di Cesare Battisti

CesareInCarcere.jpg[Questo testo, inedito in Italia, è apparso nell’antologia L’arte della fuga. Manuale per viaggiatori che non accettano istruzioni, a cura di Alberto Prunetti, Stampa Alternativa, 2005. L’antologia comprende brani di Jack London, Daniel Defoe, Raoul Vaneigem, Benjamin Peret, Alexander Trocchi, Bruno Traven.]

Effettivamente, avevo vissuto momenti migliori. Ma non avevo la disposizione d’animo per muovermi a pietà. Il problema del numero di Sécu mi stava minando la mente, l’impiegata antillana minacciò di chiamare la polizia e non era la prima volta che mi succedeva. Chissà se avevano il diritto di arrestare uno senza numero di Sécurité sociale! Bel dilemma per un povero brigadiere che si ritrova a dover ammanettare un fantasma.

Davanti a quale Corte bisognava trascinarmi? Ad esempio, il giorno in cui, come d’abitudine, saltai la sbarra e arrivarono i controllori. Brutta gente i controllori, gli insegnano a essere iene. Per farla breve, fecero intervenire la polizia. Mi rimase impressa la loro faccia sbalordita, quando il poliziotto con la radio ordinò agli altri di lasciarmi andare immediatamente e per di più senza il biglietto. C’era stato un problema di competenza giuridica. Da quel giorno mi accanivo a farmi pescare dai controllori, mi piaceva troppo lo stato d’impotenza in cui li cacciavo. Mi facevano viaggiare gratis purché me ne restassi fantasma. C’era certamente un limite a tutto ciò, sennò mi sarei messo a rapinare banche.
Tornai a casa senza averne voglia. Era in un quartiere ricco, come si diceva, ma io non avevo mai visto niente che brillasse. Da qualche tempo, quella stanza sotto i tetti era diventata un porto di mare. Passavano da lì tutti quelli che non dormivano bene. Nel bordello lampeggiava la spia della segreteria. Afferrai una birra dal frigo e andai a schiacciare il bottone. Era una voce sconosciuta, che con la distorsione del nastro sembrava quasi un belato monocorde. Non ricordo più il suo nome, comunque era un avvocato e diceva pressappoco cosi: «Suo padre si trova attualmente in carcere, l’accusa è di tentato omicidio, si metta in comunicazione con il nostro studio». Mi veniva da ridere, ma non capivo da dove poteva venire lo scherzo. Tentato omicidio, feci il conto… in carcere a 77 anni! Finii la birra e telefonai.
La conversazione con l’avvocato fu per certi aspetti comica. Aveva la stessa voce del nastro e mi rimproverava vigorosamente di avere un padre che andava in giro a sparare col fucile. Insomma, voleva dei soldi subito sennò abbandonava la difesa. Siccome non volle accettare promesse, gli feci capire che in quella faccenda lui poteva rischiare molto più di mio padre. Era successo all’ufficio delle pensioni, all’ennesima domanda respinta. Dopo la morte di mia madre, aveva cominciato a dire che sarebbe corso del sangue. Ma non era la prima volta che s’infuriava in quel modo, e poi quanti sono i vecchietti impotenti che non hanno mai sognato di far saltare le cervella a un burocrate? E così nessuno aveva creduto opportuno dare un peso alle sue minacce.
Invece, dalla ricostruzione poliziesca dei fatti, mio padre avrebbe sparato due colpi contro il soffitto in un momento in cui il locale era pieno di gente. Il problema era che il fucile era stato caricato a pallettoni e quindi, oltre allo spavento, la gente si era presa un po’ di calcinacci sulla testa. Nessuna prognosi riservata. Andai a cercarmi un’altra birra. Il cartone era vuoto, me ne feci passare la voglia a forza. Tanto, ero sicuro che non mi avrebbe liberato la testa da mio padre. Era difficile per me immaginarmelo rinchiuso in una cella, di nuovo e alla sua età… Agire cosi… fino all’ultimo. Mi venivano i brividi al pensare che per tutti quegli anni, su quello che diceva, non scherzava affatto. Ma proprio su tutto? Questo voleva dire che anche quando diceva che ero un cretino era vero? Stavo esagerando. Il fatto che si fosse messo nei guai non voleva assolutamente dire che era infallibile, semmai era vero il contrario. E poi, per qualsiasi padre un figlio è sempre un cretino.
Per quanto mi sforzassi di trattenere quella faccenda sul piano inclinato del ridicolo, quei due colpi di fucile all’ufficio pensioni mi rimbombavano in testa. C’era in quell’atto qualcosa di orribilmente vero, di bestiale. Eppure, mi sembrava la cosa più naturale del mondo, quella di sparare due colpi di fucile in aria quando i burocrati non ascoltano più. Ne sapevo qualcosa. Anche se, a essere precisi, non è che i due casi si potessero mettere sullo stesso piano. Per me era una questione di numero, d’informatica; lui, invece, erano cent’anni che l’aspettava quella pensione! Anzi, al posto suo…
Ma al posto suo non ci potevo stare. Eravamo troppo diversi, c’era una generazione di mezzo. E poi lui ormai era vecchio, con la moglie morta, che aveva ancora da rimetterci? Normale. L’avevano usato fino all’esasperazione e, rimasto solo, non aveva più retto. Tentato omicidio. Sarebbe stato il colmo ritrovarci in cella insieme, tutti e due a inventarci storie. Ma non parlava più ormai. A sentire a mia sorella, ultimamente si era messo a bere troppo fragolino. Ma lei era un’esperta nel trovare una spiegazione più o meno tossica a tutti i problemi del mondo. Con l’età, da femminista era diventata prima cattolica militante e poi chiaramente proibizionista. Per questo si vedevano poco.
Per me era diverso, non potevo andare a trovarlo ma mi tenevo informato. Il telefono in casa lui non lo voleva. Diceva che tanto non sarebbe riuscito a parlare con qualcuno senza vederlo. Aveva anche smesso di scrivermi. Saluti sporadici, riferiti dalla voce un po’ impacciata di un lontano cugino in visita alla Tour Eiffel. Poi, negli ultimi tempi, più niente. Né io l’avevo cercato. Avevo ben poco a spartire ormai con storie vecchie d’un secolo: guerre, pulcini, eserciti di spiriti maligni, rovi e zanzare… Era troppo lontano tutto ciò. Io ormai parlavo un’altra lingua e mi cercavo notte e giorno in una dimensione fatta di cristallo. Appartenevo a una città che nascondeva i propri orrori dietro le sue facciate, e la trasparenza dei suoi percorsi sorprendeva meno delle turpitudini del campo misterioso.
Seppure con difficoltà, ero riuscito a diventare un anonimo metropolitano. Mi riproducevo anch’io nell’accozzaglia di relazioni meccaniche, pornografiche. Mi riconoscevo nella gente che incrociavo per strada: sguardo vago, passo rapido, gran problema da risolvere. Con la differenza che senza il numero di Sécu io ero messo fuori gioco in partenza. Mio padre aveva scelto la galera. Cercavo d’immaginarmelo, in punta di piedi sullo sgabello di plastica e proteso verso un pez¬zo di cielo tra le sbarre della finestra. Cercava gli odori, quello del cespuglio della menta piperita, che ogni tanto bisognava tagliare se no invadeva il portico. La mancanza, ecco cos’era quel qualcosa di orribile sempre presente nei ricordi. Tutti gli atti eroici di cui avevo sentito parlare erano invariabilmente di sfida a una mancanza. Ci sono cavalieri che salvano fanciulle e miserabili che assaltano il cielo; anche questo mi sembrava naturale.
«Preferisco crepare qui dentro piuttosto che passare per pazzo», e non c’era stato verso di farlo tornare sull’argomento. L’avvocato, furioso, abbandonava la difesa e mia sorella, piangente, pregava la Madonna.
Questa era pressappoco la situazione a tre mesi dall’arresto di mio padre. C’era stata anche una lettera, ma non mi aveva scritto neanche una parola su di sé. In una mezza pagina di quaderno raccontava di aver visto un programma alla tele che sembrava un bollettino di guerra e dove si discuteva di morti, di sessantamila persone arrestate, di diecimila condannati. Molti all’ergastolo. Anche se i numeri non corrispondevano con quelli che aveva in testa lui, scriveva di aver seguito la trasmissione convinto che si stesse parlando della guerra fascista. Solo verso la fine, dopo una sequenza d’immagini, si era invece accorto che era un dibattito sul terrorismo degli anni ’70. «Non ci si poteva sbagliare, c’erano capelli lunghi e pantaloni a scopa dappertutto». Gli piaceva chiamare le cose a modo suo, sempre cercando i nomi in un dizionario tutto personale. I pantaloni scampanati diventavano così “a scopa”, perché secondo lui erano buoni per spazzare il suolo.
Finiva scrivendo che solo un pazzo come me poteva cacciarsi in una catastrofe simile e, in fondo alla pagina, i saluti erano confusi. Si vedeva che aveva esitato, prima di lasciarsi andare a un abbraccio. Le manifestazioni d’affetto tra noi erano divenute merce rara, già da quando avevo cominciato a portare i pantaloni “a scopa”. Chissà, avrei dovuto gettarla subito quella lettera; invece di leggerla e rileggerla fino a trovarci ciò che non c’era scritto. Ma le cose vanno come vanno, e nessuno può dire con sicurezza se sarebbe stato peggio o meglio scansarle.
L’impressione netta che mio padre fosse in piena forma mi faceva piacere e rabbia nello stesso tempo. Stava rivivendo, era chiaro. Lo si vedeva dall’ironia che aveva resuscitato in onore di quelle poche righe. Era come se quei due colpi di fucile gli avessero liberato un ultimo sprazzo di vita degna di essere vissuta. Me lo faceva sapere e ciò mi feriva. È lo stesso risentimento del fuggitivo nei confronti di colui che resta. Le ragioni si equivalgono, ma uno rischia più dell’altro ed è questo che fa rabbia. Era vero, che bisogno c’era di farmi sentire un buono a nulla? E poi, se avessi sparato anch’io due fucilate alla Sécu, mi avrebbe dato del pazzo lo stesso. E non c’era niente da discutere: lui era un partigiano, avevano vinto, i suoi diritti erano sacrosanti, la loro guerra era su tutti i libri di scuola; mentre la nostra… Si permettevano anche il lusso di parlarne alla televisione.
Tanto ormai non rischiavano più niente, gli anni ’70 erano stati riscritti nei dettagli. Il nostro massacro non bastava, bisognava anche far sparire tutte le tracce in modo che i fatti diventassero leggenda e le vittime fossero nessuno e tutti nello stesso tempo. Un lavoro da professionisti, tanto che anch’io cominciavo a nutrire dubbi: eravamo davvero esistiti? Ma, se eravamo stati solo un venticello di maggio, allora perché tutti quei morti, i ricercati, i fascisti di nuovo al governo, il divieto d’accesso alla Sécu
Quando ci si mette a riflettere su cose importanti, con la saggezza che s’aggira nei dintorni, la soluzione migliore è quella di tacere. E tenere la bocca chiusa ci riusciva così bene che perfino le autorità cominciavano ad apprezzare. La fuga per mezzo dell’emigrazione è sempre stata la conclusione di ogni sconfitta delle classi subalterne. Anche negli anni ’30 e ’40 la Francia aveva visto sbarcare migliaia d’italiani che fuggivano il fascismo. Era però gente che si riuniva, sbraitava, costruiva resistenza. Dei rompicoglioni, in fondo. Noi, invece, siamo stati gli unici immigranti “sans papier” che, pur di non farci notare, abbiamo accettato lo statuto dell’invisibilità. Il silenzio delle barbabietole, sarebbe stato il titolo ideale per un romanzo sui rifugiati italiani di fine secolo. D’altronde, quando vivere non è altra cosa che accettare il rischio di passare da una delusione all’altra, fino all’ultima delusione, la buffonata finale, a che serve dimenarsi? Un paio di Nike, francamente, non rappresentava il massimo delle mie aspirazioni; eppure, respiravo la stessa aria di un sacco di giovani che avrebbero anche versato il sangue per procurarsele.
Queste pagine potrebbero far credere che la mia vita si consumasse tutta nel rompicapo del rifugiato senza diritto d’asilo. Niente affatto. Al di fuori di tutto ciò, avevo un’esistenza più o meno normale, dividendo gioie e dolori con altra gente che viveva male e la colpa era sempre dei politici. La routine era già un privilegio.