di Franco Pezzini

Moriarty.jpgTra i personaggi più interessanti e provocatori — specie dal nostro punto di vista — della mitologia vittoriana figura certamente il professor Moriarty, l’arcinemico di Sherlock Holmes. Occasione per parlarne è l’uscita qualche mese orsono della versione dvd di Sherlock Holmes — La valle del terrore distribuito da Perseo Video, un film non notissimo che però merita la visione. Sherlock Holmes und das Halsband des Todes (tale il titolo originale), 1962, costituisce un austero ed elegante bianco e nero di produzione franco-germano-italiana: ma il regista è quel britannicissimo Terence Fisher noto per aver celebrato i grandi miti orrifici della Hammer, da Frankenstein a Dracula, in particolare con l’immortale coppia di Peter Cushing e Christopher Lee. Che Fisher diresse anche nel famoso La furia dei Baskerville (The Hound of the Baskervilles), 1959 sempre per la Hammer, dove il primo è un Holmes in serrato dialogo col proprio intelletto e il secondo l’erede Baskerville minacciato dalla maledizione.

Cushing, in seguito, ricoprirà ancora e a più riprese il ruolo del segugio di Baker Street, di cui è considerato uno degli interpreti migliori: e sicuramente il suo Van Helsing (dal Dracula del ’58 in avanti) ricorda più Holmes che il tarchiato olandese descritto da Stoker. Ma per La valle del terrore il detective è interpretato da Lee, che a sua volta ripresenterà la maschera in successive produzioni: e questo gioco di attrazioni / rifrazioni tra personaggi di Conan Doyle e Stoker e relativi interpreti “canonici” ha portato a una serie di suggestivi corti circuiti. Non ultimo quello su un possibile scontro tra Holmes e Dracula: al punto da generare la leggenda di un ultimo film Hammer, Dracula Walks the Night, annunciato dalla stampa nel 1972, che avrebbe dovuto contrapporre i due personaggi nella Londra nebbiosa del 1895. Nel cast ci sarebbero stati Lee (ovviamente Dracula), Cushing (ovviamente Holmes), James Donald, Barbara Shelley, Michael Ripper e parecchi altri volti noti con un budget di £ 288.500, più i nomi di Terence Fisher come regista e Anthony Hinds come produttore; e alcune riviste parlarono di una produzione Hammer / Brockridge, in associazione con Russ Jones.
In realtà il presunto progetto, qui e là citato per autentico ma smentito a suo tempo dalla stessa Hammer, costituisce il frutto dell’affascinata fantasia di un fan: e se da un lato rimanda alla stuzzicante epopea dell’unfilmed Hammer — il tesoro di idee filmiche non utilizzate dalla casa britannica — dall’altro la dice lunga sulla potenza mitopoietica della sua avventura. Ma se al cinema Holmes ha incontrato Dracula solo attraverso un’osmosi legata agli interpreti, la letteratura ha fatto il grande salto: Fred Saberhagen in The Holmes-Dracula File, 1978, vede i due personaggi addirittura collaborare al servizio del bene; mentre, in modo più rispettoso della saga — e, diciamocelo, più convincente — Loren D. Estleman ne descrive lo scontro nel delizioso Sherlock Holmes vs. Dracula, 1978, da noi oggi appena approdato per i tipi Gargoyle (Sherlock Holmes contro Dracula, 2008).
D’altro canto, non manca chi abbia accostato a Dracula proprio il tenebroso arcinemico di Holmes, che ne La valle del terrore appare interpretato dal grande attore tedesco Hans Söhnker. Con una certa libertà, è vero, sul romanzo di Conan Doyle The Valley of Fear, 1915, visto che nel film il Napoleone del crimine non è un matematico e un fisico come nel canone sherlockiano, ma un dotto ed equivoco cultore di archeologia.
Moriarty vede la luce — letterariamente parlando — nel 1893. Conan Doyle intende eliminare dalla propria vita quell’Holmes che ormai fa ombra a qualunque sua altra opera, e dedicarsi a “more serious literary work”. Il tentativo pare andare a segno col racconto The Final Problem, dicembre 1893, dove il detective e la sua nemesi sembrano sparire avvinghiati nelle cascate del Reichenbach in Svizzera; ma le insistenze dei lettori costringeranno Conan Doyle e porre in scena un rocambolesco ritorno di Holmes in The Adventure of the Empty House nel settembre 1903. Dove veniamo a scoprire che non è morto nella cascata, ma ha vagato per tre anni sotto falsa identità onde sfuggire al braccio destro del defunto, l’insidioso colonnello Moran, che riuscirà infine a incastrare al ritorno a Londra.
Certo i caratteri di Holmes sono quelli di un eroe mitologico: e dunque il nemico progettato per ucciderlo deve presentare uno statuto non meno eminente — nel male, è ovvio. A fronte infatti della relativa normalità dei casi criminali che costellano la carriera narrata da Watson, quale specchio di complessità e squallore della cronaca nera di ogni tempo e paese, l’apparizione di Moriarty sovverte il meccanismo seriale con una cesura drammatica: e nell’ambito di un ciclo epico dalle rigorose articolazioni razionali, l’ingresso del Professore, la progettata fine dell’Eroe e la sua inattesa ricomparsa appaiono segnati da motivi diversi, visionari e parareligiosi. Alcuni commentatori hanno rilevato il clima improbabile di The Final Problem, la persecuzione quasi onirica ricondotta da Nicholas Meyer (The Seven-per-cent Solution, 1974) al delirio da cocaina, e in effetti non si tratta di un caso da risolvere quanto di una morte da celebrare: ma la chiave più calzante resta probabilmente quella religioso-antropologica, angelologica, apocalittica. Nel mondo positivista di Conan Doyle, che persino nell’accesso allo spiritismo tenterà di rileggere in senso moderno e scientifico-sperimentale categorie dell’educazione cristiana (la Nuova Rivelazione, appunto), l’Arcicriminale riconduce la figura del classico vilain della letteratura gotica e popolare al Maligno per eccellenza. Moriarty, spiega Holmes, è un “Napoleon of crime” di genio: appare matematico insigne e autore di un trattato sul teorema binomiale, forse in eco dell’impunito Jack the Ripper firmatosi una volta “Mathematicus”. Ma insieme è vertice inafferrabile di un’organizzazione criminale titanica e complessa dal cuore di una Londra capitale della Civiltà: insomma un nemico assoluto dell’umanità, ciò di più simile al diavolo che il sistema potesse comprendere.
The Final Problem inscena una sorta di passione di Holmes, lo vede tentare da Moriarty, scatenare contro di lui la battaglia finale, poi fuggire una fuga escatologica (nel senso tecnico-letterario attestato per la comunità perseguitata) e duellare sull’abisso dove precipita il nemico — e dove sembra morire lui stesso, in un tributo al sublime (la Svizzera romantica e gotica), al gesto definitivo (la morte in singolar duello) e alla vertigine teologica dell’Apocalisse. Il rettilesco Moriarty che cade nell’abisso è la proiezione laicizzata del Dragone cadente Satana: e la riemersione di Holmes da quella stessa voragine di morte culmina nel suo riapparire dopo il tempo simbolico, di resurrezione, di tre anni. Non è probabilmente un caso che Tolkien, a distanza di decenni, proponga la morte apparente dell’indagatore Gandalf nel duello sulla voragine, e attribuisca sapore sinistro al prefisso Mor- (Mordor, Moria…) di Moriarty e Moran. Mentre neppure Holmes avrebbe previsto i tragici echi cifrati nel titolo The Final Problem, la raccapricciante soluzione finale di un Male operante nella storia.
Partorito per distruggere l’eccezionale Holmes, per azzerarlo quale corrispettivo di segno opposto (la matematica, ancora), il Professore non può esserne che una sorta di doppio, ombra e nemesi oscura — al punto che qualche commentatore li ha raccordati a uno stesso personaggio schizoide. Il grande detective si salva e dopo un tempo di resurrezione riappare ai lettori, ma la vicenda ha marcato definitivamente il prima e il dopo: e l’ultimo passaggio di Moriarty nel canone sherlockiano, il romanzo The Valley of Fear del 1914-15, si limiterà ad ampliarne il campo d’interessi all’astrofisica con un presunto, pionieristico saggio The Dynamics of an Asteroid.
Certo The Valley of Fear corregge parzialmente il tiro rispetto alla peculiarità formale, strutturale dell’apparizione di Moriarty in The Final Problem: il romanzo tratta di un caso criminale come altri, e come tale lo recepisce il film di Fisher. Ma la nebbia inafferrabile di cui Conan Doyle lascia circonfuso il professore anche in questa tardiva riemersione — la cui storia si ambienta, è ovvio, prima del duello di Reichenbach — non può che confermare l’impatto simbolico e mitologico del richiamo su un pubblico straordinariamente vasto.
Per questo, già nelle prime apparizioni teatrali di Holmes, Moriarty si presenta come avversario fisso; e su questo lavoreranno gli apocrifi letterari, con infinite variazioni sul tema. Senza pretese di completezza, pensiamo a The Return of Moriarty di John Gardner, 1974, dove alla scelta di un’equivoca non-belligeranza tra i due nemici in stallo supplirà l’opera di un oscuro funzionario di Scotland Yard; al già citato Meyer, che fa del “Napoleon of crime” l’innocuo e spaventatissimo ex-professore del cocainomane Holmes; a The Ultimate Crime di Isaac Asimov, 1976, che invece cerca di ricostruire le allarmanti teorie astrofisiche moriartiane. Anno Dracula di Kim Newman, 1992, vedrà il professore felicemente vampiro, per consolidare il proprio impero malefico e proseguire gli studi matematici oltre le barriere del tempo; e The List of 7 di Mark Frost, 1993, giungerà a contrapporre a un possibile prototipo “reale” di Holmes un fratello-ombra malvagio somma di Moriarty, Dracula e del mago Aleister Crowley — laddove un raccordo diretto tra l’Arcicriminale e il conte di Stoker (forse ucciso, secondo folklore, dall’acqua corrente del Reichenbach) è stato altrove proposto in parallelo all’identificazione tra Holmes e il presunto (simulato?) olandese Van Helsing. Ancora più recente, The Mandala of Sherlock Holmes di Jamyang Norbu, 1999 ricostruisce lo scontro finale in Tibet, negli “anni perduti” dopo il duello, tra i due sopravvissuti campioni del Bene e del Male; mentre su tale periodo e il dopo-Moriarty si diffonde The Oriental Casebook of Sherlock Holmes di Ted Riccardi, 2003.
L’assunzione teatrale di Moriarty a personaggio fisso tornerà ovviamente nel cinema, non disposto a farsi sfuggire la ghiotta occasione di un simile antagonista. Basti pensare ai tre volti del Professore in altrettante pellicole 1939, 1942 e 1945 contro Holmes-Basil Rathbone (George Zucco, Lionel Atwill e Henry Daniell, celebri vilain di pellicole avventurose e orrorifiche); alla maschera subdola offerta da Söhnker nel citato La valle del terrore e all’aria ambigua e spaurita di Laurence Olivier nella versione cinematografica del romanzo di Meyer, 1976; e, lo stesso anno, al cameo luciferino di John Houston in Sherlock Holmes in New York. Ancora nel 2003, il criminale totale di The League of Extraordinary Gentlemen di Stephen Norrington ispirato liberamente allo splendido fumetto di Alan Moore e Kevin O’Neill si svelerà alla fine il Professore sopravvissuto a Reichenbach (Richard Roxburgh, nel 2004 Dracula in Van Helsing). E d’altro canto proprio da Moriarty erano già germinati epigoni letterari e cinematografici come il terribile dottor Lipsius di The Three Impostors di Arthur Machen (del ’95, dunque immediatamente successivo a The Final Problem e ammiratissimo da Conan Doyle) e, con qualche spruzzata di mitologia del Mad Doctor e di angoscia espressionistica del Tiranno, il Fu Manchu di Sax Rohmer e il Mabuse langhiano, proiezioni deformate delle ombre di un’epoca.
Resta aperta la ricerca sulle fonti ispiratrici: e a parte i modelli letterari, l’impunità di Moriarty sembra trovare qualche punto di raffronto in quella di Jack lo Squartatore, appunto il “Mathematicus” operante pochi anni prima (1888) nella stessa Londra. Certo, cambia totalmente il profilo del criminale, prima ancora del movente: e più vicino all’imprenditore del crimine dipinto da Doyle e candidato più credibile pare Adam Worth, partito borsaiolo da strada ed evoluto via via in rapinatore, boss internazionale e uomo d’affari, arrestato in Belgio proprio nel 1893 (cfr. la biografia di Ben Macintyre, The Napoleon of Crime, HarperCollins, London 1997). Mentre, per il nome dell’Arcicriminale, un’ipotesi suggestiva di Massimo Introvigne lo vorrebbe derivato da quello di Theodore William Carte Moriarty (1873-1923), un professore angloirlandese massone ed esoterista. L’interesse per l’occulto non gli impedì una posizione molto critica verso lo spiritismo, che tanto successo riscuoteva al tempo e di cui lo stesso Conan Doyle (abbiamo visto) era seguace: donde forse, per antipatia, il nome all’Immenso Cattivo.
La proposta potrebbe risultare problematica per motivi di datazione (Sir Arthur iniziò ad interessarsi di spiritismo nel 1880, ma solo nel ’15 si dichiarerà soddisfatto delle prove raccolte); però di sicuro l’esoterista Moriarty fu modello di un altro personaggio legato all’immaginario su Holmes, cioè il protagonista della raccolta The Secrets of Doctor Taverner di Dion Fortune, 1926. Al secolo Violet Mary Firth, Dion Fortune (1890 o 1891-1946) fu narratrice di qualche virtù, e il testo in questione — con il dottore psichico Taverner che fronteggia i più vari fenomeni paranormali — rappresenta forse il più godibile della sua produzione per un pubblico odierno: ma la scrittrice gallese fu soprattutto un nome insigne dell’esoterismo del XX secolo, un’occultista perbene che attraverso contatti con varie scuole — gli epigoni della leggendaria Golden Dawn, la Società Teosofica, il gruppo di Moriarty di cui fu discepola — cercò di sposare la tradizione ermetica alle moderne scienze umane (Freud, Jung) nell’esaltazione del principio femminile, lasciando una vasta produzione saggistica. A Moriarty-Taverner, che l’aveva strappata alla crisi profonda (tre anni, come per la resurrezione di Holmes) causata da una presunta aggressione psichica, la legarono ammirazione e gratitudine: ne è traccia il rapporto tra il Taverner “Sherlock Holmes dell’occulto” e il fido assistente Rhodes, voce narrante che rammenta Watson. Una caratterizzazione, quella del Santo Esoterista taumaturgo delle anime, ancora in fondo nel segno dell’estremo.
Tuttavia l’Arconte dell’impunito mantiene ancor oggi una sua potenza simbolica: e in particolare rimane sullo sfondo — mitico, legato a istanze simboliche che continuano a interpellarci quali paradigmi e possibilità — della percezione corrente del diritto. All’epoca di Conan Doyle il pubblico delle riviste popolari aveva già incontrato infiniti “cattivi” più o meno sfuggenti alla giustizia, ma l’apparizione di Moriarty segna un momento significativo, in qualche modo di svolta: e cioè la compiuta recezione, nell’immaginario collettivo, dei limiti del principio probatorio, dell’inquietudine di un male eminente e sospettato ma impossibile da accusare in assenza di prove, e della complessità strutturale e sociale che rende agevole l’impunità. Si pensi alla tentacolare evoluzione del fenomeno mafioso, alle riflessioni sui “livelli” delle moderne architetture criminali, o a certe scatole cinesi societarie atte a favorire paraboliche impunità di gerarchi economici.
A differenza che per gli eredi di Rocambole, fino al simpatico Lupin e al pur inquietante Fantômas, nel caso di Moriarty non c’è spazio di ammirazione verso il criminale (o meglio è ammirato Holmes, non il lettore): ci troviamo in sostanza di fronte alla prima grande icona popolare dell’irresolubile dialettica tra indignazione di giustizia e saggezza garantista. La classica accusa volta agli inquirenti, in procedimenti anche recenti, di “seguire un teorema” evoca il mito dell’Arcicriminale non solo nella terminologia matematica cara a Moriarty ma nell’idea di uno stereotipo aggressivo, magari ideologico, in assenza o labilità di prove: e tuttavia proprio la storia recente — citare la via obliqua battuta per fermare Al Capone pare l’esempio più innocuo — mostra come la figura mitica possa trovare riscontri minacciosamente concreti tra le pieghe delle nostre complesse strutture sociali, economiche e politiche.
Certo la mitologia va trattata con prudenza, e più semplicemente la maschera di Moriarty evoca una terribile possibilità. Mentre poco importa che gli arcimpuniti postulati, sospettati e (a volte) smascherati risultino tanto distanti per genio e cultura dal nemico di Sherlock Holmes.