periferiaroma.jpgdi Christian Raimo

Per esempio oggi sono a San Cleto. È domenica. C’è uno dei primi soli che dicono che già a febbraio è piena primavera. Passo ore a girare per le strade vuote, a spiare tra i balconi, a chiedere informazioni ai polacchi, a chiacchierare con il parroco, a veder sfilare i poveri — uomini imponenti in tuta che si accomodano un’espressione da bambini in faccia che sia credibile prima di rivolgersi allo sportello della Caritas, ci torno lunedì, mercoledì, altre volte, il sabato successivo, la mattina, il primo pomeriggio, a ora di pranzo, mi fermo a mangiare sempre dalla pizzeria casertana, ascolto lei la pizzaiola che si lamenta della crisi, la merciaia che si lamenta della crisi, i clienti che entrano che si lamentano della crisi, citofono al mio amico Giuseppe, mi impiccio tra i negozi, faccio domande ovvie, assaggio il caffè nei vari bar con la barista che mi dice qual è secondo lei la differenza tra qui e San Basilio (“Se sei di San Cleto, entri e mi dici buongiorno, se sei di San Basilio entri e mi dici Aho! Me fai ‘n caffè!, e io, guarda, ci sono nata e cresciuta a San Basilio…”), mi chiedo, le chiedo se è vero che il migliore caffè viene fuori verso le nove nove e mezzo quando la macchina si è scaldata ben bene dopo quattr’ore di attività, e alla fine dopo una settimana mi sento — come al solito — quasi empatico, a casa.

Anche se, anche se c’è sempre un’impressione, una realtà, che, pure se mi sta davanti agli occhi, non riesco a definire bene, a dire cosa sia, che mi sfugge.
È forse anche per questo che spesso quando capito in libreria, cerco qualcosa che mi parli del posto dove sono vissuto per i trentadue anni della mia vita: ossia un libro illuminante, anche arbitrario, anche impressionistico, anche parzialissimo, immaginifico, ossessivo, idiosincratico, sulla periferia romana. Non soltanto un volume ben curato su questo o quel quartiere, che, anche se è raro, esiste: per dire, Città di parole (Donzelli, 2007) o La periferia perfetta (Franco Angeli, 2006) — studi emblematici, uno di storia orale, uno di sociologia urbana, tutti e due su Centocelle. Oppure: Osservatorio Nomade. Immaginare Corviale (Bruno Mondadori, 2006), Tor Bella Monaca: una risorsa per la periferia di Roma (Aracne, 2006)… No, quello che vorrei è uno sguardo che racconti questa specie di civiltà a se stante, questo comune paesaggio visivo, questo contesto umano atomizzato, che per me e per i due milioni di persone (il 70% dei romani, stando a quello che si dice) che ci vivono in periferia credo sia così familiare — a San Cleto come altrove.
Ragazzini con lo skateboard sotto il culo che scivolano per le strade vuote la domenica dopo la messa; grandi cartelloni di reclame di Spazio Cucine; nicchie con la Madonna con qualche ex-voto che si accavalla agli adesivi pubblicitari di gente che sgombera cantine; bar con cartoncini bristol attaccati alla vetrata con su scritto “Qui il miglior caffè del mondo”; vecchie con le spalle da uomini con i cani lasciati all’entrata che giocano alle slot-machine accanto ai muratori maghrebini in pausa pranzo; babbi natali appesi ai balconi anche a febbraio; barbieri che espongono le locandine d’invito alle catechesi neocatecumenali…
Non so se sia soltanto un’idea mia questa definizione identitaria. Però è pur vero che quest’assenza di racconto non l’ho notata soltanto io, se nel saggio introduttivo di un libro appena uscito dal Saggiatore, Le città visibili. Spazi urbani in Italia, cultura e trasformazioni dal dopoguerra a oggi, Sergio Pace lo dice esplicitamente che insomma negli ultimi vent’anni su Roma non è stato scritto molto. O meglio c’è una discreta quantità di studi urbani pieni di dati, documentazioni, statistiche e anche qualche libro apertamente politico, come quello che ha edito l’anno scorso Odradek, (Modello Roma. La modernità ambigua), e c’è il celebrato libro di Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica — 1870-1970. Ma poi? Dopo questo 1970, viene da chiedere, che cosa è successo? E soprattutto, che cos’è stata, che cos’è diventata la periferia romana? Che vuol dire viverci? Qual è il suo carattere?
Uno scrittore che ogni tanto manifesta una passione per quest’oggetto aeriforme che è la periferia, Beppe Sebaste, rispondeva alle mie domande tempo fa, dicendo: “La periferia è semplicemente il posto dove la gente abita”. Ed è una definizione perfetta che dice almeno due cose. (Una) che la periferia è il posto della gente, è il luogo della realtà, è il momento in cui l’umanità che non deve dare all’esterno un’immagine di sé: la periferia è la casa delle persone. (Due) che la gente in periferia, almeno a Roma, non fa molto altro che abitarci — che una cosa un po’ diversa da viverci.
Ed è quindi sintomatico che forse l’unico libro che ragioni sull’essenza della periferia a Roma, sia proprio un libro-studio del Cresme, uscito l’anno scorso, intitolato Abitare la periferia. Un resoconto di come è cresciuta, metro cubo dopo metro cubo, la città. Tra abusivismo edilizio incoraggiato, tollerato e condonato, e i piani per l’edilizia popolare che dalla metà degli anni ’60 hanno colonizzato tutta la corona dentro e fuori il Raccordo Anulare.
Alla casa, alla lotta per la casa, ai movimenti per la casa, ai comitati per ottenere la vivibilità dei quartieri appena costruiti sono legate praticamente tutte le vicende collettive delle zone periferiche. Dalle battaglie degli anni ’60 alle occupazioni di oggi, sembra che la vita politica, o meglio la vita sociale di quartiere, sia nata e sia morta, e ancora nasca e muoia legata ai diritti e alle possibilità dell’abitare. La casa costruita, ottenuta, condonata, arredata, ristrutturata, curata, dotata di allarmi: la casa — come mostrava Richard Sennett in Usi del conflitto — che diventa il solo campo in cui vivere desideri, conflitti, progetti. Paradossalmente, la vita domestica — che sia famigliare o co-abitativa — che prende in sé l’intero spettro della vita sociale.
E il quartiere? Si svuota. Di significato e di vita, appunto. Può essere “un posto tranquillo” come mi dice il parrocco di San Cleto. O può essere “un posto pericoloso”, come qualcuno di qui pensa a certe zone popolari di San Basilio distanti neanche un chilometro, dove il semi-fallimento dei campi rom ha fatto defluire i camper di chi ci abitava. In entrambi i casi, in fondo, un posto da non vivere. Un posto che è altro da te.
Ma non sarebbe bello, mi immagino, che tutta questa gente a cui la città appartiene uscisse dalle proprie case? Che s’interessasse non soltanto alla disposizione del proprio arredamento o all’organizzazione del proprio menage settimanale, ma si inventasse l’aspetto e la vita di questi luoghi? Che non si preocupasse semplicemente della copertura della linea adsl, ma s’interrogasse su chi è e sul mondo che vorrebbe a partire dalla stupida strada in cui abita? Del resto è, questa, una domanda che rivolgo anche a me.