peace_tokyo.jpgdi Giuseppe Genna

E’ un successo internazionale il primo romanzo della “trilogia giapponese” di David Peace, uno degli autori di genere storico-nero più celebrati al mondo (Granta ha scommesso su di lui, l’editoria Usa lo ha acquisito). Già autore del mitologico Red Riding Quartet (in Italia: 1974 e 1977 da Meridiano Zero; Millenovecento80 e Millenovecento83 per Tropea, ora passati al Saggiatore), Peace da tredici anni vive a Tokyo, sposato e con tre figli, ed è da quel privilegiato osservatorio che ha deciso di costruire un immenso e penetrante affresco sul Giappone, osservato attraverso casi reali di cronaca nera. Un’impresa da titano, che ha la sua conferma sorprendente in questa prima tappa della trilogia: Tokyo anno zero (il Saggiatore, € 17) è un romanzo mozzafiato, lineare e corale al tempo stesso, ambientato tra il ’45 e l’anno successivo, quando il Sol Levante muta storia e ancora dilaga la devastazione della guerra mondiale e dell’occupazione americana.

davidpeacejapan.jpgE’ un libro di svolta nella produzione di Peace [nell’immagine a destra]. Nulla di ciò che ha creato autentici club di accaniti fan dell’autore nativo dello Yorkshire viene perduto in questo spostamento decisivo nella carriera letteraria di Peace. Le ossessioni, lo stile, le percussioni psicotiche, le descrizioni della desolazione e della caduta, gli abominii di un serial killer – tutto è non soltanto intatto, ma addirittura potenziato, grazie allo straniamento che è l’esito naturale dell’ambientazione e della ricerca storica prodigiosa messe in campo da Peace. Ciò che muta è piuttosto la struttura, che si fa lineare, semplice, nella più classica tradizione noir. Un elemento freddo, un filo trasparente e resistentissimo, teso tra il tremendo incipit e lo sconcertante finale. In questa ricerca monocola, si muovono folle immani di diseredati, in una Tokyo che potrebbe sembrare Kinshasa e invece è il corpo storico che è ridotto al suo grado zero al termine della guerra e in seguito all’abdicazione impensabile dell’imperatore.
L’occhio che cerca e che fugge da memorie ignote ma terribili è quello dell’ispettore Minami, capo di una squadra della polizia civile che è sottostaffata, vessata dalle imposizioni degli occupanti statunitensi, priva di mezzi e di autorità. La squadra di Minami è sulle tracce di un serial killer – o, almeno, così si suppone – che ha lasciato dietro di sé vittime sempreuguali: ragazze che, in preda alla fame e alla cerca disperante di un lavoro, vengono stuprate e massacrate, nascoste o abbandonate all’aperto, in un parco, nell’impressionante sfascio sociale e urbanistico della capitale giapponese messa in ginocchio. Minami emblematizza le ossessioni dei protagonisti memorabili di Peace: non dorme, gli servono calmanti che costano informazioni e che può procurarsi soltanto dal nuovo capomafia che governa il mercato generale, ha una famiglia che ignora e verso la quale si sente in colpa, si intrattiene tra deliri presso un’amante che eleva a deità della purezza e dell’idealizzazione, è sempre in moto macinando chilometri a piedi tra abitanti che cercano qualunque cosa (alimenti, oggetti da rivendere, pietre grezze addirittura) tra rovine di casamenti e carcasse di cani, è assediato da sospetti interni e cospirazioni che fioccano ovunque, in una confusione assordante che sovrappone le urla di disperazione di gente comune, assassini e corrotti, giornalisti e puttane infette che intrattengono i militari USA, funzionari e testimoni occasionali, cadaveri e scheletri non metaforici.
Le compulsive ripetizioni à la Peace (soprattutto le parole giapponesi: il tichettio dell’orologio, i colpi di martello…) mettono soprattutto in luce una realtà autentica e allucinatoria al contempo, cioè che “oggi nessuno è quello che dice di essere. Nessuno è quello che sembra…” (a partire dal cambio di identità di massa degli appartenenti alla polizia militare, che cercano in questo modo di salvarsi dalle epurazioni dei vincitori) – una situazione febbrile, psicotica se osservata attraverso lo sguardo dai capillari rotti per l’insonnia dell’ispettore Minami.
Questo ritmo che non dà fiato, che liricizza al parossismo la prosa eppure conquista il lettore prendendolo alla gola, è percorso da un altro classico stilema utilizzato da Peace: tra le parti del libro, un fiume di fango e sangue scorre inarrestabile, ed è una descrizione, continuamente interrotta, della guerra con la Cina, realizzata in una prosa clamorosamente poetica – un elemento chiave, poiché il fiume va a raggiungere nel delta il finale oceanico del libro ed è una verità anticipata ma irriconoscibile, posta davanti ai nostri occhi mentre ancora non è comprensibile. Una scelta linguistica, strutturale e immaginativa che dimostra quale coraggio contraddistingua questo autore. Coraggio che, si noti, assume dimensioni enormi quando si constata che questa storia non fa perno sull’orrore, decisivo, consumato a Hiroshima e Nagasaki, nominate soltanto una volta nell’intero corpo del libro. Riuscire a comporre una storia appassionante, storicamente accertata e descrittivamente prodigiosa di Tokyo nel ’46 e farlo senza ricorrere all’appoggio naturale della bomba atomica – è tutt’altro che manierismo: mostra quanto David Peace sia capace di penetrare nella devianza della mente e del reale, utilizzando alla perfezione il canone noir per farlo internamente esplodere con visioni infernali, connesse al male che è il contagio più naturale della sconfitta e della caduta, dell’errore e dell’azzeramento dell’umano ad animale da preda.
Tokyo anno zero (il cui titolo è un evidente omaggio a Germania anno zero di Rossellini) è un inabissamento in una realtà che sembra parallela e che invece fu storica e a noi giunge, grazie a Peace, con un vento tempestuoso, un ciclone per nulla esotico, privo di radioattività ma colmo di immagini spettrali, facendo sbattere violentemente le persiane delle sicure casette monofamigliari della nostra narrativa.