bertante_aldiavul.jpgdi Giuseppe Genna

Nell’attuale, intensissimo dibattito sul New Italian Epic e sugli orizzonti delle poetiche narrative che stanno prendendo forma in questi anni in Italia, si inserisce prepotentemente il bellissimo romanzo di Alessandro Bertante, frecciabr.gif Al Diavul (Marsilio, € 17). Si tratta di un romanzo storico e, nonostante ciò, nitidamente e sinceramente autobiografico, che interroga un momento nodale del passato ed esprime una renitenza all’assenso di quella onnipersistenza vorace del presente, di questo devastato presente, che si erge a epoca definitiva e chiude i conti con ciò che lo ha prodotto, formulando un giudizio indecente e autocratico, e al tempo stesso desiderando bloccare ogni deriva autonoma e impazzita che conduca a un futuro diverso da quello calcolato.
Lo snodo storico in cui la scrittura veloce di Bertante entra attraverso diverse piattaforme conoscitive sono in realtà due momenti, osmotici, collidenti: l’affermarsi del Fascismo in Italia e la Rivoluzione che parte dalla Barcellona di Durruti nel ’36.

Immediatamente, nell’inabissamento all’interno del racconto storico, vengono fatti emergere temi che riguardano il nostro tempo, la generazione dei 30/40enni italiani – ma, fatto più rilevante, anche e soprattutto i temi universali della letteratura: l’amore, l’identità, il conflitto, l’amicizia, il rapporto con i valori, la politica, la morte.
Questo è un libro sull’eroismo. E’ l’eroismo la chiave di tutto ciò che risuona epico. E’ l’eroismo che il presente rigetta sdegnosamente. La risposta letteraria è: costruire e distruggere eroismo.

alessandro_bertante.jpgIl protagonista del romanzo di Bertante è Errico Nebbiascura, il figlio del fabbro anarchico Ruggero. E l’uno e l’altro sono marchiati dal soprannome demonico di “al Diavul”. Errico, in particolare, perché nato con un occhio viola, come David Bowie. Quest’occhio, che è uno stilema omerico che giunge ben oltre la ferita di Achab, è un segno del destino inquietante, la spia che segnala “il dono”: una sorta di preveggenza del dramma e della tragedia, che Errico “sente” giungere in anticipo – solo alcune volte, spesso non quelle decisive.
La vicenda si svolge nell’Alessandrino, nei primi decenni del Novecento, un secolo che è detto indistintamente o “breve” o “veloce” – ed è straordinaria la mimesi che di questa velocità fa Bertante, usando una scrittura che parte come lingua apparentemente di servizio, per accelerare verso la fine, momento folgorante in cui lo stile si contrae, diventa spigoloso, incisivo, quasi oracolare, a segnalare un debito nei confronti Ellroy probabilmente, anche se si tratta di un Ellroy totalmente de-ellroyizzato, poiché il momento in cui interviene questa fulminazione continua per brevi frasi è la fase terminale che è sfinimento – un elemento in Ellroy esiste solo implicitamente, poiché è sempre superato dall’adrenalinizzazione che ha proprio lo sfinimento e la non pacificazione come ostacoli finzionali ed esistenziali.
Non in Bertante, che nella vicenda di Errico fantasmizza se stesso e la sua percezione del mondo, a principiare dal dramma della presa di potere da parte di Mussolini, che esplode in Errico attraverso una sorta di elegia distonica, un’impotenza nostalgica che segna la precoce stagione di un uomo che non conosce ancora le diramazioni sorprendenti del proprio destino. Immobilizzato, annichilito per la sconfitta degli anarchici e dei socialisti, colpito da lutti che vanno dalla Prima guerra mondiale fino agli esiti sanguinari delle azioni degli squadristi in camicia nera, Errico è il ritratto dell’impotenza che cova odio, dell’abulia che coglie chi è affetto da un surplus di potenza. E’ il padre Ruggero a sbloccare il destino del figlio: Al Diavul passa il testimone all’altro Al Diavul, procurandogli la via di fuga clandestina verso la Spagna, con approdo in una Barcellona da estasi gioiosa, in cui fermenta il sogno metastorico della Rivoluzione. Da questo momento, è un’accelerazione: la ricchezza esistenziale della preparazione di una lotta decisiva, l’irrompere nella narrazione di figure leggendarie, lo spalancamento quasi stilnovistico della figura amorosa (l’indimenticabile Marisòl), fino al tumulto autentico, alla guerra guerreggiata, all’orda contro orda, all’apice della vittoria e alla conseguente caduta delle illusioni rivoluzionarie, al dramma personale di Errico, esposto al nulla del mondo, alla ferocia che non sutura la ferita.
Al Diavul è strutturato secondo lo stilema del “manoscritto ritrovato”, a sua volta erede dello stilema epico della prosopopea. E’ interessantissimo l’utilizzo che Bertante fa dell’occasione che gli offre il “manoscritto ritrovato”: il racconto si costruisce rapido per scene incisive e veloci, a volte appena accennate, i fatti si susseguono a un ritmo non vertiginoso ma comunque scorrevolissimo, i dialoghi sono rari, la confessione è avvincente, grazie alla medietà della lingua, priva di suspence eppure assai magnetica – tanto che la lettura è fulminea, strapiena di appigli immaginativi che avrebbero potuto essere esplosi in scene memorabili, ma che restano comunque memorabili, perché è l’immaginazione del lettore a fare immancabilmente esplodere quei momenti, quei personaggi (la pagina dedicata al baro detto “il Lomellino” in questo senso avrebbe da insegnare parecchio a chi, come lo scrivente, utilizza la digressione quale forma di epopea deviante: qui siamo al ritratto della leggenda, qui si tocca la sostanza immaginifica del leggendario).
E’ una catena, storicamente accurata, per cui si scorre da un anello al successivo, con foga – la medesima che anima le gesta e le emozioni eclatanti da cui è sopraffatto Errico. In questo, si gioca molto dell’autobiografico di Bertante, scrittore classe 1969. Si dà qui corpo al desiderio frustrato che tutta una generazione ha espresso: quello di giocare la propria idea di rivoluzione, in un momento formativo devastante, perché controllato (cognitivamente, emotivamente, e, va sottinteso, anche militarmente) e sotto scacco consumistico, e cioè il frangente che fa da tramite tra gli Ottanta e i Novanta, specialmente a Milano, dove l’autore è cresciuto. Questo sogno rivoluzionario è metastorico e Al Diavul conduce la tesi al suo parossismo: il sogno di una società giusta e migliore continua a non tramontare, e la letteratura è il suo estremo rifugio in momenti di débacle sociale e politica. La consapevolezza delle ragioni della sconfitta anarchica in Spagna, compresa la più volte sottolineata preponderanza del tradimento stalinista, corrisponde in via allegorica all’asfissia che un blocco generazionale ha condotto in Italia su chi viene dopo: cioè le generazioni successive, escluse dall’usuale patto che trasmette appartenenza, vizi e virtù su cui si fonda lo scontro e la coappartenenza allo stesso mondo. La sconfitta rivoluzionaria spagnola narrata da Bertante (autore del pamphlet Contro il ’68, che ha sollevato una ridda di discussioni) ha un parallelo nello stato di glaciazione che la generazione dei 50/70enni in Italia ha imposto con le sue lordure etiche, i suoi continui voltafaccia osceni, la sua imbelle autoreferenzialità, i suoi giudizi trancianti su ciò che è stato creato dopo che questa generazione ha depositato le sue uova scadute col pulcino morto dentro, l’abissale ignoranza e l’assoluta vergognosa incapacità di interessarsi al nuovo e al diverso. Atto d’accusa narrativo di potenza deflagrante, Al Diavul fa anche il ritratto di questa Italia che le Mummie vorrebbero in stato comatoso, poiché Esse sono in stato comatoso – e che invece sfugge al parkinsonismo anche grazie a romanzi come quello di Alessandro Bertante.
I cavalieri, l’arme e l’amor continuano a essere cantati. La crepa si sta allargando. Al Diavul è uno dei testi che allargano questa crepa. Che è culturale, ma si somma a quella biologica che colpirà, entro un decennio, molte Mummie. Le barricate barcellonesi, descritte con perizia ritrattistica in Al Diavul, sono anch’esse metastoriche. Il metastorico è il canto dell’arme e dell’amor: è il canto del mistero umano, che ha paura della sconfitta, la subisce, può anche perdere la cognizione, ma continua a essere. Lo sfinimento porta dietro di sé una costanza implacabile: quella della testimonianza attiva. E’ questo genere di guerra interiore ed esteriorizzata, letteraria, che Alessandro Bertante ha condotto in Al Diavul, per tutti noi lettori contemporanei, per quelli a venire.