di Tito Pulsinelli

JovenVenezuela.jpg1 – Presidente Chávez

Hugo Chávez è la conseguenza di un collasso sociale, che si produsse ai tempi in cui il grido di battaglia modernista era “zero Sato, tutto il potere alle imprese (multinazionali)”. Era l’epoca in cui il monopensiero metteva la mano sul fuoco che la soluzione era moltiplicare la produttività, poi i benefici sarebbero automaticamente e liricamente affluiti all’intera società. L’importante era produrre, altrimenti non poteva esserci ridistribuzione sociale. Il PIL scatenava euforie isteriche, tutto il resto erano arcaismi e obsolescenze umanitarie. Fu così che in America Latina, addomesticata da Pinochet, venne applicatato integralmente il kit neoliberista.

Andò a picco persino il Venezuela, nonostante l’elevato status comparativo garantito dalla corposa rendita petrolifera, e un edificio politico ritenuto fino ad allora solido. Il 24 di febbraio 1989, il partito AD (Acción Democrática) — aderente all’Internazionale socialista – si piegò all’ennesimo diktat del FMI, firmando così il suo destino.
Poche ore dopo, si scatenò una insurrezione metropolitana di massa, che prese la caratteristica dei saccheggi generalizzati e prolungati. Da Caracas si estese a tutti i centri urbani. Mandarono in strada l’esercito: fuoco contro la folla, la repressione ebbe un costo ingente in vite umane, tuttora rimasto segreto. Nessuna “socialdemocrazia” moderna ha sulla coscienza tante vittime. L’eredità di quelle sconvolgenti giornate sono le attuali organizzazioni popolari con base territoriale estesa e capillare.

Crollò il bipartitismo e la credibilità di tutte le istituzioni, dilagò la diserzione elettorale, e si aprì un abisso tra la rappresentanza politica e i problemi quotidiani della cittadinanza. Si creò un vuoto che il successivo governo — prima coalizione bipartitista – non riuscì nemmeno a intravedere, impegnato com’era a trovare la maniera di rendere più commestibile il medesimo menù fondomonetarista. Zucchero nell’olio di ricino.

Luis Giusti, lo zar dell’industria petrolifera statale, trasvolò direttamente alla corte dei Bush, nella squadra degli esperti sugli idrocarburi. Lo seguì a ruota Moises Naim, e la sua missione venne continuata da Teodoro Petkoff, la stagionata vedette del neoliberismo di sinistra europeo.
Costui, alla testa del dicastero delle finanze, si dette un gran da fare per “modernizzare” e imporre le ragioni del sano “realismo economico”. Cannoneggiò la previdenza sociale e trasferì allo Stato il peso della bancarotta fraudolenta dei banchieri in fuga verso Miami. La sua priorità assoluta era il pagamento delle rate al FMI. Il prezzo del barile di petrolio era di 8 dollari, ma il governo continuava a essere il crumiro della OPEC.

Hugo Chávez seppe interpretare il malessere generale contro i partiti, e diventò un punto di riferimento cavalcando l’“antipartitismo”, indicando una via di uscita dal tunnel e il ritorno al rispetto del bene comune. Gli interessi nazionali tornarono al centro dell’attenzione, e si cominciò a dire che dovevano essere difesi dallo strapotere delle multinazionali.
Con la sua potenzialità carismatica, Chávez sedimentò un vasto e articolato schieramento di forze sociali e politiche attorno all’idea del “buongoverno”, e del necessario recupero dell’identità e della dignità nazionali.
Affiorò lentamente il nucleo del progetto di Chávez, in cui era rilevante l’accento sullo “sviluppo endogeno”, la sovranità sulla ricchezza petrolifera, l’indipendenza e l’autonomia economica.
La sintesi di questo progetto era il sentiero “albero delle tre radici”: ritorno alle fonti della nazione venezuelana, a Bolivar-Rodriguez-Zamora, alla lotta anticolonialista per l’indipendenza, e all’integrazione degli afro-indo-euro venezuelani e americani. La sintesi: raggiungere la seconda Indipendenza.

Il progetto di uno “sviluppo nazionale” disancorato dai grandi centri finanziari intenazionali, era possibile recuperando il controllo pieno dell’industria petrolifera statale PDVSA, che non doveva più essere uno “Stato nello Stato” al servizio della tecnocrazia che la dirigeva, degli Stati Uniti e dei partiti.
Chávez parlava di “seminare il petrolio”, cioè destinarlo allo sviluppo, alla spesa sociale e all’inclusione della cittadinanza attraverso l’istruzione, assistenza medica e sicurezza sociale. In quel periodo, erano frequenti i riferimenti a “terza via” e “tanto Stato quanto sia necessario, tanto mercato quanto sia possibile”.
Questo “riformismo radicale” portò rapidamente alla Costituzione del ’99, ampia e garantista, affermativa di molti diritti sociali e individuali. In essa sono evidenti i riferimenti a un’economia mista e una domanda di giustizia antica: eliminare il latifondo, per rendere finalmente produttive le grandi distese di terre incolte del sud.

Tuttavia, tra il 1999 e il 2002, furono molto limitate le politiche sociali, e la redistribuzione ai settori più bisognosi si percepì come insufficiente, o inferiore alle necessità e alla gravità della situazione.
Quando il governo designò una nuova dirigenza alla testa di PDVSA, la destra razzista e reazionaria e i suoi padrini nordamericani, credendo di capitalizzare lo scontento esistente, sferrarono il golpe dell’11 aprile. I venezuelani si strinsero attorno a Chávez e alle risorse nazionali minacciate, e PDVSA passò definitivamente sotto il controllo effettivo del governo.
I soldi presero ad arrivare finalmente all’erario pubblico, e fu possibile iniziare a “seminare il petrolio”. Lo Stato-sociale, da aspirazione passò ad assumere forma e sostanza.

Questo, però, produsse la prima importante frattura all’interno del campo bolivariano, che corrispose allo scontro tra i partigiani dello Stato-sociale e quelli che si limitavano al “buon governo”, e che non digerivano la lotta al latifondo e la nuova ricollocazione internazionale del Paese.
Costoro raggiunsero le fila dei settori oltranzisti, e collaborarono attivamente alla successiva organizzazione del bimestre eversivo della fine del 2002: serrata padronale, paralisi dell’industria petrolifera, chiusura delle banche, sospensione dei rifornimenti alimentari ai centri urbani.
Si trattò di una vera guerra economica combattuta senza armi, con danni simili a quelli inflitti dall’aviazione israeliana in Libano: 20 miliardi di dollari. I voti, senza la lotta, non conferiscono un potere reale sull’economia e sull’insieme della società.

L’oligarchia e gli Stati Uniti, però, pagarono un prezzo politico molto alto. L’avventurismo per la restaurazione forzata contribuì a cementare sempre più la volontà popolare attorno alla personalità carismatica e al progetto diretto da Chávez. Il campo bolivariano fece un gran balzo in avanti, nutrendosi principalmente degli errori degli avversari storici, e facendo leva sulla forza orizzontale e multiforme delle reti territoriali popolari.
Aumentò esponenzialmente il consenso, in primo luogo quello elettorale, e il progetto dello “sviluppo nazionale” conquistò ampi spazi.
Da questo momento, il governo riuscì a prendere il sopravvento ed eseguire la politica redistributiva, conosciuta come “misiones”. La sua decisa politica internazionale multipolare, che poggia sull’accresciuto peso geopolitico degli energetici in questa fase storica, consolida il ruolo di apripista del Venezuela e rafforza la sua solidità finanziaria.

Il governo nazionalizzò la Parmalat in sfacelo, una fabbrica di cellulosa e una branchia importante dell’energia elettrica. Riassunse il controllo della ex-rete telefonica pubblica, evitando così che nei settori strategici si formassero poli monopolisti privati. In questo modo, indusse un abbassamento delle tariffe della telefonia fissa e mobile.
Gli operai della “Sanitarios Maracay” occuparono la fabbrica e diedero inizio a una esperienza di autogestione, però finora il governo non l’ha espropriata. Elettricità e telefonia sono strategiche, le ceramiche no. In generale, il governo si attiene al principio di garantire un mercato in cui esista la pluralità dell’offerta, e interviene nei settori che valuta come strategici.

2 – Comandante Chávez

A fine gennaio del 2006, chiudendo il Foro Social Mundial di Caracas, Chávez sorprese tutti dicendo che ”un nuovo mondo è possibile, se sarà socialista”. Fu la prima volta in pubblico. Invitò a guardare avanti e sollecitò una discussione senza paraocchi.
Lo scettiscismo sulla convenienza di ricorrere a una categoria vecchia ed eurocentrica, si stemperò di fronte alla consapevolezza che ambiva ad essere qualcosa all’altezza del secolo XXI. Nei mesi successivi, però, si moltiplicarono riferimenti e slogan riconducibili ad altri contesti geografici e storici.
Per la creazione dell’ “uomo nuovo” si sono spese invano tutte le religioni, ma nell’essere umano continuano a coabitare le contraddizioni e gli opposti. Il socialismo vuole esser nuovo, ma fa di tutto per assomigliare concettualmente a quello vecchio.

Nell’ultimo trimestre dell’anno scorso, durante la campagna presidenziale che si concluse con un superlativo 65%, Chávez insistette molto sulla necessità dell’amore nell’edificazione del nuovo Paese e dell’integrazione regionale. E, di tanto in tanto, alludeva al nuovo socialismo.
All’inizio di quest’anno, Chávez passò al “socialismo, patria o morte”. E’ forte il salto logico tra amore e morte, passando per il socialismo. Questo stridore venne di nuovo all’occhio quando delineò l’equazione “voti per il Presidente uguale voti per il socialismo”.

E’ una forzatura che confonde il consenso alla politica governativa, al bilancio positivo delle sue realizzazioni, o al progresso che va eliminando l’esclusione sociale, con il via libera a un altro tipo di società. Si confondono le ragioni dei militanti con quelle degli elettori, abbinata alla sottovalutazione non secondaria che – per i più – Chávez è il Presidente, non il comandante.

Il campo prospettico cominciò a dilatarsi ben oltre la durata del periodo presidenziale 2006-2012, con la diffusa percezione che era in corso una metamorfosi repentina.
Nel discorso pubblico e ufficiale, sparirono i riferimenti al sentiero delle “tre radici”, e il socialismo prese il posto della democrazia partecipativa. Si va verso qualcosa che non è stato elaborato colletivamente, e che è ancora indefinito.

Gli obiettivi prioritari per il 2007 erano l’edificazione del Partito socialista (PSUV) e la riforma costituzionale. Sul partito, c’è una esortazione pressante — per lo più disattesa – alla dirigenza dei quattro partiti bolivariani ad autodissolversi e confluire nella nuova formazione. Una fusione decisa dall’alto, quasi un assemblaggio di apparati depurati, che tutt’oggi è in forte ritardo: non esiste ancora un programma, nè uno statuto, in compenso è noto il responsabile della commissione disciplinare.

Contemporaneamente, venne formata una commissione che impiegò sette mesi a redigere quel testo della riforma costituzionale appena bocciato nel referendum, che poi stazionò altri due mesi in parlamento per ulteriori modifiche aggiuntive. Alla fine, rimasero due soli mesi perchè fosse diffusa, discussa e votata. Prendere o lasciare. La scarsa partecipazione è un dato inappelabile per chi finora si è ispirato alla democrazia participativa; massime quando sono in gioco trasformazoni di fondo.

Il referendum ha messo in luce il rifiuto – o la resistenza – a una chiara accelerazione impressa dall’alto, che ha trovato lo scettiscismo della società e il disorientamento nella base bolivariana. Quest’ultima percepisce un volontarismo innecessario, e non crede che si possa forzare il passaggio a un “socialismo” così genericamente definito.
Tantomeno comprende l’utilità concreta della sua elevazione al rango costituzionale, alla luce della debolezza di cui ha dato prova il potere giudiziario (i golpisti, rei confessi in TV, non hanno fatto un solo giorno di carcere).

Sono più importanti le condizioni materiali – e il rapporto di forza tra le forze sociali – che quelle giuridiche. Queste sono necessarie a posteriori per consacrare un dato di fatto, non all’inizio.
Piaccia o no, il socialismo è ancora identificato con i modelli storici realmente esistenti o esistiti, e questi evidenziano una iper-burocrazia che dirige una economia imperniata sui monopoli statali. La propaganda avversaria ha facile gioco nell’indicare che Cuba è il modello che si vuole imitare.

Il pacchetto di proposte per la ristrutturazione della Costituzione era assortito e nutrito, però gran parte di esse sono perfettamente realizzabili da un parlamento in cui c’è una maggioranza assoluta bolivariana.
Per le 36 ore lavorative settimanali, il voto a 16 anni e la nuova previdenza sociale unificata, non sono necessari cambi costituzionali. I ministeri, nonostante siano stati ribattezzati del “potere popolare”, rimangono strutture restate inalterate da 60 anni. Il processo esecutivo delle decisioni dal centro alla periferia ha il ritmo delle tartarughe.
Il potenziamento delle istituzioni, però, non può essere limitato alle facoltà e ai poteri della presidenza, ma va esteso soprattutto agli ambiti locali e periferici.

La creazione di una polizia a base nazionale, capace di fronteggiare la richiesta di sicurezza che sorge dappertutto, persino nei quartieri popolari infestati dall’immissione di droga da parte dei “narco-paramilitares”, è una urgenza impellente prima che questi si trasformino in contropotere mafioso.
La rifondazione – o almeno una bonifica – della magistratura che è impermeabile a ogni intento di moralizzarne l’operato, è perfetamente possibile all’interno del quadro esistente.
L’unica materia su cui era indispensabile che deliberasse la sovranità popolare è la possibilità di candidarsi senza limiti alla carica presidenziale. Se a Caracas si potrà fare quel che è lecito a Parigi, Londra, Washington o Madrid è affare che compete solo ai venezuelani. Non ai potentati che hanno radici in quelle capitali.

La portata del progetto boliviariano — trasformare il Venezuela mentre si consolida il blocco sudamericano – esige la rapida formazione di un gruppo dirigente rappresentativo, capace e riconoscibile. Fissarlo permanentemente a una leadership carismatica di straordinario valore può essere una necessità della contingenza storica, però non mette al riparo dalla vulnerabilità a essa inerente.

Soprattutto in relazione alla portata delle mete da raggiungere e ai pericoli che si moltiplicheranno lungo il cammino. Basti pensare alla carestia di idrocarburi del mondo industrializzato nel prossimo ventennio, e alla depredazione piratesca con cui ci si getterà sulle riserve di una nazione di 25 milioni di persone.
Manca una istanza che assuma le funzioni delle direzioni e dei comitati centrali dei vecchi partiti storici, capace di garantire la continuità del progetto anche nei futuri scenari più nefasti.

E’ indispensabile passare a una nuova fase, che veda operare un gruppo dirigente capace di preservare la sintonia con i movimeni sociali che in questa fase — assieme alle coalizioni politiche arrivate ai governi – costituiscono le due gambe su cui cammina la trasformazione in questa latitudine.
La rivoluzione messicana perdurò perchè seppe superare le lotte intestine dei suoi caudillos, edificando un grande partito-stato che — almeno fino alla presidenza di Lazaro Cardenas – mantenne fisso il timone e concretizzò la nazionalizzazione del petrolio.

3 – Qui e ora

Il referendum è stato un monito contro “accelerazioni e profondizzazioni”. E’ prematuro mettere la quarta, ma non dice affatto che ci vuole un cambio di rotta, men che mai un dietrofront. Suggerisce che è una fuga in avanti guardare al 2020 e ridursi a parlare troppo spesso con la lingua di legno degli ideologismi.
E’ comunque un imperdonabile lusso da spreconi sottoutilizzare il potere reale di una maggioranza assoluta nel potere legislativo, a meno che non si sappia bene che cosa farsene.

E’ tempo di tornare a dare un’importanza prioritaria al fronte interno, e riequilibrare una attività che si è sbilanciata troppo sul terreno geopolitico, a cui ha dedicato grande attenzione e risorse.
Ritornare al terreno delle cose concrete della vita quotidiana: controllo dell’inflazione galoppante, sicurezza alimentare, situazione degli ospedali, trasformazione profonda di tutte le istituzioni, vigilare affinchè le attività intraprese vengano effettivamente realizzate, sanzionare i disonesti, rimuovere gli incapaci.

I considerevoli risultati raggiunti nella sanità e nell’istruzione devono essere consolidati, perchè sono stati ottenuti agendo obligatoriamente al di fuori – e parallelamente – ai ministeri esistenti. Era indispensabile, vista la loro scarsa affidabilità.
Oggi, però, devono essere incorporati alle rispettive istituzioni, altrimenti rischiano di trasformarsi in doppioni, dove è più difficile mantenere a bada la corruzione.
D’altronde, se non si è in grado di riformare le università, la magistratura, la polizia o la sanità, diventa una velleità pensare agli “ismi”, sia pure costituzionali.

Lo Stato venezuelano possiede una forza finanziaria di tutto rispetto, che deriva dai giacimenti di materie prime (più la ricchezza idrica, biodiversità, territori vergini) che ne fa — assieme alla Russia – la maggiore riserva mondiale. Questa leva economica poderosa colloca nell’ordine del possibile non solo un robusto Stato sociale, ma anche la messa in cantiere di uno sviluppo basato sull’equità e l’equilibrio ecologico.
Il settore privato, però, è quello che impiega oltre l’80% dei salariati, e non è certamente rimpiazzabile dall’oggi al domani.

Riconoscere la sua funzione, rendendola compatibile con il bene comune, o metterlo progresivamente nel congelatore, perché lo Stato possa contare su crescenti mezzi propri per erigere un altro sistema produttivo parallelo, può essere materia di discussione che riguarda le prospettive future.
Oggi, è indispensabile pensare che non si esce dalla mono-esportazione di materie prime e dall’importazione di tutto il resto, senza uno “sviluppo nazionale” che è possibile solo con il concorso di tutte le componenti produttive e sociali esistenti.
La trasformazione reale del modello economico è quella che riuscirà a rompere questo schema pietrificato.

Il potere politico bolivariano non ha ancora dispiegato tutte le sue potenzialità. Il blocco sociale che si è appena affacciato sulla scena ha cominciato a delineare il nuovo egemonismo, ma è ancor privo del primato sull’intero assetto sociale.
Si pensi a Evo e alla Bolivia, dove il potere legislativo, costato dolore e sangue, non è ancora sufficiente per sconfiggere le élites e il loro Stato neo-coloniale. La legge per la pensione sociale agli anziani è pronta, è coperta dalle maggiorate imposte fiscali all’esportazione del gas… ma per tramutarla in realtà bisogna infliggere una sconfitta storica all’oligarchia. E dimostrare che il Paese può funzionare senza di loro, e che può funzionare meglio.

L’egemonia sociale travalica la sfera della politica e del potere governativo, anche se senza di queste è difficilmente realizzabile. In Venezuela, sul terreno culturale, non esiste ancora un quotidiano capace di condurre le battaglie che la situazione impone. Le reti televisive pubbliche affogano in un’alluvione di dibattiti, e sono solo microfono-tavolo-sedie, cioè la parola. La Tv viene usata come una radio.

Il tesoro della rivoluzione bolivariana è un movimento popolare che sa articolare la socialità dandole radici nella territorialità. Ogni iniziativa ha una propria base territoriale salda. La base sociale è sempre riuscita a conservare l’autonomia e l’operatività della propria azione rispetto allo Stato, ai partiti clientelari o ideologici. Lo dimostrò nella riposta immediata contro il golpe dell’11 aprile. Oggi è più collaudata, e dispone di linee di comunicazione interna e logistica più sviluppate, grazie anche alle iniziative del governo (400 radio comunitarie).

Questo movimento viene da lontano, è figlio delle lotte del passato, e ha assimilato la sconfitta continentale della via guerrigliera al potere, senza mai rinunciare all’offensiva. Emerse alla luce con il “caracazo”, che fu allo stesso tempo doglie e vagito dolorosi. Diede impulso alla succesiva ribellione dei militari nazionalisti del 4 di febbraio del 1992, con cui assunse protagonismo pubblico il lavoro politico clandestino svolto all’interno delle forze armate dal Partito delle Rivoluzione Venezuelana, da Douglas Bravo e dalla sinistra rimasta indomita.

Chávez, con la parola e con l’esempio, si è trasformato nella bussola che ha indicato un percorso agli scontenti, agli emarginati e ai defraudati. Il suo pragmatismo e la mancanza di definizione programmatica sono stati decisivi per arrivare al punto in cui il Venezuela si è inoltrato.
L’unità civico-militare è una condizione indispensabile per i processi di trasformazione reale nelle Americhe. I movimenti sociali sono indispensabili a Hugo Chávez, a Rafael Correa e a Evo Morales, senza di essi potrebbe fare solo amministrazione ordinaria dell’esistente, all’interno delle coordinate prestabilite dal FMI.

Agli apologeti interessati di un “trionfo” elettorale dell’1%, agli astrologi che profetizzano amnesie collettive e “pentimenti”, a tutti quelli che scambiano i propri desideri con la realtà, dedichiamo queste parole di Raúl Zibecchi:
“Quelli che fecero un’insurrezione nel 1989, che affossarono il sistema corroto dei partiti nel ’90, frenarono e ribaltarono un colpo di Stato nel 2002 e sconfissero una serrata petrolifera nel 2003, perchè dovrebbero lasciarsi manipolare dall’impero e dall’oligarchia? La rivoluzione bolivariana continuerà perchè la gente dei “cerros”, sia quelli che votarono Sì che quelli che si astennero, lo ha deciso giorno per giorno, da quasi vent’anni a questa parte”.