di Girolamo De Micheleblitris.jpg

Blitris, La filosofia del Dr. House. Etica, logica ed epistemologia di un eroe televisivo, Ponte alle Grazie, 2007, 206 pp., 12 euro

in appendice: una selezione di videoclip su Gregory House

La presenza di un discreto numero di medical-fiction è uno dei tratti caratteristici della programmazione televisiva dell’ultimo decennio. Sulla strada aperta da E.R. (serie non a caso ideata da Michael Crichton, medico prima che regista e romanziere), i palinsesti americani ed italiani si sono via via riempiti di serie ambientate in ospedali o centri medici, i cui protagonisti sono quasi esclusivamente operatori medici. La novità, rispetto a fiction del passato, sta nella centralità narrativa di quello che in precedenza era sfondo o contesto: il fatto medico fa ruotare attorno a sé ogni altro aspetto esistenziale, e riconnette al proprio interno il senso dei frammenti di vita che agiscono al pronto soccorso di Chicago piuttosto che all’obitorio di Boston o all’ospedale di Seattle.

Il successo di pubblico sembra denotare, al di là degli aspetti puramente tecnici – sceneggiature ben scritte, personaggi convincenti e complessi, regie non banali, attori di spessore, aperture al sociale non occasionali né strumentali, narrazioni avvincenti – l’avvenuta assimilazione di quel processo di medicalizzazione del corpo e della società che è stato profondamente indagato da Michel Foucault. Il sapere medico si propone, nelle società disciplinari e post-disciplinari, come sapere totalizzante, in grado di operare qualsivoglia connessione di senso e di ridurre il disordine espressivo ed esistenziale del corpo. L’accettazione di questo terreno rende possibili la piena comprensione, all’interno di questo orizzonte di senso, della quotidianità un tempo messa a registro dalle soap sentimentali a struttura familiare. g_house.jpgAl tempo stesso questo terreno di senso mostra, a dispetto delle proprie pretese teoriche, una interna friabilità dei suoli, una frastagliatura dei margini che permettono la sovversione interna di questo codice di lettura: si pensi a come in diverse fiction il corpo lesbico e omosessuale (ma anche i soggetti sieropositivi o tossicodipendenti, con le proprie aspettative di una vita degna di essere vissuta) sfugge alla riduzione medicalizzante della passione non-eterosessuale, ricreando quel paradosso, a suo tempo evidenziato da studiose della comunicazione come Luisa Passerini e Milly Buonanno che nelle figure femminili nelle fiction a cavallo tra gli anni ’70 ed ’80 constatavano come «la fiction alimenta i processi di differenziazione dei corsi di vita delle donne, proponendo diversi e legittimi modi di essere donna, dando spazio alle trasformazioni rispetto ai vecchi stereotipi e ruoli».
Negli ultimi anni il mondo delle fiction è stato attraversato da piccoli sommovimenti interni, causati da inattesi sovvertimenti degli indici di ascolto da parte delle comunità degli spettatori. Tra questi, un caso particolare è rappresentato dal Dr. House (House Medical Division) che, partita senza grosse pretese, ha conquistato schiere di spettatori prima in America e poi in Italia (dove i programmatori di Mediaset hanno dato prova di un irritante dilettantismo nella gestione di un successo inatteso). Diversamente da programmazioni come Survivor (una sorta di Isola dei famosi studiato da Jenkins nel suo Cultura convergente) e Lost, la serie incentrata su Gregory House non ha dimensioni ipertestuali, livelli paralleli on line, ecc.: il suo successo, a parte la straordinaria recitazione dell’attore Hugh Laurie, sembra poggiare sulla sola dimensione narrativa. Eppure anche questa serie ha dato vita ad una attiva community, come testimonia la grande quantità di videoclip autoprodotti e trasmessi su You Tube. A fare un po’ di luce su questa intrigante serie contribuisce ora La filosofia del Dr. House, scritto a otto mani dal collettivo filosofico Blitris (composto da quattro ricercatori di filosofia dell’Università di Genova). Un collettivo che si muove nell’ambito del post-strutturalismo francese, e che sembra voler riconoscere alla filosofia il compito di ricognizione e chiarificazione dei linguaggi e degli oggetti della quotidianità, animati dal convincimento che «non ci sono cose degne o indegne di attenzione filosofica, ma solo modi buoni o cattivi di fare filosofia sulle cose. Tutte le cose»: in una fase di profonda crisi della filosofia, non è un compito da poco. E Gregory House non è il più facile degli oggetti da assumere per una fenomenologia dei comportamenti. Logico e illogico al tempo stesso, impermeabile ad ogni regola – «House non disobbedisce alle regole, le ignora e basta. Non è Rosa Parks, è un anarchico» – ma anche portatore di un particolarissimo imperativo etico: non lasciare nulla d’intentato per sconfiggere la malattia (NB: sconfiggere la malattia, NON curare il malato), nella convinzione che per un medico la propria sconfitta, cioè la morte, sia «un sintomo incurabile». Detto altrimenti, House si relaziona all’evento (la malattia), obbedendo a un imperativo incondizionato la cui forma, diversamente da Kant, non è universale, ma assolutamente singolare. L’etica della singolarità, da Kierkegard a Deleuze, è proprio questa: mentre l’agire dell’eroe tragico «ha il suo fine nell’universale, nel bene universale, il Singolo sospende l’etica e le sue regole perché il suo fine è mettersi in relazione con l’altro assoluto al di là dell’universale». Appoggiandosi all’etica di Alain Badiou, Blitris ricorda che la situazione clinica non significa altro che «curare questa persona che glielo domanda fino in fondo, con tutti i mezzi di cui conosce l’esistenza». Con ogni mezzo necessario significa per House utilizzare qualunque procedimento logico, sapendo che né la deduzione né l’abduzione (né l’induzione, aggiungo) sono metodi infallibili, e prima o poi capita di dover «inventare l’ipotesi sorprendente e la legge inaspettata che consentono di definire la diagnosi». Una teoria ben formata ma priva di verificazione empirica non regge: la realtà, afferma House, «è quasi sempre sbagliata», non si piega al letto di Procuste della teoria generale. In questo senso House è (come lo era l’empirismo radicale di W. James) un nichilista, ma anche un soggetto profondamente morale per il quale «giusto e sbagliato esistono. E il fatto che non sappiate cos’è giusto non vi solleva dalle responsabilità». Senza voler sembrare kantiano, mi permetto di aggiungere: che questa iper-etica della singolarità, che questo imperativo fondato sulla concreta vanificazione dei principi universali incontri il successo di un vasto pubblico è, se non una prova, almeno un indizio del fatto che tale etica è possibile. La stessa recitazione di Hugh Laurie sembra ribadire, sul piano dell’espressione, questa continua sovversione di ogni generalità che si dà a livello contenutistico: Laurie, attore proveniente dal teatro shakespeareano che nel cinema ha finora dovuto esprimersi sui registri comici, incarna quella versatilità tragicomica che Beckett richiedeva agli interpreti del proprio teatro, facendo di Gregory House, secondo una felice espressione di Deleuze e Guattari, «un faro che strappa all’ombra un universo».

versione riveduta dell’articolo pubblicato su Liberazione il 31 gennaio 2008

Appendice
Alcuni tra i migliori videoclip ispirati da Gregory House

You can’t always get what you want
brokeback hospital
it must be love
its no good
mr. boombastic
casablanca
where is my mind?
everybody needs somebody to love
all you need is love
friends will be friends
i’ll be there for you
i don’t like monday
stayin’ alive