di Miriam Milani

gilberto_squizzato.jpgEsiste un problema di censura all’interno del servizio pubblico televisivo? La risposta immediata è: sì. Non è un problema, sono molti problemi. I casi più noti affiorano istantaneamente alla memoria del lettore. Il cosiddetto “editto bulgaro” comminato a Biagi, Santoro e Luttazzi. O i problemi con Raiot della Guzzanti. Il silenzio imposto alle giornaliste Carmen Lasorella e Alda D’Eusanio, tenute a stipendio senza che sia loro permesso lavorare. Il caso di Oliviero Beha e Radio Zorro. Il recente richiamo dell’Antitrust circa lo squilibrio con cui si dà voce e immagine ai partiti in corsa elettorale. Tutti bocconi amari che evidenziano quanto la politica interferisca nei piani editoriali di un’azienda pubblica, alla luce dello schermo catodico. C’è un caso ulteriore che, a nostro avviso, evidenzia con più danno questa policy, un caso in cui evidentemente non è la politica a intervenire, ma unicamente processi aziendali interni, e che va a tacitare ingiustamente uno dei pochi artisti interni alla Rai. Mi riferisco al silenziatore triennale imposto al regista Gilberto Squizzato [nella foto], autore di docufiction e film per la tv di alto spessore culturale e anche di successo di audience (come il suo Don Mazzolari, che ottenne uno share altissimo e venne distribuito in allegato a Famiglia Cristiana). Da anni è impedito a Squizzato di lavorare: perché? Il danno è quadruplice: ovviamente per il regista, poi per l’azienda che rinuncia a una risorsa artistica, quindi per l’essenza stessa e la missione del servizio pubblico, e, last but not least, per lo spettatore.

Il lavoro di Gilberto Squizzato (già aiuto regista di Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Dario Argento, prima di venire chiamato a RaiTre direttamente da Angelo Guglielmi) ha ottenuto riconoscimenti non soltanto a livello nazionale, tra i quali si segnala il prestigioso Premio Flaiano. Gli sono stati infatti assegnati riconoscimenti di valore assoluto, tra cui il Premio della Critica al Festival Internazionale della televisione di Montecarlo o il Premio Europeo Federico Motta. I suoi lavori sono stati selezionati a Berlino, a Ginevra, a Venezia. Un curriculum che in Rai pochi vantano e che segnala Squizzato come uno dei registi più interessanti e artisticamente di valore del nostro comparto tv.
La spiegazione di un simile curriculum sta nella rivoluzione estetica, tematica e addirittura produttiva che Squizzato ha imposto con i suoi “real movie” (così la critica, da Aldo Grasso ad Antonio Di Pollina a Norma Rangeri hanno classificato le fiction apparentemente documentarie del regista lombardo).
Anzitutto i temi, che vertono sempre su emarginazione, critica al mercato dissennato, precariato, condizione giovanile, nodi insoluti della società contemporanea e addirittura (nell’ultima fiction, Suor Jo, firmata con lo scrittore Giuseppe Genna) connessioni internazionali, geopolitica, dramma dell’immigrazione, terrorismo. Questa è soltanto la pàtina su cui la cinepresa del regista Squizzato indaga. In realtà le puntate delle sue fiction sono tutt’altro che realistiche e possono essere guardate con occhio differente, poiché trattano di dilemmi teologici e morali, cioè materie a cui l’audience del Grande Fratello o di X-treme non è abituata.
L’estetica fredda, innovativa, quasi brechtiana, con cui Squizzato conduce gli spettatori nel cuore di tragedie che sono umane di fronte al silenzio di un Dio che testimonia senza intervenire, è anche dovuta all’estrema povertà di mezzi con cui il regista si è trovato a realizzare le sue opere (che qualche anno fa ottennero, in un’intervista di Godard su Repubblica, una legittimazione artistica pressoché definitiva). Gilberto Squizzato si è inventato infatti un modello produttivo che schianta le abnormi cifre (e i giri politici di raccomandazioni a partita doppia) con cui la fiction italiana si trascina secondo canoni irrealistici. Il modello di Squizzato è il “low budget”, cioè la produzione di ore di tv ad alta valenza artistica con somme vertiginosamente inferiori alla fiction patinata, quella che oltretutto non esprime alcuna valenza artistica e dispone di teatri di posa, casting sontuosi, strutture industriali.
D’altro canto, se è intuibile un progetto che investe Squizzato, è quello della difesa di una linea di produzione interna alla Rai, che convochi anche giovani autori, o attori dal cachet irrisorio ma fortemente caratterizzati per la capacità di espressione artistica, al fine di rinnovare i linguaggi, gli schemi desueti e le griglie stantie a cui la tv italiana ha abituato il pubblico, al quale dovrebbe fornire un servizio. Ed è proprio questa linea di produzione che è stata osteggiata e interrotta, finendo nel calderone dello smantellamento della sede milanese (anche in termini di riduzione del personale).
L’ultima opera di Gilberto Squizzato ad avere il placet della direzione di RaiTre per andare in onda è stata la fiction Suor Jo. Inizialmente programmata per la seconda serata di un giorno infrasettimanale, in quattro puntate, fu relegata al sabato notte, intorno alle 23.45, con il taglio di una puntata. Essa definisce l’evoluzione di un percorso artistico che è passato per “docufiction” (un ulteriore modello su cui Squizzato è arrivato con ampio anticipo rispetto alle tendenze attuali della tv) quali I racconti di Quarto Oggiaro, Atlantis, La città infinita, Il tunnel, che costituiscono le stazioni di un continuum artistico, sempre votato a una sperimentazione di mezzi estetici e cinematografici.
Suor Jo è stata realizzata nel 2005. Dopo di che, il silenzio.
Ci si chiede cosa induca la Rai, e in particolar modo RaiTre e il suo direttore Ruffini, a costringere a bella posta un regista come Squizzato a restare inattivo e a frustrarne la capacità creativa, a stipendiarlo e rifiutargli progetti di fiction e documentari che lo stesso regista, dipendente Rai, presenta instancabilmente. Il danno che si perpetra su un artista è sempre altissimo, quando silenziosamente la censura ne impedisce l’espressione. Nel caso di Squizzato, è come se (fatte le debite differenze) la tv polacca, dopo la messa in onda del Decalogo, avesse deciso di non fare lavorare più Kieslowski. Ma nel caso della tv polacca sotto regime comunista, questo rientrava nei giochi. Nel caso di Squizzato non si comprende davvero quali siano i giochi, nell’Italia democratica del 2008, e che senso abbia mettere in freezing un artista che porterebbe rinomanza al servizio pubblico per cui lavora, danneggiandone la creatività (e forse non soltanto la creatività) in maniera pesantissima.