di Franco Ricciardiello

Rwanda1.jpgGli hanno amputato le mani e i piedi con il machette, per accorciare le sue dimensioni a quelle degli hutu. Gli è impossibile reggersi in piedi. Afferra gli oggetti con la piega del gomito. Mangia con la faccia affondata nel piatto, mentre le mosche gli camminano sul collo.
Non ha più lacrime da sciupare. Prima del 6 aprile giocava in una squadra di football a Butare, oggi si lascia morire nel cortile della missione Onu, seduto su uno sgabello di paglia all’ombra. Osservo l’espressione insensibile del suo viso attraverso i sensori del fly impiantati nella mia presa neurale: le immagini di un giovane morto da quasi un secolo, eppure disperatamente vivide per i miei sensi. Un uccello urla rauco nella nebbia. Radio Mille Collines ha finalmente smesso di incitare al genocidio, oggi trasmette solo canzoni.

La voce della cantante ricorda l’urlo di sconforto di una iena. Per sfuggire all’avanzata del Front patriotique, i macellai torturatori dell’Interahamwe si sono ritirati oltre i vulcani della Rift Valley, nella zona di sicurezza al confine con il Congo difesa dai parà francesi. Nelle carceri insalubri marciscono 130 mila presunti colpevoli di genocidio, a partire da bambini di dieci anni per finire con i vecchi. L’Interahamwe ha lasciato alle spalle una nazione ridotta a uno sterminato cimitero: mille colline e un milione e mezzo di morti, i fiumi pieni di cadaveri nudi, macellati, le mani legate dietro la schiena, bambini impiccati ai rami degli alberi come cani bastardi, salme in disfacimento nelle piantagioni di caffè, arcipelaghi di corpi mutilati a galla nei laghi, uomini, donne e bambini trucidati che si decompongono abbandonati nella nebbia, corrosi dall’odore aspro della calce viva.
Ruanda. Il genocidio. Radio Télévision Libre des Mille collines.

* * *

La ragazza che ero io attraversa l’ingresso buio senza riuscire a trattenere una risata. Il ragazzo che è con lei barcolla sotto l’effetto euforizzante di una molecola sintetica, piegato in due mentre i sensori dell’edificio accendono luci morbide dietro le pareti semitrasparenti.
La ragazza lo sorregge, singhiozza per l’accesso di riso.
— Norberto — lo chiama sollevandogli il mento, poi scoppia di nuovo a ridere.
Norberto fa una smorfia che vorrebbe essere un sorriso, accenna goffamente un passo di danza. Si vede che sa ballare ma il suo sistema nervoso pensa ad altro, asservito dalla dittatura sintetica. Fuori è buio: notte d’estate sull’emisfero boreale, luna calante. Il vento fischia quieto fra gli interstizi degli elementi fotovoltaici sui tetti.
La ragazza che ero io torna a raccogliere qualcosa all’ingresso, poi segue Norberto verso una stanza sul retro. Lui l’ha invitata nella casa di vacanze di suo padre, in fondo alla valle dove la strada comincia seriamente a arrampicarsi. Non l’ha portata in una villetta: sembra piuttosto un laboratorio. Una parete trasparente ermetica delimita una stanza insonorizzata, che contiene lunghi tubi di resina montati sulla corona millimetrata di un treppiede: dispositivi di lancio per un tunnel probabilistico.
Norberto canta fuori tono mentre si spoglia davanti a un futon colore tabacco. La ragazza incolla la fronte alla parete trasparente. Le luci nel laboratorio sono spente, gli strumenti puntano verso il tunnel di interferenza aperto sul passato.
La camicia di Norberto vola fuori dalla stanza e atterra con una parabola gravitazionale sul pavimento di ceramica. La ragazza singhiozza improvvisamente, poi lo segue barcollando. Una civetta strilla fuori dalla finestra. Un salice geneticamente modificato dorme, sogna la capillarità dei sali minerali.
L’orologio della notte avanza di ore, il sole si affaccia senza fretta sulla valle. Le gigantesche torri residenziali non allungano la loro ombra sino al laboratorio, ma forse qualche altro spettro passa dietro le palpebre della ragazza che si sveglia.
L’edificio respira nel silenzio assordante dell’insonorizzazione. La ragazza scivola giù dal futon e raccoglie la camicetta rossa. La luce solare ferisce gli occhi, Norberto è immobile con la testa che penzola verso il pavimento.
Lei esce in punta di piedi, si abbottona, si accorge nella luce inverosimile del mattino che il laboratorio è una stazione di registrazione cronotopica. Indossa la gonna, preme le dita sulla parete, che si ritrae per lasciarla passare e torna a sigillarsi alle sue spalle. Da questa parte sente un odore primitivo di silicone e olio minerale.
I tubi di lancio sembrano sottili e fragili. Si inginocchia davanti al primo, il visore da due pollici reagisce e si accende.
— “I media dell’odio” — legge la ragazza sul titolo, e poi: — “Radio Mille Collines.”
Lo schermo non dice altro. Lei ha già utilizzato i registratori a interferenza negli anni della sua formazione scolastica. Apre con un dito il cassettino dei fly sotto il visore, estrae un piccolo dardo dagli alettoni gialli e rossi. “Radio Mille Collines” non le dice nulla, ma si domanda come possa avere un nome così dolce ciò che lo schermo cataloga come “media dell’odio”: sotto il titolo si vede un paesaggio di verde ondulato che si perde verso l’orizzonte, ammorbidito da sfumature di nero o di lavanda, come la Provenza durante la fioritura. Si domanda cosa sia un media dell’odio.
Norberto dorme ancora. La ragazza prende fra le unghie il chip di collegamento custodito in una teca sotto lo schermo, solleva con la sinistra i capelli, cerca con le dita l’innesto e inserisce il sottilissimo slot nella presa neurale dietro l’orecchio.
Non c’è un suono nel locale. Siede nella poltroncina girevole accanto al tubo di resina e apre il serbatoio di lancio; controlla la sintonia del fly e lo inserisce nella slitta all’interno del dispositivo che si richiude automaticamente con un piccolo movimento discreto.
— I media dell’odio — ripete la ragazza curiosa, rigirando le parole fra i denti.
Il fly scatta a velocità quantistica e attraversa in un femtosecondo il tubo probabilistico, scaraventato verso la lacerazione a interferenza del tempo. La direzione spaziale è sud-sud ovest. Radio Télévision Libre des Mille collines.

* * *

Apro gli occhi su un panorama rurale ai piedi di quello che sembra un cono vulcanico: alberi da frutto, un recinto di legno sbilenco, un’altalena di corda per bambini. Il cielo è nuvoloso, sembra che ci sia della foschia diluita in fondo alla valle. Cerco di ricordare i comandi per muovere il fly. Inclino leggermente le testa in avanti, mantenendo lo sguardo parallelo al terreno, e avanzo verso una vecchia casa in muratura. Da anni non uso un registratore temporale. Ascolto un frinire continuo, e un sottofondo di foglie al vento.
Dove mi trovo? In Francia? Nei Balcani? Non ricordo nemmeno come si faccia a attivare il recettore olfattivo del fly, poi finalmente inspiro rapidamente e a fondo, e si sblocca. Sento un odore di carne guasta che mi rovescia lo stomaco.
La casa è vuota, abbandonata da qualcuno che è fuggito in fretta. Il cielo è pallido, basso, silenzioso. Annuso l’odore di una massa d’acqua vicina. Qualcosa urta il fly, è una mosca vera: la seguo verso gli alberi da frutto, dove l’altalena dondola appena al vento.
Distinguo nell’erba un oggetto coperto da mosche. Indovino cos’è dalla forma, prima ancora di riconoscerlo razionalmente: una testa mozzata, gli occhi strappati a forza e la lingua chiusa tra i denti. Annaspo con la mano dietro la nuca, riesco a sfilare il chip, e mi ritrovo nel laboratorio insonorizzato.
Sento il cuore battere all’impazzata sotto il tessuto della camicetta. Fuori non è ancora pieno giorno, di sicuro Norberto dorme ancora.
Era la testa di un uomo di colore. Un nero africano. Inspiro profondamente e torno a inserire il microchip nella presa neurale sotto l’orecchio.
Di nuovo quell’odore di carne guasta. Giro intorno all’albero, lontano dai cadaveri nudi di uomini e donne dalla pelle nera; il conto delle membra non torna, ma evito di guardare con più attenzione. Deve esserci un modo di attivare la ricezione di… Fatico a ricordare i comandi, è dai giorni di scuola che…
Se ruoto rapidamente gli occhi verso destra, si srotola una tendina di comandi. Scorro il menu delle opzioni, attivo “onde radio”, e una voce tradotta esplode nel mio cranio.
“… gli scarafaggi. Uccidete gli scarafaggi. Uccidete tutti gli scarafaggi. Uscite di casa adesso e uccideteli prima che siano loro a farlo. Uccideteli con l’izuka. Ricordate cosa ha detto Léon Mugesera a uno scarafaggio: vi rispediremo a casa lungo il corso del Nyabarongo. Gettate gli scarafaggi tutsi nel Nyabarongo, nel Kagera, nel Kivu. Uscite di casa, chiamate all’appello i vostri vicini e andate a uccidere gli scarafaggi. Uccidete…”
Dietro la casa abbandonata c’è un fosso d’acqua, l’erba fangosa è piena di cadaveri mutilati. Allontano il fly verso valle, fino a che non sento più l’odore di guasto. La nebbia scivola lungo il pendio della collina, non c’è segno di vita. L’altalena oscilla, gli insetti friniscono. La visione comincia a sfarfallare, non mi ero resa conto di essere in viaggio già da 30 minuti.
Sfilo il chip dalla presa sulla nuca prima che il collegamento si interrompa da solo.

* * *

La ragazza che ero io sobbalza sulla poltroncina quando sente la mano di Norberto sulla spalla.
— Non hai sonno? — domanda premuroso mentre si strofina gli occhi. — Stanotte abbiamo… dormito poco.
Si è infilato i calzoni, ma è ancora spettinato e a torso nudo. La ragazza prova un brivido involontario che lo diverte visibilmente.
— Cos’è questa roba? — domanda lei mostrandogli il piccolo schermo accanto al tubo del registratore.
Norberto scuote le spalle.
— Un hobby di mio padre. A volte fa ricerche per conto della sovrintendenza alla comunicazione. Ti interessa?
— Cosa significa “I media dell’odio”?
— Una sua fissazione: l’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa per fomentare l’odio, divide et impera, hai presente? Roba tipo la guerra in Bosnia, Goebbels, le radio fasciste negli Stati Uniti.
La ragazza si posa una mano sul cuore. Sente ancora fra la lingua e il palato il sapore orrendo della carne guasta. Ricorda i vermi nelle orbite oculari dei morti, il silenzio, la nebbia che scivola sui corpi mutilati sotto il vulcano.
— Questa cosa qui dentro… è successa veramente?
Norberto sfiora con i polpastrelli lo schermo per proiettare il testo a lettere luminose sul soffitto.
RUANDA 1994: RADIO MILLE COLLINES
— Suppongo di sì — risponde, poi accenna alle parole che scorrono. — Questo ha l’aspetto di un indice di riferimento.
— E quei numeri? — domanda la ragazza.
— Sono coordinate per i fly. Puoi programmare il quantum leap.
Norberto sbadiglia vistosamente, stira le membra, poi circonda con un braccio la vita della ragazza.
— Torniamo di là — suggerisce, e le posa le labbra sul collo.
Lei prova un brivido. Sorride, lo allontana per scherzo, poi lo segue abbracciata. La parete trasparente si apre per tornare a sigillarsi al loro passaggio.
Ma qualche minuto dopo, mentre mangiano cracker alle alghe davanti alla finestra panoramica che scavalca un ruscello, dove la stretta valle si allarga in una riva di sassi levigati, la sua mente torna agli uomini dalla pelle di ebano trucidati sotto il vulcano, e a quell’orribile voce sulle onde radio. “Uccidete gli scarafaggi.” Così quando Norberto si riaddormenta a piedi scalzi sul futon, le braccia raccolte contro il ventre per non disperdere calore, mentre i raggi solari condensano il mattino contro il doppio vetro della finestra, la ragazza torna nel laboratorio.
Siede sulla poltroncina, estrae il chip dalla custodia. Accende il visore per proiettare l’indice luminoso sul soffitto. Mette in ordine cronologico le coordinate, poi seleziona quel 6 APRILE 1994 in cima alla lista. Invia i dati al primo fly disponibile nella teca, poi lo estrae per osservarlo da vicino: una volta abbandonati gli alettoni al termine del tubo di lancio, chiunque potrebbe confonderlo con una mosca.
Ripensa alla frenetica attività degli insetti dentro e fuori le labbra dei grigi cadaveri mutilati, alla massa brulicante nelle orbite vuote, e prova un disagio difficile da descrivere.
La primavera sospira tiepida fuori casa. Norberto riposa nella stanza accanto, le nuvole si rincorrono in ideogrammi frattali nel cielo, tenute lontano dalla metropoli grazie al controllo climatico. Eppure qualcosa non va, qualcosa alla bocca dello stomaco.
“6 aprile 1994”. La ragazza inserisce il fly nel serbatoio di lancio, poi scosta i capelli dalla nuca con il chip stretto fra le unghie.

* * *

Apro gli occhi sulle povere strutture di un modesto aeroporto del terzo mondo. Il sole è quasi all’orizzonte, la temperatura è meno elevata di quanto mi aspettassi. Dirigo velocemente il fly verso la rudimentale torre di controllo in cemento. Ci sono solo 4 velivoli fuori dagli hangar, fra le scialbe luci elettriche sulla pista.
Mi viene un dubbio. Con un rapido movimento degli occhi controllo la data sul menu a tendina: “AEROPORTO DI KANOMBE (KIGALI), 6 APRILE 1994”.
Noto nel menu un’opzione che prima non avevo visto, si chiama semplicemente “onnisciente”. Ricordo che, quando usavo il tunnel probabilistico per studiare Storia, era possibile abilitare durante la registrazione una memoria ROM interfacciata direttamente con la corteccia cerebrale, con tutte le informazioni storiche e geografiche dell’ambientazione.
Attivo la funzione “onnisciente”.
La consapevolezza esplode nella mia testa come se avessi spalancato le porte della conoscenza. Quella croce di luci di posizione in avvicinamento dal cielo è il Falcon 50 di Juvenal Habyarimana, dittatore del Ruanda fino a due anni fa e attuale presidente. Sta tornando da Dar-es-Salaam, dove ha firmato un accordo per il cessate il fuoco con il Fpr, il Front patriotique rwandais: finalmente, un governo di unità nazionale e la smobilitazione dei due eserciti sembrano il futuro di pace per il piccolo stato africano densamente popolato.
Volto leggermente lo sguardo a sinistra, per ruotare il fly. C’è qualcuno nascosto nell’ombra che ha il colore dell’inchiostro, non molto lontano dalla strada che si allontana dall’aeroporto e dalla residenza presidenziale: due uomini con una divisa chiara. Mi avvicino silenziosamente, nascosta fra le mosche onnipresenti.
Sono due bianchi che parlano tra di loro in francese mentre osservano la manovra del Falcon. Il primo, con le bandiere del Belgio e dell’Onu sulla manica della camicia, solleva il grosso tubo metallico di un lanciarazzi SAM-16 a infrarossi. Ho la sconvolgente certezza di conoscere il numero di serie del missile Gimlet che il suo commilitone inserisce nel caricatore dell’arma. In qualche modo io so che questo razzo teleguidato a infrarossi è stato requisito dall’esercito francese nel 1991, durante l’invasione dell’Iraq.
Il Falcon 50 ha quasi toccato terra sulla pista. La guardia presidenziale aspetta, schierata marzialmente sotto la torre dell’aeroporto per accogliere Habyarimana e il presidente del Burundi, il cui aereo è rimasto in panne in Tanzania. Questi sono giorni che passeranno alla storia africana: finalmente il padre-padrone del Ruanda è stato costretto dalla pressione internazionale, a venire a patti con il Fronte patriottico tutsi per la riconciliazione nazionale. Il potere hutu, una dittatura a partito unico instaurata dopo la partenza dei colonizzatori belgi nel 1959, potrebbe sgretolarsi definitivamente sotto l’urto della democrazia.
Un rumore secco, un lampo di fuoco impreciso, e la traiettoria dei gas combusti di un missile SAM-16 affonda nel cielo, seguita quasi immediatamente da una seconda traccia.
Dopo qualche attimo di silenzio, nel quale persino le mosche e le rondini sembrano trattenere il fiato, il Falcon 50 esplode in una palla di fuoco, si gonfia e si spezza in due tronconi all’altezza delle ali, mentre frammenti incendiati precipitano senza fretta nel giardino della residenza presidenziale.
Ora tutto tace sull’aeroporto di Kanombe, tranne la guardia armata che rompe i ranghi per accorrere sul luogo dell’incidente. Le ombre dei bianchi in divisa belga si ritirano verso gli alberi, nel buio, abbandonando il lanciarazzi sul terreno.
La visione comincia a sfarfallare, mentre il fly si disintegra in frammenti come le speranze di pace del Ruanda.

* * *

La ragazza che ero io osserva fuori dalla finestra il movimento silenzioso dei rami di salice.
— Non ti capisco — dice Norberto dietro di lei, affascinato dalla linea morbida delle sue gambe.
La ragazza sa che i polpastrelli di Norberto ricordano la consistenza fresca della sua pelle. Di sicuro le sue retine hanno registrato la prima volta che l’ha vista, nel controluce della vetrata panoramica al museo d’arte moderna, una giovane vertigine bionda, le gambe nude nei riflessi di luce delle installazioni; per entrambi è stato come cadere in un pozzo gravitazionale: quell’impressione di vuoto nelle viscere, il brivido alla spina dorsale, le buone intenzioni gettate oltre l’ostacolo dell’orizzonte degli eventi.
Adesso la casa è invasa dal suono ovattato di una musica che sembra generata dai muri, o direttamente dalla vibrazione delle molecole nell’aria.
— Tu non sei stato laggiù — risponde la ragazza quando lui quasi non ricorda più la domanda.
— Il secolo scorso è stato l’apoteosi del genocidio — risponde lui con pazienza. — I turchi contro gli armeni, i nazisti contro ebrei e gitani, Pol Pot contro gli oppositori. Il Ruanda non fa eccezione: anzi, oggi lo ricordiamo solo nella storia dei mezzi di comunicazione di massa. Quella radio che incitava gli hutu all’etnocidio, che cosa agghiacciante. La storia ha cancellato il Ruanda, non sono neppure sicuro che esista ancora come stato indipendente.
— Vieni laggiù con me — risponde la ragazza in un sospiro, senza staccarsi dal vetro della finestra. — Non c’è altro modo di capire. Verrai?
Norberto scuote la testa.
— Siamo saliti qui a casa di mio padre per prenderci una vacanza — risponde. — Tre giorni di ferie. La velocità nelle vene. Il brivido. L’equilibrio. La notte. Quei negri sono morti quasi cento anni fa.
— Dimmi che verrai laggiù con me — insiste la ragazza, che sente umido all’angolo degli occhi.
Meno di un minuto dopo sono seduti fianco a fianco nel laboratorio, le custodie dei chip aperte. La ragazza seleziona in silenzio nuove coordinate dall’indice luminoso sul soffitto. Le sembra inspiegabile che un oggetto così minuto come un fly possa attraversare lo spazio e il tempo lungo il tunnel probabilistico, mantenendo un collegamento in diretta con il suo cervello.
Distruggi ciò che ami. Brucia la ricchezza della terra. Uccidi il padre, uccidi la madre, inventa miti con la tua paura delle tempeste e il tuo stupore per la vita che cresce nel grembo della donna. Ma non dimenticare nulla, non dimenticare mai nulla.
La ragazza inserisce il fly nel caricatore e lo spara verso il tunnel probabilistico.

* * *

Inspiro profondamente per attivare il recettore olfattivo. Subito, un rivoltante odore di carne bruciata. Sento urla distanti, oltre le case a due piani che fiancheggiano la via. Colpi di arma da fuoco in lontananza. Attivo la funzione “onnisciente”, consapevole di abilitarla anche per Norberto collegato sul medesimo canale.
Oggi è il 7 di aprile. I resti del Falcon 50 del presidente Habyarimana scottano ancora; oltre a lui, nell’incidente sono morti il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira con due suoi ministri, i tre militari francesi dell’equipaggio e altri cinque ruandesi tra i quali il generale Déogratias Nsabimana, capo di stato maggiore dell’esercito e autore delle liste di oppositori da eliminare: 1500 di loro saranno massacrati a Kigali dalla guardia presidenziale nei primi tre giorni dopo l’attentato.
Kigali. Oggi ci sono stati scontri tra la guardia presidenziale e l’esercito, che vorrebbe mantenere fede all’accordo di pace; i 600 guerriglieri del Front patriotique che in base agli accordi si trovano a Kigali si sono asserragliati nei loro appartamenti, armati fino ai denti, per resistere alla follia omicida.
Percorro le strade della capitale invase da una folla inferocita, elettrizzata da una volontà irrazionale. I machettes scintillano al sole, striati di sangue fresco rosso come inchiostro. I corpi giacciono scomposti lungo i muri, attorniati da strisce scarlatte dove sono stati trascinati per terra. Sono quasi tutti hutu moderati favorevoli al compromesso con il Fpr, militanti delle associazioni per i diritti umani o dei partiti di opposizione: le liste di Déogratias Nsabimana. Persino il primo ministro hutu Agathe Uwilingiyimana è stata scannata come un’inka, la vacca degli allevatori tutsi.
Il fly urta contro un ostacolo, mi alzo rapidamente per allontanarmi e controllare meglio: un gruppo di neri con sgargianti polo da football e baschi colore del vino arringano la folla. Hanno pesanti machettes nelle mani. Sono i miliziani dell’Interahamwe, “coloro che combattono insieme”, figli disoccupati e crudeli del degrado urbano. Hanno iniziato come hooligans di periferia, prima di essere inquadrati in formazioni paramilitari nei campi di addestramento da Félicien Kabuga, il finanziatore di Radio Mille Collines, e dal DAMI, il distaccamento francese d’assistenza militare.
Un nuovo colpo di vento riporta l’odore di carne bruciata lungo le vie. Sorvolo dei ragazzini defenestrati sull’asfalto, le membra maciullate da impronte di pneumatici.
Mi gira la testa. Sento che il mio corpo trema, quasi cento anni nel futuro rispetto a questo nuvoloso giorno di aprile nel paese delle mille colline. Tremo perché intuisco ciò che sta per accadere: so che da ieri l’Interahamwe è scatenata per tutto il Ruanda, trentamila terroristi che poche ore dopo l’attentato mortale al loro presidente distribuiscono machettes agli hutu esasperati.
Uccidete gli scarafaggi!” latra lo speaker alla radio “Uccideteli! Cosa aspettiamo a sterminare i parenti di quegli assassini che hanno attraversato la frontiera dell’Uganda per trucidare i nostri figli? Il presidente ha generosamente deciso di tendere la mano per fermare la strage dei nostri giovani, e loro lo hanno assassinato a tradimento. Io vi domando: cosa aspettiamo? Cosa aspettiamo a eliminare gli scarafaggi? Lo dice anche il vangelo: schiacciate la testa del serpente quando viene fra di voi per mordere, altrimenti perirete tutti. Cosa aspettiamo? Uccidete gli scarafaggi, uccidete…
La visione comincia a sfarfallare, ma quasi mi viene da vomitare quando vedo incollata sulla corteccia di un vecchio albero la prima pagina di un rotocalco intitolato “Kagura”: ritrae il presidente francese François Mitterrand con un machette sotto la scritta “un vero amico del Ruanda”.
Non faccio in tempo a rientrare nel laboratorio che subito lancio un secondo fly verso le coordinate successive in ordine cronologico: 9 aprile, all’aeroporto Grégoire Kayibanda.
Arriva in fretta un corteo di auto presidenziali di lucido nero, le bandierine nazionali che sventolano sulle cromature della carrozzeria. Ne scende l’élite dell’akazu al potere: Agathe Habyarimana, vedova del presidente e sua eminenza grigia; suo fratello Protaïs Zigiranyirazo, principale organizzatore dell’akazu, il clan mafioso originario del nord che governa il Ruanda dopo il disfacimento del partito unico; il pastore avventista Nathanaël Musaza, il ministro delle miniere Joseph Nzirorera, i prefetti di Ruhengeri e di Gisenyi; il capitano Simbikangwa, detto “il torturatore”, che partecipa agli interrogatori degli oppositori inchiodato sulla sua sedia a rotelle; infine Léon Mugesera, il principale ideologo del genocidio che l’akazu sta preparando da anni.
Uno degli aforismi contenuti nelle fiabe dei Monti della Luna dice che Dio passa le sue giornate altrove, ma ritorna a dormire in Ruanda.
Dal 6 di aprile Dio ha perduto il sonno.
Nei tre giorni fra l’attentato e oggi, la guardia presidenziale ha circondato Masaka, la località vicino all’aeroporto dalla quale sono partiti i due SAM-16 che hanno abbattuto l’aereo di Habyarimana; in 72 ore di terrore hanno massacrato dieci caschi blu belgi del Minuar, perché qualcuno ha notato le false divise degli uomini con il lanciarazzi, e trucidato anche tremila abitanti di Masaka senza alcuna ragione. Le forze armate hanno cercato di fermare la guardia presidenziale, ci sono anche stati combattimenti con le armi pesanti.
Accelero velocemente il fly verso l’aereo, noto gli agenti del DGSE francese al lavoro fra i resti del Falcon 50 abbattuto.
Perché il clan criminale al potere sta per abbandonare il Ruanda? Di cosa hanno paura, ora che la guardia presidenziale elimina fisicamente tutti gli oppositori segnati nelle liste già pronte da tempo? Questi uomini in giacca e cravatta, queste donne con eleganti vestiti di seta a fiori acquistati a Parigi, che fuggono con figli e parenti, sono i principali responsabili del genocidio dei prossimi mesi: espatriano per crearsi un alibi, perché sanno che da qui a luglio i fiumi del Ruanda si riempiranno di corpi, ogni stelo d’erba si coprirà di sangue, e i cadaveri mutilati degli oppositori, dei tutsi e degli hutu moderati rimarranno a imputridire nei pascoli e nei campi sotto i vulcani, in attesa della calce viva. Al massimo, domani, potranno accusarli di incitamento al genocidio, non della sua realizzazione. La fuga di oggi è un alibi, in realtà l’akazu mantiene ancora saldamente il potere.
Sono già tutti a bordo, l’aereo decollerà per la Francia e poi per il Canada. Il treno del Ruanda accelera lungo i binari del genocidio. Attivo la ricezione radio con un groppo di dolore in gola, un presentimento sconvolgente; ecco su Radio Mille Collines la voce del colonnello Théoneste Bagosora, autore del colpo di stato che apparentemente costringe alla fuga sua cugina, la vedova del presidente: in realtà, anche lui appartiene al medesimo akazu, al medesimo clan.
“Tre giorni fa, i ribelli dell’Fpr hanno ucciso a tradimento il presidente” dice con voce grave il capo del comitato di crisi. “Hanno sputato sugli accordi di pace. Da questo momento i protocolli di Arusha si intendono cancellati. L’unica risposta a un atto di guerra non può che essere la guerra: fermeremo a ogni costo gli invasori che sono venuti a pugnalarci nel sonno attraverso la frontiera dell’Uganda. Ma tu, popolo del Ruanda, non puoi rimanere chiuso in casa senza reagire: il nemico si nasconde ovunque. Il tuo vicino di casa, il tuo compagno di lavoro, quello che credi il tuo amico è uno scarafaggio sostenitore del nemico, nasconde le armi per sgozzarti quando meno te lo aspetti. Colpiscilo subito! Denuncialo, arrestalo, consegnalo alla polizia! Difendiamoci con il bastone, con il machette, con l’izuka!”
Ascolto impietrita la voce folle che incita al genocidio attraverso l’etere. Ci sono 415 mila radio in Ruanda, una ogni 16 abitanti. Oggi tutte sono sintonizzate su RTLM, Radio Télévision Libre des Mille collines, per ascoltare il tam tam dell’odio.
Uccidete, uccidete.”
Le jeep cariche di hooligans dell’Interahamwe percorrono le mille colline del Ruanda sulle strade che attraversano la nebbia, con le autoradio sintonizzate su RTLM.
Uccidete, uccidete.”

1 – CONTINUA