di Mauro Gervasini

MR73.jpgEsiste una verità al cinema? No, direbbe Jim Harrison: solo storie. L’ispirazione, il senso di un film (come di un libro, un disco) meglio siano magmatici e mai conformi a un’idea univoca di produzione. Di fronte alla dilagante omologazione della settima arte, ormai pratica mercantile in quasi tutto il mondo, conviene appassionarsi e difendere i titoli irrispettosi di qualunque canone, fosse anche “autoriale”. Per questo consideriamo come irrinunciabili Into the Wild di Sean Penn e I padroni della notte di James Gray, unici americani in circolazione a essere sbrindellati e saturi quindi veri, perché bulimici di vita e storie, al contrario dei troppo controllati exploit di P.T. Anderson (There Will Be Blood), che stempera il proprio talento nel gigantismo kubrickiano, e dei fratelli Coen (Non è un paese per vecchi), prigionieri di una letteraria programmaticità. Penn e Gray eccedono, sono meno perfetti, quindi non levigati, appiccicosi. Disturbanti nei pregi e commoventi nei difetti.

Succede anche con L’ultima missione, soffocante polar di Olivier Marchal in origine intitolato come il modello della pistola usato dalla polizia nazionale francese negli anni 70, la Mr 73. Marchal è un ex sbirro, dodici anni di servizio otto dei quali nella cosiddetta “Bri” di Parigi, la brigata di intervento rapido. Quelli duri. L’ultima missione conclude una trilogia cominciata con Gangsters e proseguita con 36, Quai des Orfèvres: affreschi di un mondo notturno e urbano, spietato e votato al più cupo pessimismo. I criminali di Marchal sono irredimibili, la fede progressista nella perfettibilità dell’animo umano una favoletta. Possono avere un codice d’onore come in Melville, ma il proprio destino nero se lo sono scelto, quindi il fatalismo è d’obbligo e la mancanza di speranza scontata. Alcuni, come i serial killer di L’ultima missione, non meritano la pietà di nessuno. I suoi sbirri, invece, sono maledetti per definizione. Possono fare bene il loro lavoro nonostante più alcol che sangue nelle vene, come Daniel Auteuil, oppure essere marci fino al midollo come il Depardieu di 36, ma partecipano del medesimo abisso dei criminali. La bravura del regista-sbirro è prima di tutto descrittiva. Di commissariati e bassifondi è realistica ogni particella romanzesca. E ha un talento naturale nel trovare le facce. Quelle giuste, segnate, con il marciapiede stampato sulla fronte.

Eppure L’ultima missione non è un bel film, nel senso che la critica semaforica (quella dei pallini, delle stellette, delle faccine…) dà alla convenzionalità del giudizio. Sconclusionato, zeppo di rivoli narrativi, stereotipato nello studio dei caratteri e con troppa roba dentro. Difetti, appunto. Commoventi. Perché poi è l’energia di Marchal a contare davvero, la sua percepibile passione per queste storie maledette, di nessuna delle quali vuole fare a meno, a costo di sbagliare e deragliare. Un film totalmente fuori misura, senza controllo che non sia quello delle intuizioni estetiche. La notte di pece e la voce sofferta di Leonard Cohen, lo sguardo liquido di Auteuil e quello rabbioso di Olivia Benamy, la ragazza che non si rassegna. La durezza degli scontri a fuoco e la cattiveria dei personaggi, nessuno escluso («Io non sono una brava persona» dice il protagonista). Quanto è banale il montaggio alternato tra lo sbirro che schiatta e il bambino che vede la luce in una valle di lacrime. Ma quanto è comunque indispensabile per ricordare che si nasce e si muore nella sofferenza, e in mezzo ci si sbatte per schivare le pallottole. Nessuna verità, nessuna sceneggiatura rigida e preconfezionata a rendere conciliante il film. Solo storie. Aspre e Nere.