di Angelo Scotto

Ombra.jpgQuando aprii gli occhi, capii di essermi cacciato in un guaio.
Ero seduto con la schiena appoggiata alla ringhiera di una scala che portava in un sotterraneo, una gamba piegata e l’altra distesa, un po’ come Adamo quando ricevette la scintilla della vita dal barbuto Signore nella Creazione di Michelangelo. E il paragone poteva anche continuare, perché come Adamo ero nudo, e come Adamo la mia vita era appena cominciata. O meglio, ricominciata.
Che fossi nudo, l’avevo capito dalla sensazione di freddo sulla pelle, nonostante non ci fosse che una brezza leggerissima. Mi passai una mano sullo stomaco, sull’inguine e sulle gambe per accertarmi che l’intuizione fosse giusta. Non potevo vedere bene il mio corpo, perché era notte fonda, e non c’erano lampioni vicino a me, tranne uno che era però rotto. Una sfortuna, visto che un po’ a distanza ce n’erano altri che invece funzionavano benissimo, e rischiaravano con il loro neon gli alti edifici del cimitero.

Sino all’istante prima di aprire gli occhi ero morto. Non potrei offrire una prova di questa affermazione, ma così stanno le cose. Di fatto, sono risorto. Gli argomenti a favore non mancano: innanzitutto, mi ero ritrovato nel cimitero, per di più nel settore dove venivano sepolti i defunti più recenti, come ben testimoniano le strutture in costruzione che intravidi poco lontano. Poteva essere uno di quei rari casi di risveglio da uno stato di morte apparente? Ma io non mi ero svegliato. Avevo aperto gli occhi acquistando totale coscienza in quel preciso momento, non avevo recuperato i sensi un po’ alla volta, né mi ero chiesto “dove mi trovo?” in preda allo smarrimento. Ero tornato in vita, ed ero consapevole di ciò sin dal primo istante. Del resto, se fosse stata morte apparente mi sarei dovuto risvegliare disteso nell’obitorio, o addirittura all’interno del loculo — e in tal caso avrei fatto meglio a non risvegliarmi, tanto a quel punto ero spacciato — e avrei avuto qualche vestito addosso. E invece no, ero seduto e senza abiti. Certo, visto che mi avevano fatto risorgere fuori dalla tomba avrebbero potuto farmi tornare in vita in qualche altro posto, e magari con una dotazione che andasse oltre il corpo, ma c’è poco da fare: le cose erano andate in quel modo.
Forse tutto questo non basta a rendere credibile l’idea di una resurrezione. In effetti si tratta di un evento così straordinario che riesce difficile prenderlo per vero. I seguaci del paranormale hanno un grande difetto, lo dicevo sempre quando ero vivo la prima volta: di fronte ad un fenomeno di cui la scienza non sa dare spiegazioni, essi dicono “è inspiegabile!” e quindi vi allacciano le loro strampalate teorie; non occorre essere geni per capire che se una cosa non ha spiegazioni ora non vuol dire che non possa essere spiegata in futuro, con gli sviluppi della conoscenza. Eppure adesso mi trovo io in una situazione che può essere senza dubbio definita paranormale, e se una spiegazione razionale c’è temo che sia ad un livello di conoscenza così alto che la nostra scienza non solo non l’ha ancora raggiunto, ma nemmeno prevede di raggiungerlo in tempi brevi, laddove per brevi intendo secoli e millenni. Di fronte a qualcosa del genere la tentazione è di sminuire tutto, negare il problema alla radice, far partire tutto da un errore, da una percezione sbagliata. Sia chiaro che questo metodo non mi sembra affatto sbagliato, io l’ho usato spesso e probabilmente lo userei anche ora in altre questioni; con tutti i problemi e le preoccupazioni che ci sono nella vita, figuriamoci se si può perdere tempo anche appresso a storie bizzarre ed inspiegabili, meglio ridurle a sciocchezze e andiamo avanti. Però adesso io non lo posso fare, perché sono al centro della storia. Non posso ridurre tutto ad uno scherzo della mente, anche se in teoria potrebbe anche essere questa la risposta. Sono morto e sono tornato in vita, e se qualcuno vuole impiegare un po’ del suo tempo ad ascoltarmi non mi chieda spiegazioni più precise, perché non le posso dare. So delle cose che per me confermano quello che sto dicendo, ma per gli altri non sarebbero che chiacchiere in più, strutture di sicurezza di un edificio a cui mancano le fondamenta. Mi immagino qualcuno che si fa avanti e con il sorriso con le labbra dice che non importa, meglio di niente, ascoltiamo queste cose, lascia che siamo noi a giudicare la loro credibilità. Apro la bocca e so già che nulla di ciò che uscirà dalle mie labbra sarà considerato vero, a priori, una consapevolezza che in altre situazioni mi farebbe perdere la calma e reagire male, ma non adesso: non ho nulla da perdere, ma non posso perdere nulla. Nessuno mi lega, ma sono come in una gabbia, e faccio quel che mi è concesso di fare. Quindi parlo, e racconto la circostanza che ai miei occhi dimostra la mia resurrezione. Ricordo il momento della mia morte.

Suona il citofono. Abbandono a malincuore Naomi Klein e vado a rispondere.
“Sono Enzo”
“Che vuoi?”
“Posso salire? Devo parlarti”
Perché non so dire di no? Sono giorni che mi assilla con questa storia. Ma gli apro il portone. Tempo tre minuti e bussa alla porta di casa.
“Io non ce la faccio più” mi dice mentre preparo un caffé. Sarei tentato di dirgli “Nemmeno io” ma mi trattengo.
“Se Elena mi lascia io la ammazzo” continua.
“Messa così è un po’ brutale”
“Ma mi devi credere, io non vivo senza di lei”
“Ci credo, ci credo. Ma se dovesse lasciarti, non faresti meglio ad ammazzarti tu? Almeno rovini la vita ad una sola persona invece che a due”
“Senti, io ho bisogno di parlare, ci sto male cazzo, non fare lo stronzo”
“Scusa tanto, eh, ma tu parli di ammazzarla e sarei io lo stronzo? Che poi, a rigor di logica, se non vivi senza di lei ucciderla non mi sembra il modo migliore per risolvere il problema”
“Tu non capisci”
“Già, sarò scemo”
Segue una pausa, in cui il caffé inizia ad uscire. Caffé “Zapatista”, costa un occhio ma è da provare, se non altro per sentirsi sovversivi maneggiando una cuccuma.
“Quanto zucchero?”
“Due cucchiaini. Non troppo zucchero in ogni cucchiaino”
“Sei così pignolo anche con Elena? Ora capisco perché ti vuole lasciare”
“Ti ho già detto di non fare…”
“… lo stronzo, lo so. Ma se permetti tu sei venuto qui a casa mia per parlare con me, non il contrario, quindi dico quello che voglio, e se non ti va bene quella è la porta, chiaro?”
Porgo la tazzina ad Enzo, che la prende e deglutisce.
“Ti credevo un amico”
“Penso di esserlo. Ma non per questo devo sempre acconsentire a tutto quello che dici, soprattutto quando è del tutto sballato”
“Dico cose sballate, secondo te?”
“Fai cose sballate, e di conseguenza le dici anche. Poi magari sbaglierò io, ma sino a prova contraria quello che sta male sei tu”
“Mica l’ho deciso io di stare male, lo sai”
“Però contribuisci”
“Allora vedi che dici che sono io a sbagliare?”
“E certo che lo dico! Se Elena ti vuole lasciare è anche colpa tua”
“Ma è più colpa sua! Lo sai meglio di me come sono andate le cose”
Mi manca l’università. Ma mi sono laureato e non ho trovato un cazzo, quindi eccomi di nuovo in questa città, a vivere in casa dei miei, in attesa di un posto promesso che chissà quando si libererà, tra i rimpianti di scelte avventate e i problemi di conoscenti di un tempo trasformatisi in ottimi lavoratori e pessime persone. Non mi stupisco di essere diventato molto più intollerante ai questuanti.
“Ok, allora ripetimi come sono andate le cose, così chiariamo la situazione”
“Elena non si è comportata bene, lo sai. Una volta ho sgobbato sino alle undici di sera per finire un lavoro, torno a casa distrutto e chi vedo nel bar all’angolo? Lei con un altro!”
“Udite udite”
“Come sarebbe a dire udite udite?”
“Sarebbe a dire che era un amico, non un amante… era Gigi, per la madonna! Si conoscono dalle elementari!”
“Ma ti pare bello che alle undici di sera si trovasse con un altro uomo mentre io lavoravo? Che poi mica è stata la prima volta che si è vista con altri”
“Altri amici”
“Ma sempre altri”
“Ma te sei di coccio, fattelo dire! Sai cosa vuol dire “amico”? Avrebbe potuto uscire anche con me, volendo!”
“Con te?” chiede lui guardandomi con occhi ridotti a spilli.
“Si fa per dire, non è uscita con me, tranquillo…”
“E vedi di non dirlo… insomma, avevo dei buoni motivi per arrabbiarmi con lei”
“Non avevi dei buoni motivi per darle quello schiaffo” sbotto io, arrivando al punto.
“È stata una reazione spontanea!”
“E secondo te questo sminuisce la cosa? Io nemmeno capisco perché Elena ci stia riflettendo ancora, se lasciarti o meno!”
“Ma insomma, tu da che parte stai?” grida Enzo esasperato.
“Dalla mia” urlo pure io, e lì per lì non realizzo che la frase potrebbe essere interpretata nella maniera sbagliata. Enzo comunque sembra afflosciarsi quando alzo la voce. Non ha nemmeno bevuto tutto il suo caffé. Si alza senza dire una parola.
Lo prendo per un braccio.
“Devi imparare a controllarti. Cerca di essere più tollerante. Secondo me Elena ti lascerà, ma non vuol dire che è finito tutto. Se davvero non vivi senza di lei, trattala con più fiducia, e vedrai che tornerà”
Cerco di confortarlo così, e lo accompagno alla porta. Gli chiamo pure l’ascensore. Quando lo vedo entrare, chiudo la porta con un sospiro di sollievo. Non riesco a fare due metri che sento suonare alla porta.
“Ma che rompicoglioni!” esclamo, troppo seccato per preoccuparmi di non farmi sentire. Apro la porta e inizio a dire “Insomma che vuoi ancora?” ma non faccio in tempo ad arrivare al “che”: Enzo mi sferra un pugno che mi rompe gli occhiali.
Cado all’indietro, sbatto la testa. Un dolore acuto, ma non così tanto da svenire. Forse sarebbe stato meglio. La lente destra è andata in frantumi, piccoli pezzi mi squarciano il volto e si infilano negli occhi, il sangue mi annebbia. Ho sempre avuto il terrore di perdere la vista, ora ho due terrori in pochi secondi. Cerco di alzarmi ma Enzo mi sferra un calcio nello stomaco, mi raggomitolo come un lombrico. Mi dà un altro calcio, un altro ancora. Boccheggio. Nella mente migliaia di pensieri sconvolti come una mandria di animali chiusi in un recinto in fiamme, così caotici e confusionari da diventare quasi fisici, al punto che a malapena sento quello che mi urla dietro, riesco appena a sentire uno “stronzo!” digrignato.
Ora mi prende a pugni sulle spalle, sui fianchi, sulla testa. Mi copro il capo con le braccia, e non so come ma riesco a vedere i suoi piedi a pochi centimetri dai miei: una riflessione fulminea, ruoto sul parquet e gli faccio lo sgambetto con entrambe le gambe, cade pesantemente a terra.
Non ho la forza di alzarmi, ma orientandomi a tentoni striscio verso il salone, lì a fianco del caminetto c’è il telefono più vicino. Chiamare aiuto, chiamare i miei, chiamare qualcuno. Enzo non mi raggiunge subito, è talmente infuriato da aver quasi perso la coordinazione del suo corpo, lo sento che mentre si rialza si aggroviglia su sé stesso e cade di nuovo. Mi conforta, magari riesco a risollevarmi prima che mi raggiunga. Ma quando arrivo al tavolo del salone, al telefono, alla salvezza, un colpo tra le scapole mi tramortisce: Enzo si è rialzato, ma non è corso subito da me, prima è andato al caminetto e ha preso l’attizzatoio, quello con cui mi ha colpito e con cui mi colpisce ancora, più volte, sino al colpo definitivo che spegne la luce.

Beh, non è un bel modo di morire. Ma esiste un bel modo?
Sembrerà strano, ma non provo odio o desiderio di vendetta nei confronti del mio assassino. Non credo sia virtù, semplicemente ho cose decisamente più importanti a cui pensare in questo momento. Credo che non ci sia bisogno di spiegare il motivo.
Quello che è successo dopo l’uccisione, l’ho già detto. Ho aperto gli occhi, ero nel cimitero, sapevo tutto. Ma quest’ultima cosa non è vera, non sapevo tutto, anzi, a pensarci bene sapevo solo il minimo. Sapevo di essere tornato dalla morte. Bella notizia, eh. Presa così, da sola, è un impiccio più che altro.
Se qualcuno mi credesse, come prima cosa mi chiederebbe cosa c’è dopo la morte. La domanda definitiva. Sono convinto che tutte le religioni siano nate da qua, dal quesito che pone tutti gli altri. Curioso che ogni religione ci parli dell’inizio, del Dio che crea, ma tutto in funzione del problema della fine. Se potessi rispondere a questa domanda sarei il padrone del mondo, anche gli uomini più potenti verrebbero da me a chiedere lumi, e forse potrei dettare nuove regole di comportamento che tutti accetterebbero. Disgraziatamente, non posso rispondere. Non mi ricordo cosa c’è dopo la morte. Tiratemi pure i pomodori marci, ma non imploratemi di fare uno sforzo di memoria: non è che ho dimenticato, la memoria — se di memoria si può parlare per l’aldilà — è stata cancellata, resettata, formattata. So che tra l’istante in cui i miei organi vitali avevano smesso di funzionare e quello in cui ho riaperto gli occhi c’è stato qualcosa, ma non so cosa. Non posso definirlo un vuoto, al massimo un pieno, se mi si passa il gioco di parole: è come un blocco oscuro di cui non so nulla, ma la sua presenza in sé non mi turba, almeno finché non inizio a pormi delle domande. Ma di questo ne parlerò dopo.
Ho detto anche che ero nudo. È stato un brivido di freddo a farmi porre la prima domanda: e adesso che faccio? Sapevo di essere risorto, ma tutto il resto era sospeso nella nebbia del dubbio. Ad esempio: i ricordi e la personalità erano indubbiamente gli stessi che avevo prima della morte, ma il corpo? La prima domanda di una lunga serie, ma almeno a questa era facile rispondere: mi alzai e corsi verso il più vicino lampione funzionante, in modo da potermi controllare. Sicuramente l’altezza era quella giusta, e quando fui sotto la luce verificai che anche il resto corrispondeva: avevo la stessa pancia, lo stesso petto, le stesse gambe. Il pene era della stesse lunghezza, avevo pure gli stessi nei. Indubbiamente, era il mio corpo. Non c’erano specchi nei paraggi, ma a quel punto era logico supporre che anche il volto fosse rimasto uguale, e con una carezza sulla guancia verificai che avevo anche la barba di tre giorni, esattamente come nel giorno della morte.
Con questo potevo escludere la possibilità di una reincarnazione dell’anima in un altro corpo — idea assurda, d’accordo, ma nella mia situazione nessuna assurdità può essere esclusa, temo — e devo ammettere che questa conclusione mi aveva instillato uno strano senso di sollievo e tranquillità, del tutto immotivato se ci si riflette razionalmente, ma evidentemente non seguivo molto la logica in quel frangente. Comunque, sta di fatto che sapendo di essere nel mio corpo e non in altri mi sentii più leggero, al punto che per la prima volta dal ritorno mi posi la domanda su come era possibile che io fossi risorto. Non avevo una spiegazione da darmi, ma il primo pensiero che mi venne in mente fu il ricordo di un sogno che avevo fatto molti anni fa, dopo la morte di mio nonno. Avevo sognato che ero in casa mia, in cucina, e c’era la tavola apparecchiata per cena — tovaglia rosa, trama a quadri, zuppa indefinita nei piatti, crostini di pane che galleggiavano — tutti eravamo seduti intorno, e c’era anche mio nonno. “Ma com’è possibile?” dissi io “Il nonno è morto”. E mio padre sorridendo rispose: “Non lo sai? Dopo un po’ di tempo i morti ritornano in vita”.
Era solo un sogno, naturalmente, e abbastanza insensato, anche se ora lo trovo calzante a dir poco. Ma so bene che non è questa la spiegazione, visto che sino a prova contraria non si hanno notizie di morti che ritornano, né pochi né tanti. Ma il ricordo del sogno suscitò un nuovo dubbio, più terra terra: quanto tempo era passato tra la morte e la resurrezione?
La questione è importante, fondamentale oserei dire. Per quanto ne sapevo, potevano essere passati pochi giorni così come dieci anni, se non di più. Forse il ricordo di me era ancora fresco e sanguinante nei miei parenti ed amici, o forse ormai erano scomparsi i primi e lontani i secondi, chi poteva dirlo? Dovevo cercare di capire la data in cui ero tornato a vivere, ma appena pensai questo realizzai anche come fosse difficile mettere in pratica tale proposito: ero chiuso in un cimitero di notte, e quindi sarebbe stato un problema già uscire, per di più ero nudo, quindi diventava difficoltoso anche raggiungere le zone abitate: come fare a trovare un punto di riferimento temporale? Probabilmente nei cassonetti e nei cestini c’erano molti fogli di giornali recenti, riciclati dopo la lettura come involucro dei fiori per i cari estinti, ma mettersi a frugare al buio nei rifiuti non era un’idea molto allettante.
In quella situazione, l’unica era uscire dal cimitero. Non potendo contare su indicatori precisi, dovevo cercare di osservarmi intorno e dedurre dallo scenario cittadino quanto tempo era passato. Nel cimitero non potevo riuscirci, in più di vent’anni l’ho sempre visto uguale, sempre come ora. Dovevo uscire, e purtroppo non dalla porta principale, dove sarebbe stato facilissimo incappare nei custodi, e non era il caso. Ma sapevo come uscire senza dare nell’occhio, perché già una volta, in passato, ero entrato in un cimitero di notte.

SCENARIO: aula della classe quarta della sezione D
PERSONAGGI: Io, Fabio, Massimo (mi fossi chiamato Quinto, sarebbe stato da ridere)
Fabio: Il 2 novembre cade di sabato quest’anno
Io: Ponte
Massimo: Ponte
Fabio: Già, ponte.
Risate
Massimo: Perché non venite a casa mia? Passiamo la mattinata a giocare a Metal Gear Solid
Fabio: Eh, magari, io devo andare con i miei al cimitero. Due palle…
Io: I miei non ci vanno mai il 2 novembre, dicono che c’è troppa ressa. Andiamo sempre qualche giorno dopo o qualche giorno prima, tanto l’importante è fare la visita
Fabio: I tuoi sono furbi
Risate
Massimo: Però sul serio, uno va al cimitero e vorrebbe un po’ di raccoglimento, se ci vanno tutti insieme sai che casino
Io: L’ideale sarebbe andarci di notte
Fabio: Io avrei paura ad andarci di notte
Io: Perché? Sempre tombe sono, non è che cambia molto
Fabio: Ma sai, è comunque il cimitero, l’atmosfera mi farebbe impressione… e poi in tutti i casi non si può
Massimo: Non si può per modo di dire, non credo che ci siano così tanti guardiani
Io: Tutto sta ad entrare senza farsi vedere, poi si può girare indisturbati, penso
Fabio: Ma perché entrare in un cimitero di notte?
Massimo: A forza di parlarne mi sta venendo voglia di provarci davvero
Io: Si può fare, no? Così per curiosità
Alla fine lo abbiamo fatto sul serio. Non è stato difficile entrare, una parte della cinta muraria dava sulla strada che portava alla tangenziale, e quella parte del cimitero, che io conoscevo bene perché ci passavamo sempre per andare a visitare i nostri morti, non aveva altre protezioni da eventuali intrusi. Così superare il muro ed introdurci nel camposanto non fu niente di che, non certo un’impresa su cui spendere parole. Il giorno dopo anche Fabio disse che in fondo si aspettava qualcosa di più da quell’incursione notturna. Chi si poteva spaventare per i lumicini delle tombe che brillavano nell’oscurità? Roba da quattro soldi.
Di quella notte rimase solo una certa fama nella scuola e un set fotografico — ovviamente anonimo — che girò molto su internet. E la sensazione, che Massimo mi confidò solo molto tempo dopo, stupendosi che anche io l’avessi provata, che qualcuno ci stesse osservando.

Ebbi qualche difficoltà a trovare il muro che separava il cimitero dal mondo esterno: erano passati anni dal nostro blitz notturno, e mi trovavo in una delle zone nuove, dove non ero mai stato primo. Così dovetti vagare un bel po’ tra le tombe, con la paura di essere scoperto da qualche custode, prima di riuscire ad orientarmi e a raggiungere il luogo giusto.
Scalare non fu un problema, il lato interno del muro aveva un bel numero di crepe e di sporgenze di pietra su cui era facile arrampicarsi. Tuttavia non scavalcai subito il muro, dovevo prima controllare che non passassero automobili. Ne passò una, era una Punto, il che mi fece ben sperare di non essere risorto in un lontano futuro, anche se non era sufficiente a delimitare meglio il periodo. Aspettai ancora qualche minuto, ma non si vedevano altre auto, e nel silenzio della notte non si sentivano nemmeno rumori che ne preannunciassero l’arrivo, così mi decisi a scendere dall’altro lato della strada. Dannazione alla nudità, però! Anche se non si vedeva nessuno nel raggio di un chilometro c’era sempre il rischio che qualcheduno arrivasse all’improvviso, e un eventuale incontro non sarebbe stato piacevole né per me né per lui. Per questo mi guardai intorno cercando riparo, e lo trovai dall’altro lato della strada, dove a fianco del cancello di ingresso di una officina c’erano due grossi bidoni: corsi là, e mi nascosi dietro, l’odore non era il massimo ma era sopportabile, visto che erano vuoti. Appena mi fui accovacciato dietro ai bidoni osservai i manifesti che erano appesi ai muri che davano sulla strada: erano pubblicità di una concessionaria di automobili, ma a lato di uno si intravedeva ancora il bordo di un poster precedente che riconoscevo, essendo un manifesto elettorale. Finalmente un segnale concreto: le elezioni per il sindaco si erano tenute due settimane prima della mia morte, e anche alla luce dei lampioni si vedeva bene che il poster elettorale non era stato coperto da molto. Dunque potevo dirmi ragionevolmente sicuro che la mia resurrezione si era verificata poco dopo la mia morte, quasi sicuramente dopo il funerale.
Per un po’ queste conclusioni mi fecero sentire bene: poter scartare l’idea di essere stato proiettato in qualche periodo remoto, in cui ero una entità inesistente mi dava un sollievo che potete immaginare. Ma se siete in grado di immaginarlo facilmente è perché siete vivi, avete una famiglia, una rete di relazioni sociali, e siete in grado di immaginare come sarebbe la vostra vita se improvvisamente vi trovaste in un altro tempo in cui non conoscete nessuno e anzi nemmeno dovreste esistere, a rigor di logica. Il solo pensiero del vuoto pauroso in cui verreste a trovarvi vi fa saggiare con mano la pienezza della vostra vita attuale.
Quella che io non ho più.
Me ne resi conto lentamente, ma fu un duro colpo: se ero tornato poco dopo la mia morte, allora i miei genitori (a meno di improbabili infarti da lutto) erano ancora vivi, e lo stesso dicasi per gli altri miei parenti ed i miei amici. Sarei dovuto tornare da loro, ma come avrebbero reagito?
Difficilmente mi avrebbero considerato un impostore, e se anche lo avessero fatto penso che sarebbe basta qualche analisi a dimostrare che ero proprio io. Più probabile una prima reazione di gioia senza domande, abbracci, lagrime e grida del tipo “è un miracolo!”; ma poi? Avrei dovuto spiegare loro che ero risorto, e forse mi avrebbero creduto. Anche gli amici, magari con qualche difficoltà in più. Ma tutti gli altri?
Una notizia così si diffonde subito: ragazzo ucciso torna in vita. Tra l’altro, nel mio caso ci sarebbero anche un bel po’ di prove documentate: il mio omicidio, prevedibilmente finito nelle pagine di cronaca locale e anche nazionale (ora che ci penso, sono curioso di leggere le notizie della mia morte sul giornale, devo fare un salto in biblioteca); il funerale, che avrà richiamato un certo numero di persone; e ora il mio innegabile ritorno. Altro che tutti quei casi misteriosi di persone in coma che secernono oli miracolosi, o di giornalisti che sostengono di essere stati rapiti dagli alieni: ho tutte le prove in pugno per dimostrare che non sono un truffatore. Ma a che servirebbe? Non mi crederebbero lo stesso. Magari nella mia città sì, poi allargandosi alla provincia, all’Italia, al continente e al mondo aumenterebbero sempre di più gli scettici e quelli convinti che si tratti di una grande montatura. Naturale, del resto, no? Anche io reagirei così se mi trovassi dall’altro lato dell’evento.
Ma se mi credono? Scienziati da tutto il mondo verrebbero a studiarmi; teologi ed esponenti di parecchie religioni vorrebbero parlare con me; pellegrini, di sicuro, a frotte, magari torme di malati, affetti dai morbi peggiori, di quelli la cui sola vista provoca turbamento, cercherebbero il contatto con me. Non avrei più una vita privata, sarei travolto da questa ondata di estranei, senza nemmeno potermi difendere: se ho avuto la fortuna di risorgere, non posso certo arrogarmi il diritto di impedire a loro di esaminarmi per trovare delle risposte ai loro dubbi, ai loro problemi, alle loro paure. Arriverei al colmo del paradosso: tornando in vita, morirei, perché non esisterei più per quello che sono, ma solo in quanto risorto. E in questo infausto destino sarebbe coinvolta anche la mia famiglia. Tra l’altro, sono davvero sicuro che mi accetterebbero? Sono miei parenti, certo, ma sono anche individui: l’idea di vivere con una persona tornata dalla morte sarebbe accettabile? Io stesso l’accetto solo perché ho sperimentato il ritorno, anche se non lo capisco, come un dato di fatto, ma per gli altri anche la sola idea può essere insopportabile.
Riflettevo su tutto questo, e sempre più sentivo l’angoscia montare dentro di me: già riuscivo a fatica ad accettare di essere al centro dell’attenzione di milioni di persone, ma il pensiero di coinvolgere anche quelli a cui voglio bene era decisamente intollerabile. Avevano sofferto già abbastanza a causa mia, sia per la mia morte che per la mia condotta precedente; non potevo far loro altro male, non volevo. Meglio allora non farmi vedere da loro: il lutto era triste, ma poteva essere elaborato e superato, e almeno aveva il pregio di restare nel comodo alveo dell’ordinarietà.
Quindi dovevo cambiare vita, lasciare la mia città e andare altrove, in un posto dove nessuno mi conoscesse, assumere un nuovo nome e ricominciare da zero, un po’ alla Mattia Pascal. Con la differenza che il buon Mattia aveva con sé una somma consistente vinta a Montecarlo, e io non avevo nemmeno un paio di mutande. Avrei dovuto trovare dei vestiti da qualche parte, magari rubarli da quei raccoglitori che mettono vicino alle chiese, dove le anime buone lasciano gli abiti usati per i poveri, e i poveri nottetempo cercano di rubarli, rimangono intrappolati nell’astruso meccanismo di apertura e muoiono soffocati. Oppure avrei potuto aggredire qualcuno per strada, così oltre ai vestiti avrei ricavato anche un po’ di soldi, quanto basta per comprare un biglietto del treno ed arrivare in un’altra città. Avrei dovuto pensare anche ai documenti, ed ecco un nuovo problema: non conoscevo nessuno che sapesse falsificare i documenti, era un ambiente che non avevo mai frequentato. Non avevo nemmeno idea di dove andare, a chi rivolgermi: sicuramente a persone o gruppi impegnate in attività illegali, il che significava che avrei dovuto entrare in quel genere di lavori — e del resto cos’altro avrei potuto fare, senza soldi e senza identità?
Uno scenario non certo allettante: non potevo definirmi un bravo cittadino, ma comunque mai mi ero immischiato con bande criminali o simili. Avrei dovuto farlo adesso? E a prescindere dai miei scrupoli etici, anche il riuscire ad arrivare a tanto, e a ottenere nuovi documenti e nuova identità, senza farmi scoprire prima era oggettivamente difficile, almeno per me. Ma non c’era altra strada, se non quella di dichiararmi urbi et orbi un risorto, e diventare un fenomeno da baraccone, costretto ad ascoltare domande a cui non sarei stato in grado di rispondere.

Sono le stesse domande che mi pongo ora: perché sono risorto?
Cerco di individuare tutte le possibili risposte, di selezionare le più probabili per via logica. Non è un granché, visto che in questa storia è proprio la logica ad essere stata bandita prima di ogni altra cosa, ma non sono in grado di fare altro.
Escludiamo l’idea che accada a molti, e tutti scompaiono creandosi un’altra vita come ho pensato di fare anche io. Se anche fosse vero, non risponderebbe all’interrogativo principale. Escludiamo anche la possibilità della pazzia: potrebbe anche essere, ma ovviamente se sono pazzo non posso saperlo.
Chiarito questo, la prima possibilità è che sia arrivato il giorno del giudizio. Ma se così fosse tutti dovrebbero risorgere, e dovrebbero succedere grandi sconvolgimenti, e invece non mi pare che ci siano altri nella mia condizione, e la vita della città, e suppongo anche del mondo, va avanti come sempre. Tendo a scartare questa ipotesi.
La seconda opzione è che io sia tornato in vita per compiere una missione affidatami nelle alte sfere. In tal caso, i papaveri dell’Empireo devono essere incappati in qualche disguido burocratico perché quello che mi manca, disgraziatamente, è proprio la missione, per non parlare della conoscenza stessa dell’aldilà, che dovrei avere — perché so di essere stato da qualche parte, anche se non mi ricordo dove — ma non ho. A pensarci bene, è questa la disgrazia peggiore della mia già disgraziata situazione. Prima di morire dicevo sempre che se avessi visto un fantasma sarei stato la persona più felice del mondo, perché almeno avrei saputo cosa c’è dopo la morte, e mi sarei regolato di conseguenza. Ora sono morto, sono tornato e continuo a non sapere cosa c’è dopo. Se nel Guinness dei primati c’è una sezione dedicata alla sfortuna, mi prenoto di corsa (ma essendo sfortunato non posso dimostrare niente, quindi nemmeno posso entrare nel catalogo dei record). È un problema perché, come se non bastassero tutte le incertezze sul futuro che questa condizione di risorto mi crea, adesso ho anche un bel carico di questioni teologiche che non so come affrontare. E già, perché se almeno questa resurrezione fosse utile per mettere dei paletti nell’intrico delle religioni potrei avere qualcosa con cui consolarmi, e magari potrei inventarmi un lavoro come teologo. E invece no, non mi aiuta in alcun modo. Stando alle mie scarse conoscenze in materia di religione soltanto nel cristianesimo è contemplata la resurrezione, non nella forma in cui sono risorto io ma insomma, qualcuno che si è alzato dalla tomba c’è. Però in quello che mi è successo c’è ben poco di cristiano, non dovrebbe funzionare così. La prova definitiva che la Sacra Romana Chiesa sbaglia? Purtroppo no, perché resta il fatto che sono un caso isolato, e se ora sono qui ci potrebbe benissimo essere un motivo che non confligge con la dottrina, del resto se il Signore è onnipotente può ben fare quello che vuole, no? Anche se di solito l’onnipotenza divina viene relegata in secondo piano, perché altrimenti non si può spiegare più niente e ogni religione perde senso, quindi meglio accettare il dogma che Dio è onnipotente però sceglie di limitare la propria onnipotenza, per qualche disegno non ben specificato.
Comunque, tornando al discorso di partenza, l’idea della missione è viziata dal non sapere in cosa consisterebbe. Magari devo incontrare qualcuno che mi spiegherà cosa fare, ma per il momento non ho ancora visto nessuno, e l’idea mi sembra sinceramente strana: non facevano prima a dirmelo subito? Perché dovrei ricevere informazioni da altri? Forse non sono ancora pronto per la missione che mi è stata affidata, e ho bisogno di una crescita interiore in stile Xīyóu Jì, ma questo vorrebbe dire che ero predestinato sin dalla nascita a questo scopo. Se fosse così, potrei smettere di preoccuparmi, ma purtroppo non ci sono elementi a favore di questa possibilità, se non il fatto di poterla ipotizzare. E poi, se dovessi ricevere istruzioni su quel che devo fare, perché togliermi la memoria di ciò che mi è successo nell’aldilà, pur lasciandomi la consapevolezza di esserci passato? Non ha il minimo senso.
Magari sono stato io stesso a scegliere di tornare dall’aldilà. Può darsi che ci sia questa possibilità, e che la usino in pochissimi perché da morti si trovano meglio, mentre io ovviamente sarei tra gli stupidi che non si accontentano e si cacciano nei guai. Ma anche questa idea non mi convince, perché conoscendomi se avessi deciso di tornare prima mi sarei informato sui modi. E sarò cretino, ma non al punto da accettare le condizioni in cui mi trovo adesso.
A questo punto resta l’ultima possibilità: il mio ritorno è una punizione. Le modalità sembrano suggerire proprio questo: se torno in vita, non mi ricordo niente, non ho speranze di riprendere la mia esistenza precedente alla morte e in più sono dilaniato da dubbi e incertezze, al punto che ho più paura di vivere che di morire, al contrario di quasi tutti gli esseri umani, non può essere che una punizione.
[A proposito: ma ora che sono risorto, posso morire di nuovo? Ecco un’altra domanda, come se non ne avessi già abbastanza per la testa. Ho un corpo fisico, provo delle sensazioni. Se mi do un pizzicotto sento dolore, se tiro un pugno ad una parete sento ancor più dolore, quindi in teoria posso anche sperimentare un dolore mortale. Posso morire di nuovo, a quanto pare. Ma poi risorgerei ancora? E ancora e ancora e ancora? Cos’è, l’eterno ritorno in formato speciale?]
Una punizione. Ma per quale motivo? Nella mia vita avrò commesso molti errori e molti peccati — ma non sapendo quale sia la divinità che ho offeso, e i suoi criteri di giudizio, chissà quali sono davvero questi errori — però non credo di essermi comportato peggio di tanti altri che non mi pare abbiano subito la mia stessa sorte. O forse ho violato un tabù, senza accorgermene. Però se non l’ho fatto apposta mi sembra una reazione eccessiva, e nemmeno tanto utile, visto che non so quale sia questo tabù, quindi volendo potrei ripetere di nuovo l’errore. O forse la punizione è per qualcosa che ho fatto dopo la morte. È più probabile. Se si era ribellato a Dio Lucifero, che era un angelo e quindi si suppone avesse un po’ più di cervello degli individui comuni, figuriamoci se non può ribellarsi una mente infinitamente più stupida quale è la mia. Vattelapesca il motivo, ce ne sarà stato uno (l’ultima ribellione senza motivo è stata quando a quindici anni ho preso un vaso cinese dal salotto di casa e l’ho messo di nascosto nella busta della roba vecchia da bruciare nel falò del 9 dicembre), e sicuramente doveva essere un motivo idiota: può esistere un motivo intelligente per ribellarsi alla divinità?
Può anche darsi che non sia stata una ribellione, ma un errore di altro tipo: anche nell’oltretomba forse si può sbagliare, e figuriamoci se non sbagliavo qualche cosa. Mi riesce un po’ difficile immaginarlo, ma se ragiono in termini generali l’idea di aver fatto qualcosa che non dovevo fare dopo la morte mi sembra la più credibile. Spiega la punizione, e la forma della punizione. Sì, più ci penso e più mi convinco che deve essere andata così. Muoio. Finisco nell’aldilà, qualsiasi esso sia. Qui combino il patatrac. Le alte sfere per punirmi mi fanno risorgere nudo e senza memorie utili, condannandomi quindi ad una seconda vita decisamente precaria e difficile, oltre che lacerata da inquietanti interrogativi. Non fa una grinza. Al 90% è andata così.
Cazzo, però.
È mai possibile finire così? Essere cacciati dal paradiso, o dall’inferno o da quello che è? E tra l’altro subito, nemmeno qualche millennio di eternità, pochi giorni. A meno che non abbiano voluto fare proprio i bastardi facendomi tornare indietro nel tempo, a pochi giorni dalla mia morte, apposta per confondermi di più le idee. È un’ipotesi balzana, ma come si fa ad escluderla, già la mia resurrezione dimostra che non ci vanno per il sottile, chiunque essi siano. Uso il plurale perché non riesco a immaginarmi una divinità singola che gioca così con la vita delle sue creature, preferisco immaginare un consesso di numi, una sorta di consiglio di amministrazione divino impegnato in un perpetuo brainstorming (e chissà che figata deve essere un brainstorming di onniscienti!): quando si è in gruppo è più facile decidere cose terribili senza battere ciglio, crogiolandosi nella comoda convinzione che il proprio parere negativo sarebbe stato comunque inutile di fronte alla compattezza altrui. Quale megadirettore, per quanto stronzo, licenzierebbe un padre o una madre di famiglia? Ma un consiglio di dirigenti lo farebbe a cuor leggero, ognuno di loro potrebbe affrontare il neodisoccupato dicendo “Non se la prenda con me, è stata una decisione del consiglio”. Allo stesso modo un gruppo di divinità può mandare un defunto allo sbaraglio per punirlo di qualche insignificante meschinità, perché sono troppo modesto per credere di aver fatto qualcosa di seriamente intollerabile per lorsignori.
D’accordo, sto sragionando. Utilizzo criteri di giudizio umani per valutare l’operato di dei, o comunque di creature superiori, e non ha senso. Me lo dicevano anche nella prima vita, quando sciorinavo i miei ragionamenti logici sulle contraddizioni della dottrina cattolica mi rispondevano immancabilmente che la fede poteva sussumere questi contrasti e risolverli. Certo, non lo nego: ma io non avevo la fede per crederci (e ora che potrei avere fede, non so in cosa credere), avevo solo la mia razionalità, e nemmeno tanta, ma quanto basta per ritenere assurde le cose in cui mi si chiedeva di credere. Che dovevo fare? Che dovrei fare ora? Rinnegare me stesso? No.
No.
Ha un bel suono.
No.
“Sapete dire solo no”, parola di insegnante, di ingegnere, di politico. Giudizio negativo quanto mai esplicito. Ebbene, è vero. Non l’ho rivendicato quand’ero in mezzo ai cortei, o tra i miei immusoniti compagni di liceo, o nell’angolo di una discussione, ma lo faccio adesso, e scusatemi se uso il plurale ma è vero, sappiamo dire solo no (non a caso dico “è vero” e non “sì”). Ma è un no che viene dal cervello, non dalla pancia. Il cervello è una rovina, è una macchina che semina dubbi e uccide gli istinti, anche quelli che se soddisfatti ci darebbero gioia. Ma purtroppo è quello che abbiamo, e allora lo rivendichiamo. E diciamo no. A cosa servirebbe il cervello se dovessimo dire sì? Per accettare quanto detto dagli altri non occorre certo il pensiero. Meglio rifiutare.
Mi fa sentire meglio.
Le divinità possono togliermi la memoria, possono togliermi il futuro, possono vanificare tutto il mio passato. Forse potrebbero anche togliermi la logica, ma hanno deciso di non farlo. E se volevano punirmi, hanno sbagliato a non farlo, perché in questo dibattito interno, in questo tentativo di razionalizzare l’assurdità del ritorno dalla morte, io affogo la mia paura. Faccio filosofia da quattro soldi, ma è la mia filosofia. Questa non me l’hanno tolta, questa uso.

La notte della mia resurrezione sta volgendo al termine. Sono ancora nudo, ma troverò dei vestiti. Male che vada, aspetterò che passi un’auto della polizia e mi farò vedere, finisco dentro per oltraggio al pudore ma almeno mi daranno qualcosa da indossare. Però mi chiederanno le generalità, e allora sì che inizierà un bel casino. Pazienza. Comunque vivo in un paese civile, più o meno, non sarò condannato a morte. E se anche fosse, penso che la sopporterei bene.
Canto, e mi incammino verso l’ingresso del cimitero, osservando i cipressi che svettano alti e quasi festosi.