché?”, “Assassini!” gridano i ragazzi.
Un poliziotto sembra impazzito, si guarda attorno, ha lo sguardo allucinato e con movimenti a scatti cerca bersagli umani su cui sfogarsi. Brandisce il manganello alla rovescia, il manico è duro e zigrinato. Colpisce, i suoi solchi rimangono impressi come tatuaggi. Sul collo, sul viso, sulle braccia nude che spontaneamente cercano protezione. Ma i colpi raggiungono ugualmente le teste. È sangue ovunque. Arnaldo cerca il confronto verbale. Riceve fendenti sul viso, sulle braccia, sulle gambe. Cade a terra. Sente un dolore forte. Impressionante come abbia percepito il rumore delle sue ossa rotte. Crac. Un rumore che si sente, che non si confonde con quel frastuono.
Con gli occhi continua a seguire il “suo” poliziotto. Lo vede passare da una persona all’altra senza metodo, tira calci a chi è a terra, manganellate a chi è ancora in piedi. E’ una furia priva di ogni controllo.

“Avete paura adesso, vero bastardi? Vi siete divertiti oggi! Ora mi diverto io!” urlo con quanta voce ho in corpo. Sento l’odore della loro paura, le loro implorazioni mi eccitano.
C’è una ragazza vicino all’entrata della palestra. La colpisco alle braccia e alle gambe con il manganello. Cade a terra. “Adesso sei servita, puttana!” le urlo.
Alzo lo sguardo, vedo un collega titubante con il manganello a mezz’aria, si guarda attorno smarrito. Vado da lui. “Che cazzo fai?” inveisco. Finalmente quel coglione si riprende, prima timidamente, poi con più sicurezza colpisce quelle maledette zecche.
Mi si pianta davanti un con la mia stessa divisa, uno del mio gruppo, prende il mio manganello e si mette davanti alla ragazza che stavo per colpire nuovamente. Mi urla “BASTA! BASTA!”. Reagisco, lo spintono, gli sfuggo. Colpisco il vecchio. Una, due, tante volte. Lui cade e lo prendo a calci. Cazzo! Arriva ancora quel rompicoglioni. Mi prende dalle mani il manganello e me lo toglie. Si toglie il casco e urla. Ma che vorrà mai questo?
Mi rendo conto che è un dirigente, più alto in grado di me. Me ne vado incazzato, lontano da quel funzionario, vergogna della polizia.
Sangue, sangue… Dio che sensazione! È la natura che mi chiama, mi sento invincibile.
Qualcuno ha avvisato i soccorsi. Arrivano un medico e un infermiere. Lascio lì i miei uomini e vado a vedere il bottino di guerra, frutto della perquisizione. Maglie nere, coltellini svizzeri multiuso… ma chi se ne frega! Adesso sono calmo. Vado a prendere ordini.

La furia è nuovamente davanti a lui. Lo guarda e inizia a colpirlo. Una, due, tante volte. Arnaldo cade, si raggomitola su se stesso e aspetta. Non arriva più nulla. I piedi accanto alla sua testa sono diventati quattro. Nonostante il dolore, si rilassa, ruota il viso di lato e guarda attraverso l’occhio tumefatto. La scena è irreale, due poliziotti si stanno fronteggiando, uno è la furia. L’altro si leva il casco, grida e gli prende il manganello. La furia sparisce, si confonde tra il centinaio di poliziotti che sono lì.
Arnaldo vede entrare due uomini della Croce rossa. Si guardano attorno smarriti, non sanno da chi iniziare. Sente piangere, chiedere aiuto. I due soccorritori vanno da uno e dall’altro come automi. Nel giro di pochi attimi devono decidere chi è più grave da essere portato per primo in ospedale.
Finalmente tocca anche a lui. Al pronto soccorso gli fanno le lastre, perché ha una frattura scomposta al braccio e una gamba spezzata. I lividi non si contano, ma ogni movimento gli provoca dolore ovunque. Lo dovranno operare al braccio, intanto viene messo in corsia, con due poliziotti che si danno il cambio vicino a lui. Tra di loro lo chiamano “il vecchietto”, non capiscono cosa facesse in mezzo a quei ribelli. Anzi, anarco-insurrezionalisti, come li definisce la Digos.
Arnaldo prova a parlare con loro, gli spiega che è venuto a Genova perché era giusto essere lì a manifestare pacificamente. I due poliziotti sono attoniti, gli rispondono che sicuramente lui non c’entra niente con quelli che sono stati arrestati dentro la Diaz. Arriverà il magistrato e si renderà conto che è innocente.
Arnaldo insiste, cerca di convincerli che ha le stesse colpe dei ragazzi che erano con lui nella scuola. Poi si sente stanco. Il medico gli dà un antidolorifico. Lo prende, non ha più voglia di combattere. Per oggi. Pensa alla signora che gli ha indicato la scuola Diaz per andare a dormire. Erano davvero entrambi convinti che fosse più sicuro. Il suo ultimo pensiero va a quella tomba a causa della quale si era trattenuto a Genova, e che forse dovrà aspettare altri dieci anni per avere un fiore. Un fiore che il caso non ha voluto arrivasse ancora.

[Arnaldo Cestaro, nonostante le operazioni subite, non ha riacquistato la completa funzionalità del braccio. Dedico a lui questo racconto.]