di Enzo Fileno Carabba

Abete.bmp[NOTA: Abbiamo omesso il capitolo IV del romanzo di Carabba perché è già apparso su Carmilla: vedi qui. Si tratta di un capitolo essenziale, che consigliamo di rileggere, perché in esso il protagonista scopre i suoi “poteri paranormali”.]

5. IL GIORNALISTA SULLA RUSPA

All’epoca in cui manifestavo le mie perplessità circa le apparizioni di Gesù Bambino, mi fu chiesto — forse con preoccupazione – cosa volevo fare da grande.
Il giornalista sulla ruspa! Risposi io, senza esitare.
Dissi giornalista perché volevo essere come papà. Di ruspisti invece in famiglia non ce n’erano. Ma dissi ruspa pensando a gru (non conoscevo bene le parole). Non c’erano neanche gruisti in famiglia, se è per questo. Ma io immaginavo di scrivere i miei articoli lassù per aria, in cima a una gru gialla. In alto, in bilico a cento metri da terra, lontano da tutti.

Mi piaceva quando la sera mio padre tornava a casa e raccontava alla mamma i fatti del giornale. Non è che ci capissi granché, ma era emozionante. Spesso si trattava di scontri sindacali, grandi battaglie. Su di me questi racconti hanno sempre avuto un effetto vivificante, proprio per come li raccontava mio padre. Mi sembrava di ascoltare Napoleone o Giulio Cesare: anche le sconfitte erano vittorie e in ogni caso alludevano a una vita degna di essere vissuta.
In cucina c’era un tavolo rosso su cui mio padre accumulava i giornali e mi sembrava che fossero favolosi piani di battaglia. Il tavolo ogni tanto assorbiva degli articoli, non so come, forse era magico, forse era umido, fatto sta che aveva questi pezzi di giornale tatuati sopra. Osservando bene quel tavolo tatuato, non avresti trovato solo articoli relativi al cinema o utili alle strategie sindacali, ma anche brani da giornali quali Trotto e galoppo, specializzati nelle corse dei cavalli, con – segnati a penna, con una strana X – i cavalli da giocare. Io comunque le battaglie sul lavoro e le corse dei cavalli le percepivo come un’unica cosa. C’erano in entrambi un azzardo e un brivido, qualcosa di generoso. E poi anche studiare i tempi dei cavalli era un lavoro.
Tuttavia, anche se ogni tanto andavo all’ippodromo, intuivo che non mi sarebbe piaciuto trovarmi in un’assemblea.
Infatti avevo notato che in mezzo alle persone – specie se numerose e agitate – i miei poteri mentali si affievolivano. In particolare erano le feste coi miei coetanei ad azzerarmi le facoltà paranormali, ma anche un’assemblea immaginavo potesse avere un effetto debilitante.

Si potrebbe pensare che avevo paura dei pensieri degli uomini come il modenese aveva paura dei loro sogni. Ma non era proprio questo.
Se devo dire la verità, non mi sentivo interamente umano. Non come mi pareva si sentissero gli altri, almeno. Questi esseri così diversi da me, se in branchi troppo numerosi, mi frastornavano. Avevo bisogno di spazio. Infatti mi sentivo a mio agio nei paesaggi inospitali, quelli che gli altri definivano “inospitali”. Per me “inospitale” era una parola positiva. Se dovessi dare il nome a una tenuta, oggi, potrei anche chiamarla “L’inospitale”. Se durante un viaggio mia mamma diceva “guarda che landa desolata, è tanto se salviamo la pelle”, io provavo subito una grande soddisfazione. Mi piaceva anche ficcarmi nei cespugli, nei rovi, o stare in mare. Ma non sulla spiaggia, che per me era solo un luogo di passaggio, una specie di purgatorio, ma proprio in acqua, possibilmente sotto, lontano, dove gli altri non arrivavano.
Andavano bene anche certi alberi. Non necessariamente lontani, in verità. Quello che contava era l’atmosfera che irradiavano,la loro aura. Percepivo i loro sogni. Sogni lenti, che li avvolgevano per mesi come una nube.
Mia nonna Nadia aveva due abeti enormi. Io mi ci arrampicavo e arrivavo più alto del tetto della casa, che già era alta. Ricordo ancora l’odore e il sapore di quegli abeti. Non che li mangiassi, ma l’abete ti pervade, ti entra anche negli orecchi. Insomma, lì mi sentivo di essere veramente io. Penso che ancora, se uno volesse veramente conoscermi, dovrebbe salire con me su un abete, anche se non posso garantire che ne valga la pena.
Mi incastravo tra quei rami stretti stretti, mentre mi graffiavo la mia mente andava a mille e senza bisogno di giungere a una conclusione. Stavo lì in estasi, attraversato dai pensieri: miei e dell’abete. In verità crescendo ho cominciato a preferire i pensieri dei castagni o delle querce, perché i pensieri degli abeti sono più cupi. Ma allora non me ne rendevo conto.
E poi sugli abeti è difficile districarsi ma è anche difficile cadere, perché hai un sacco di rami che ti proteggono. D’altra parte è facile perdere un occhio, con tutti quei rami, ma non si può avere tutto.
Arrivavo quasi in cima e quando c’era vento oscillavo paurosamente, una cosa bellissima.
Solo anni dopo ho letto Il barone rampante di Calvino, un grande libro di sicuro, ma per me il barone si arrampica in modo troppo lezioso e asettico, non mi ci sono riconosciuto. Io con gli alberi avevo un rapporto fisico. Non sono arrivato al punto di quel mio amico che strusciandosi alla corteccia ha perso per così dire la verginità, trovavo anzi la cosa leggermente ripugnante, ma mi limito a dire che non puoi salire su un grande albero senza graffiarti e sudare.
Quando ero sulla cima che penzolava di qua e di là, la mia fantasia dilagava, riempiva le colline tutto attorno. Un giorno capii che fino ad allora mi ero sbagliato: i miei poteri mentali erano alimentati non tanto dallo studio della scienza, quanto dalla solitudine dei luoghi inospitali. Tuttora, quando mi trovo solo nei Territori Selvaggi, mi sembra di essere immune dal tempo. Mi sento così vivo che potrei morire, in quei momenti, senza problemi. Ma spero di non essere preso alla lettera.

In realtà poi io ho sempre avuto questo mito mentale della solitudine eroica ma sono sempre stato circondato di persone. Diciamo che mi piace la solitudine breve. Dopodiché ho bisogno di compagnia. Di condividere le cose con qualcuno.
Il mio amico Nicola veniva spesso in campagna con me. Salivamo sull’albicocco della nonna perché c’erano le albicocche, quando c’erano. Mi faceva impazzire perché io gli raccontavo cose clamorose e lui a qualsiasi cosa mi rispondeva: E allora?
In effetti è una domanda che può smontare chiunque.
Potevo dirgli: sai, forse mi bocciano. Oppure: sai, ieri sono saltato da un albero all’altro. Oppure: sai, ho avuto un’idea bellissima. Oppure: sai, sono stato eletto bambino dell’anno.
E lui implacabile: e allora?
E avreste dovuto vedere con che faccia di bronzo.
La nonna Nadia, quando scendevo dall’abete o dal ciliegio e le esponevo i risultati delle mie alte meditazioni, diceva: che vlocco, che vorrebbe dire che sciocco, affettuosamente, immagino in romagnolo, visto che la nonna era romagnola.
Nicola invece si limitava a ripetere quel “e allora?” che era un’obiezione radicale, una chiave che serviva non a aprire tutte le porte ma a chiuderle, se erano porte aperte verso il passato.
Diciamo che era un bambino d’azione, sempre pronto a lanciarsi in qualche impresa, attratto dal futuro.

Durante la mia permanenza sull’abete (perché in verità il mio preferito era uno, e credo che la cosa fosse reciproca) ero giunto alla conclusione che bisognava prepararsi a lasciare il pianeta Terra. Era una cosa abbastanza urgente. Perché avevo letto che nel giro di qualche miliardo di anni il nostro sole si sarebbe gonfiato fino a occupare e dunque annientare il sistema solare.
Io, che in cima al mio abete ero al di là del tempo, sentii quella scadenza di qualche miliardo di anni come terribilmente vicina. L’umanità doveva prepararsi a lasciare la Terra, non c’erano storie.
E poi andare nello spazio era come stare su una gru veramente alta. Inoltre, questo mi parve decisivo, avrei potuto scrivere articoli anche dallo spazio.
Con Nicola ci preparammo. Furono giorni frenetici. Facemmo un sacco di disegni: trascurare la fase della progettazione può rivelarsi un errore fatale. Però i disegni erano troppo complicati. Anche l’eccessiva complicazione può essere fatale. E’ la semplicità, quella che ti salva. Così alla fine trovammo non so dove un vecchio casco di motorino, forse appartenuto a Patrizia, una sorella di Nicola. E con dello scotch da pacchi ci applicammo un boccaglio.
Il lavoro fu duro, il boccaglio sgusciava via, ma eravamo enormemente soddisfatti. Al momento opportuno sarebbe bastato collegare il boccaglio a un serbatoio di ossigeno da posizionare sulle spalle e saremmo stati pronti per il grande balzo. Grande per l’umanità, ma anche per noi.
Può darsi che a guardarlo oggi il progetto appaia affrettato, ma chi può dire che l’intuizione di base non fosse giusta?
In ogni caso, di quei giorni ho un ricordo speciale. Perché quando dissi a Nicola che bisognava abbandonare il pianeta, lui per la prima volta non mi disse: e allora?