di Valerio Evangelisti

AldoBianzino.jpgOgni giorno si apprendono storie tremende, e tante di esse hanno a che fare con “forze dell’ordine” che, certe di un’impunità ormai pluridecennale, si permettono ogni tipo di crudeltà su persone indifese. Del resto è di questi giorni la sentenza per le torture nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 del 2001. Per una volta il tribunale ha riconosciuto le colpe di una quindicina di agenti accusati (e questo è, in un certo senso, un piccolo passo avanti), ma nessuno di essi sconterà la pena. Nel frattempo sono rimasti in servizio e hanno fatto carriera. Sotto i governi di centrosinistra come sotto quelli di centrodestra.
Non voglio generalizzare. Esiste un manipolo di poliziotti (ho il piacere di conoscerne alcuni) e anche di carabinieri spaventati dai progressi che il fascismo, inteso come ideologia della sopraffazione su chi non si può difendere, fa tra i loro colleghi, specialmente se in posti di comando. La piaga che sta avvelenando la società italiana si manifesta anche in quell’ambiente, è ovvio. Con la differenza che parliamo di persone autorizzate a portare armi, e a usarle.

Di Aldo Bianzino si è parlato meno di Federico Aldrovandi e più di Riccardo Rasman, ma la scala dell’infamia è identica. Bianzino era un falegname di 44 anni che abitava in una frazione di Città di Castello, in Umbria. Un uomo pacifico, un po’ solitario, che si era convertito a filosofie orientali. Sostanzialmente apolitico. Viveva in un casolare di campagna. Si guardi la foto: non somiglia affatto all’immagine di un boss della droga. E’ invece quella di una persona tranquilla, gioviale, residente in un borgo minuscolo tra le colline, dedito al proprio mestiere.
Il 12 ottobre 2007, un venerdì, la squadra mobile fa irruzione nel suo campo. Scopre un centinaio di piantine di canapa indiana. Arresta lui e la sua compagna. Lo rinchiude in un carcere di Perugia. Fino a quel momento Bianzino sta bene. Deve restare in isolamento fino al lunedì, quando è previsto un incontro con il giudice titolare dell’inchiesta.
E’ tutto, grosso modo, legale. Bianzino parla di uso personale dell’hashish da lui coltivato, la polizia contesta la versione. Personalmente, non è un dettaglio che mi importi troppo. Se le sostanze suddette sono un problema —io non lo avverto come tale, anzi, sono decisamente antiproibizionista — di certo Bianzino non aveva un’organizzazione industriale alle spalle, né contatti con la malavita. In casa gli trovano 30 euro in tutto. Di sicuro c’è una cosa sola: se è reato consumare droghe leggere (e mai reato mi fu tanto indifferente), né la legge italiana, anche sotto l’attuale governo di destra estrema, né alcun’altra legislazione del mondo civilizzato prevedono per esso la pena di morte.
Invece, domenica 14 ottobre, Aldo Bianzino è trovato cadavere nella sua cella. La prima versione ufficiale, ridicola, parla di infarto. L’autopsia scopre ben altro: costole rotte, fegato e milza spappolati, ben quattro ematomi cerebrali. Cos’hanno fatto a Bianzino, nella notte infernale tra sabato e domenica?
Parte la disinformazione. Le autorità non sanno nemmeno dire, inizialmente, se in cella Bianzino fosse solo o in compagnia (l’ultima eventualità è caduta: si trovava in isolamento, pare ormai certo). Negano le percosse aggrappandosi a una scusa penosa: l’assenza di ematomi superficiali. Chiunque sia al corrente di quanto avvenuto nelle carceri e nelle questure italiane negli anni Settanta e Ottanta, e oltre, conosce la verità. E’ possibile picchiare qualcuno senza lasciare tracce visibili, con tubi di gomma e altri sistemi. Se i familiari di Bianzino non avessero chiesto l’autopsia, e se questa non fosse stata affidata a un medico coscienzioso, la tesi dell’infarto sarebbe passata tranquillamente. Rientra nelle quattro tipologie principali — infarto, suicidio, arresto cardiaco, aneurisma cerebrale — usate per disinformare su chi si trova nelle mani della legge e viene ammazzato.
Cosa può avere fatto Bianzino, la notte del 13 ottobre 2007, per essere picchiato a morte, con colpi ripetuti in tutto il corpo e soprattutto sul cranio? Aveva dato in escandescenze? Si era ribellato? Aveva fatto troppo rumore? Dubito che lo sapremo tanto facilmente e tanto presto.
La foto di Aldo contiene già in sé una prima risposta. La si guardi con attenzione. Quel modesto falegname di soli 44 anni, di poche parole, legato alla sua compagna Roberta, mite anche se reattivo alle ingiustizie, adepto di filosofie pacifiste, per alcuni era un nemico. Racconta il padre che sorrideva sempre.
I suoi assassini, tra un’emergenza sulla sicurezza e l’altra, tra frotte di nemici pericolosi inventati a tavolino, sono gente che non sorride mai.

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